mercoledì 27 agosto 2014

Fabio Frati (oltre l'euro l'alternativa c'è)

L'intervento di Fabio Frati al dibattito del 23 agosto 2014 al Forum "Oltre l'euro l'alternativa c'è"

Fondamenti di lotta di classe (2)

Post precedente: Fondamenti di lotta di classe (1)

Il Frame


La metafora proposta nel post precedente dovrebbe essere chiara: la rottura dell'ordine dello schieramento in battaglia allude alla disarticolazione delle organizzazioni che difendono gli interessi del lavoro. Ciò può avvenire per un'infinità di ragioni, ma le conseguenze di un tale evento sono sempre gravi e, talvolta, catastrofiche. Similmente, gli altoparlanti che invitano alla resa promettendo pace, prosperità e giustizia sono una metafora dell'offensiva culturale che segue la rottura dell'equilibrio. Ciò è avvenuto, anche in Italia, con l'uso massiccio dei media e attraverso una vasta operazione politica e culturale, alla quale hanno dato man forte anche illustri intellettuali precedentemente su posizioni anti liberiste.

Lo scopo è chiaro: fare in modo che la sconfitta dell'avversario sia definitiva, e a tal fine si lavora su due piani. Sul primo il vincitore deve proporsi come clemente, disponibile ad accogliere gli sconfitti nel nuovo ordine che si intende istituire; sul secondo, occorre distruggere simbolicamente il vecchio mondo, quello per il quale combattevano gli sconfitti. I quadro interpretativo (frame) che è stato costruito in Italia prevedeva così la fine della conventio ad excludendum, quella per cui il vecchio PCI non era mai stato ammesso al governo, e contestualmente la demonizzazione crescente dello statalismo. L'operazione Mani pulite, che condusse alla scomparsa della DC e del PSI, apriva la via del governo al PCI che nel frattempo si trasformava nel PDS accogliendo la visione liberale della società. Non poteva essere diversamente poiché il vecchio PCI, sempre escluso dal governo, non aveva responsabilità politiche dirette, mentre la necessaria demonizzazione del modello statalista esigeva il sacrificio delle due principali forze politiche che, stando al governo, lo avevano implementato, sia pure in forme via via più annacquate.

Questa ricostruzione può apparire un po' forzata, ma diventa più comprensibile se facciamo ricorso, ancora una volta, ad un'analogia militare. Immaginate di voler invadere e conquistare uno Stato straniero: con quali forze di questo Stato cerchereste un'intesa? Con quelli che sono al governo o con l'opposizione? E una volta raggiunta la vittoria, se volete distruggere ogni sentimento di nostalgia nei confronti del vecchio ordine, chi è necessario demonizzare e distruggere? Non certo le forze di opposizione che vi hanno aiutato, ma proprio coloro che, in quello Stato, detenevano il potere!

Il frame costruito nel corso di tutti gli anni ottanta, e giunto a compimento con la fine della prima repubblica, era imperniato sulla demonizzazione dello statalismo. Alimentato da un'intensa e vasta campagna contro la corruzione, nella quale si distinse il gruppo editoriale Repubblica-Espresso, questo frame penetrò nelle menti degli italiani fino ad essere adottato come la principale chiave di interpretazione della realtà. L'operazione, tuttavia, non avrebbe mai potuto giungere a buon fine senza la collaborazione dei comunisti i quali videro, nella demonizzazione della DC e del PSI, l'occasione inseguita per anni di arrivare al governo. Ma anche essi furono beffati, perché l'irruzione sulla scena, nel 1994, di Silvio Berlusconi, e il successo della Lega Nord nelle regioni settentrionali sconvolsero il quadro politico.

Era però troppo tardi perché il PDS potesse ripiegare su posizioni stataliste, lasciando a Forza Italia e alla Lega la bandiera del liberismo, perché nel pieno del marasma, era il novembre del 1992, il Parlamento aveva ratificato il trattato di Maastricht. Complici dell'attacco allo statalismo, orfani della grande narrazione comunista, i vertici del PDS furono facili preda della nuova grande narrazione europeista, sebbene alla sua sinistra resistesse, ma con sempre minore determinazione, Rifondazione Comunista, che aveva votato contro la ratifica del trattato di Maastricht.

lunedì 25 agosto 2014

Chez les marxistes de l'Illinois

Nell'attesa di montare i materiali video ripresi in occasione del forum europeo 2014 organizzato dalla sinistra contro l'euro...

...gradiscano lor signori il mio intervento nel corso del diBBattito (che narcisisticamente pubblico per primo).
Errata corrige: la data del video è il 23 agosto 2014, NON il 24 agosto 2014. Excusez moi!

Link correlato: Elezioni europee: la caricatura di una democrazia!

Sono EGO un narcisista perverso?

Sinceramente, cari (pochi) followers, mi interessa la vostra opinione.

Fondamenti di lotta di classe (1)

Prologo


Una cosa che colpisce nelle battaglie dell'antichità è l'enorme sproporzione che, talvolta, si verificava tra le perdite dei vincitori e degli sconfitti. Tale sproporzione non era conseguenza, come oggi, di un'asimmetria nella dotazione di armamenti, come è stato ad esempio nella prima guerra del golfo. Anzi, spesso accadeva che fosse l'esercito numericamente più consistente a restare sconfitto con perdite straordinarie. Alcuni esempi:

  1. La battaglia di Canne (2 agosto 216 a.C.): 86.000 romani contro 28.500 cartaginesi. Perdite: 70.000 fanti, 6.000 cavalieri e 10.000 prigionieri tra i romani, 5.700 tra i cartaginesi.
  2. Battaglia di Aquae Sextiae (102 a.C.): 50.000 romani contro 130.000 teutoni e ambroni. Perdite: 1.000 tra i romani, 90.000 tra i teutoni e gli ambroni.
  3. Battaglia di Maratona (490 a.C.): 9.000/20.000 greci contro 10.000/30.000 persiani. Perdite: 192 tra i greci, 6.400 tra i persiani.
  4.  Battaglia di Farsalo (48 a.C.): 23.000 uomini agli ordini di Cesare e Marco Antonio contro 50.000 uomini agli ordini di Pompeo. Perdite: 200 tra i soldati di Cesare e Marco Antonio, 15.000 morti e 24.000 prigionieri tra gli uomini di Pompeo.
L'elenco potrebbe continuare, ma la cosa non stupirebbe gli esperti di tattica militare. Il fatto è che, fino a quando gli opposti schieramenti si fronteggiavano ordinatamente, le perdite erano equivalenti e limitate, dall'una e dall'altra parte. Quando però, nel corso della battaglia, il cedimento in un settore, o un'abile manovra del nemico, conduceva alla rottura di tale equilibrio, allora cominciava una vera e propria carneficina. I soldati della parte il cui schieramento era stato compromesso si trovavano a combattere isolatamente contro un nemico che avanzava a ranghi serrati; ne seguivano il panico e il massacro.

La situazione non è difficile da immaginare. Chiudete gli occhi e sognate di trovarvi in una pianura, fianco a fianco con i vostri compagni davanti alla schiera del nemico che avanza. Gli scudi cozzano con fragore, le lance tentano di oltrepassarne la coltre, voi piantate i piedi nel terreno e spingete cercando di difendervi e di colpire. Lo stesso fanno i soldati dell'altra schiera. Al vostro fianco e dietro di voi ci sono i vostri compagni, siete abbastanza protetti e, soprattutto, non vi sentite soli. In questa fase della battaglia le perdite sono limitate e voi avete buone probabilità di salvarvi. Molto spesso la giornata si concludeva senza che una delle due parti avesse il sopravvento, la sera si curavano i feriti, si seppellivano i morti e ci si preparava allo scontro successivo. 

Qualche volta le cose prendevano una piega diversa. Immaginate. Il vostro schieramento cede, si sbanda, vi ritrovate con pochi compagni al fianco, se non da soli, davanti al nemico che avanza a ranghi compatti. Affrontarlo è un suicidio, tentate di fuggire ma ne siete impediti dalla massa dei vostri compagni che ancora resistono. Siete stanchi, coperti di sangue e polvere, le grida della battaglia vi sovrastano, vedete morire a decine i vostri compagni, siete presi dal panico. La vostra fuga impazzita preme sulla schiera di quelli che ancora resistono scompaginandola. Gli ordini degli ufficiali sono coperti dal clamore, ogni ordine scompare e ognuno pensa solo a se stesso. Il nemico avanza implacabile e appare invincibile. Nelle retrovie si diffonde il sentore che qualcosa non sta andando per il giusto verso, prevale lo scoramento. E' un momento delicato e cruciale.

La battaglia è persa ma non è ancora il disastro. Sarebbe sufficiente organizzare una linea di difesa che, resistendo per un po', permetta al grosso dell'esercito di porsi in salvo e, a tal fine, alcuni ufficiali dalle retrovie avanzano con le forze di riserva. Tutto dipende da essi e dalla fiducia che sapranno riscuotere tra le truppe già in rotta. Prevarrà la fiducia o sarà il panico?

Quali parole grideranno gli ufficiali della riserva? A quali valori faranno essi appello? Ma soprattutto: ci sono valori ai quali fare appello? Grideranno essi che la Patria è in pericolo? Che è bello e giusto morire per difenderla? O i soldati ai quali essi si rivolgono sono solo i sudditi di un impero, non hanno una Patria, sono addirittura dei mercenari?


Migliaia di anni dopo


C'è un'altra guerra in corso, la chiamano lotta di classe. Si confrontano organizzazioni politiche. L'esito appare incerto, si combatte soprattutto nei luoghi di lavoro, nelle elezioni, sul terreno della cultura. Anche con le armi, ma in luoghi che appaiono lontani dal baricentro degli eventi. Nel cuore della battaglia, al posto delle mitragliatrici, degli obici, dei bombardieri, ci sono la letteratura, la stampa, la televisione. Voi siete lì. Al vostro fianco e dietro di voi i vostri compagni, vi sentite protetti. 

Uno dei due schieramenti ha un cedimento. E' il 1989.

Il nemico avanza a ranghi compatti. Dai suoi altoparlanti giungono inviti alla resa, all'inutilità di ogni forma di resistenza organizzata. Viene promessa non solo clemenza per i vinti, ma addirittura gli si promette un futuro radioso. Quello che avanza, gridano gli altoparlanti, non è il nemico, ma un nuovo ordine che porterà giustizia, pace e civiltà.

Chi sono coloro che ascoltano?

Sono essi uomini e donne che hanno una Patria, valori condivisi, un'identità collettiva, o un insieme indistinto di interessi individuali? 

Da ciò, e solo da ciò, dipenderà il successo degli appelli alla resistenza degli "ufficiali della riserva".

martedì 19 agosto 2014

La versione di Ego

Riporto il testo di un'intervista richiestami da Giampiero Cinelli, un blogger di Frosinone curatore del blog frosinoneinvetrina.com. L'intervista è stata pubblicata qui.

MONETA UNICA? PARLIAMONE - Giampiero Cinelli a colloquio con Fiorenzo Fraioli
Oggi trattiamo ancora di politica, e lo facciamo con un’interessante intervista a Fiorenzo Fraioli, professore e membro dell’ARS (Associazione Riconquistare La Sovranità) esperto di temi economici.
Dieci domande e risposte che vi stimoleranno molto e vi saranno d’aiuto. Buona lettura…

*********

Salve Fiorenzo, prima di cominciare a chiacchierare facciamo una piccola introduzione. Ci fornisca dei brevi cenni sulla sua vita, ci presenti l’ARS e ci dica qual è il ruolo che svolge nell’Associazione. 
Ho 58 anni e insegno elettronica nella scuola media superiore dal 1991. Prima di allora avevo lavorato come ingegnere presso l’Ansaldo nucleare e, successivamente, ho svolto attività di sistemista informatico sia in ambito industriale che in progetti per la Pubblica Amministrazione. Sono uno dei primi militanti dell’ARS e faccio parte del direttivo nazionale, insieme con altri cittadini di Frosinone, i più attivi dei quali sono gli amici Claudio Martino e Gianluigi Leone.

L'obiettivo principale dell'ARS è informare e sensibilizzare la gente sugli argomenti politici, uno dei temi più affrontati è la distorsione del sistema Euro con i danni che esso provoca…
Il compito essenziale dell’ARS non consiste nell’informare e sensibilizzare, ma nel promuovere la rinascita della militanza politica dal basso. E’ ovvio che ciò comporta anche un’intensa attività di informazione e divulgazione, ma questo è un mezzo, non il fine ultimo. Quanto all’euro, noi consideriamo un evento fortunato il fatto che sia stato un’idea sbagliata, perché il suo evidente fallimento è utile a mettere in luce gli aspetti più inquietanti e antidemocratici del processo di unificazione europea, così come questo è stato progettato e implementato.

Il progetto Euro era stato criticato ai suoi albori anche da illustri economisti, tra cui vari premi Nobel. Secondo lei, per quale motivo le forze politiche hanno deciso ugualmente di attuare l'unione monetaria? Si dice che la stessa moneta comune avrebbe accelerato l'unione politica vera e propria...
Il passaggio cruciale è stato il triennio 1979-1981, prima con l’adesione allo SME e poi con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Il motivo per cui le forze di sinistra, segnatamente il PSI e il PCI, adottarono una linea di opposizione più di facciata che di sostanza è, ancor oggi, una questione irrisolta. Resta il fatto che le cose sono andate così. Sul fronte opposto una parte dell’imprenditoria italiana, quella che ai tempi si chiamava “il salotto buono della finanza italiana", vide nello SME uno strumento per disciplinare le richieste sindacali. Infatti la necessità di mantenere l’aggancio con la parità di cambio, sottoscritta aderendo allo SME, creava un vincolo esterno che giustificava la compressione delle dinamiche salariali. Tuttavia lo SME prevedeva la possibilità di riaggiustare le parità, cosa che avvenne regolarmente. Inoltre, essendo un semplice accordo di cambio, e non un’unione monetaria, questo poteva essere rotto in qualsiasi momento, cosa che effettivamente avvenne nel 1992, quando lo SME di fatto cessò di esistere. A dispetto di questo fallimento si decise ugualmente di insistere, adottando la moneta unica il 1 gennaio 1999.
Nove anni dopo, quando è arrivato lo shock della crisi americana, ci siamo ritrovati in gabbia: non potendo uscire, semplicemente denunciando un accordo di cambio come nel 1992, l’unica strada percorribile è stata quella del rigore fiscale. Questo ha causato una crisi che, nelle attuali condizioni, è irrisolvibile. In definitiva l’euro ha danneggiato il processo di integrazione europea, ammesso che questa fosse la volontà degli architetti dell’euro, e non piuttosto un’operazione volta a trasferire il potere dagli Stati democratici per porlo nelle mani di interessi privatistici sovranazionali.

Lei ovviamente crede che le cause della crisi italiana siano da attribuire unicamente alle questioni economiche, e non a fenomeni generali come corruzione, casta, spreco. Cavalcare l'idea dominante che per risollevarsi bisogna puntare sulle riforme, sulla crescita e la riduzione della spesa pubblica, è per lei demagogico? Se sì, ci spieghi perché.

Se noi siamo corrotti e spreconi, allora lo sono anche il Portogallo, l’Irlanda, la Grecia, la Spagna, e presto anche altri paesi, per primi la Francia e la Finlandia. Paesi diversi, lontani geograficamente, con maggioranze politiche diverse, che sono entrati contemporaneamente in una crisi catastrofica. Difficile da spiegare con l’ipotesi che siano diventati tutti e nello stesso momento corrotti e spreconi! Le cosiddette riforme, che dovrebbero stimolare la crescita e la riduzione della spesa pubblica, in realtà puntano tutte nella stessa direzione: abbattere i salari, le pensioni, il welfare, considerati come un lusso che non ci possiamo permettere in omaggio al totem della concorrenza. Tutto ciò per conservare una moneta che è funzionale agli interessi del grande capitalismo sovranazionale, in spregio ai valori solidaristici della Costituzione del 1948.

L’ARS è anche molto critica nei confronti dell'impostazione della finanza odierna. Non a caso nel vostro programma proponete la cosiddetta “Restrizione Finanziaria” e un “Regime Finanziario Nazionale”. Sembrano termini intimidatori, ma in realtà hanno in sé concetti molto interessanti. Ci illustri brevemente questo punto.

Il termine che usiamo è “Repressione finanziaria”. Si tratta, né più né meno, dell’assetto finanziario in vigore dal 1933 negli USA e, a seguire, in tutto il mondo, da noi a partire dal 1936. Dopo la crisi del 1929, causata da quelli che, all’epoca, erano chiamati “capitali fluttuanti”, ci si rese conto della necessità di porre severi limiti alla libertà di circolazione dei capitali. Negli USA ciò avvenne con l’approvazione del Glass-Steagall Act, da noi con la legge bancaria del 1936. Quest’ultima fu confermata dai governi degli anni cinquanta, salvo marginali modifiche nel 1956, per poi essere rapidamente demolita in un triennio, dal 1988 al 1990. Ciò avvenne in concomitanza con il cosiddetto “SME credibile”, ovverosia l’adozione di impegni più vincolanti all’interno dello SME. Come già ricordato, due anni dopo lo SME crollava sotto il peso della sua insostenibilità.

Ma adesso andiamo nel vivo, e simuliamo un'ipotetica uscita dall'Euro: se si scegliesse di abbandonare l'Euro, i trattati internazionali prevedono due anni entro i quali completare la recessione dall'unione monetaria e dall'UE stessa. Posto che questa sia la scelta migliore e più benefica, anch’essa non sarebbe esente da compromessi e "manovre d'urgenza" da adottare al momento del passaggio. Quali sarebbero nel caso le negoziazioni da avviare con gli altri Stati e le manovre di urgenza da applicare?

L’euro è un morto che cammina. Le trattative, nel tentativo di conciliare i conflitti di interesse, sono già in corso. Tutto o quasi avviene alla luce del sole, ma non viene compreso per l’analfabetismo politico-economico di gran parte dell’opinione pubblica. L’ideale sarebbe una demolizione controllata e concordata, ma se esistesse la capacità di cooperare l’euro, pur rimanendo uno strumento di lotta di classe dall’alto e di egemonia dei paesi più forti dell’UE a danno di quelli più deboli, potrebbe sopravvivere. La realtà è che, anche in questa circostanza, i paesi e i gruppi sociali che stanno vincendo, dopo essersi avvantaggiati con la moneta unica, non si accontentano: vogliono stravincere. Per rispondere alla sua domanda, è ovvio che i primi provvedimenti da adottare dovrebbero essere la reintroduzione di vincoli alla circolazione dei capitali, cioè il ritorno alla situazione ante 1990, la rinazionalizzazione del sistema bancario, il ritorno alla lira e, contestualmente, una forte svalutazione, cioè l’adozione di un cambio con l’estero in linea con i fondamentali della nostra economia. Per un periodo transitorio, infine, l’indicizzazione dei salari e delle pensioni più basse.

Bisogna davvero temere la svalutazione della moneta che ne deriverebbe? O è solo un tabù? E che mi dice di altri tabù come l'inflazione o l'innalzamento dei tassi d'interesse?

Dobbiamo essere chiari: al punto in cui siamo ci sarà comunque un prezzo da pagare. Quanto agli “spauracchi”, come li ha chiamati, mi consenta di porle una semplice domanda: per lei sarebbe meglio continuare con una disoccupazione al 13% e un’inflazione allo zero, oppure avere l’inflazione al 13% ma la piena occupazione? Si faccia due conti e si dia una risposta. Ogni italiano dovrebbe porsi domande simili. Quanto ai tassi di interesse, con una moneta sovrana, e tenuto conto che l’Italia è in avanzo primario da almeno vent’anni, questo semplicemente non è un problema.

Un altro grande spauracchio è il debito pubblico. Ma molti pensano che gestire il debito con la propria moneta sia una soluzione molto più razionale e vantaggiosa, è vero?

Le piacerebbe poter onorare i suoi debiti semplicemente stampando dei pezzi di carta con il suo computer? Ebbene, uno Stato a moneta sovrana ha questa facoltà. E’ un bel vantaggio, del quale è bene non abusare, ma resta un vantaggio. Quel che è certo è che l’Italia non ha mai abusato di questa possibilità, nemmeno quando, prima del divorzio Tesoro-Banca d’Italia, ciò era possibile. Inoltre, come già ricordato, da più di venti anni l’Italia è l’unico paese al mondo ad avere un avanzo primario di oltre il 2%. In definitiva siamo uno dei paesi più seri, affidabili e solvibili al mondo. Il problema è sempre lo stesso: a valle di ogni scelta politica, anche la più razionale, c’è qualcuno che ci perde. Il nodo della questione è questo.

Per quanto riguarda il costo dell'energia che importiamo ci sarebbe da preoccuparsi?
Tutti i beni importati costerebbero di più, non solo i prodotti petroliferi. Tuttavia si deve guardare al saldo, ossia alla differenza tra esportazioni e importazioni. E' il saldo che determina la posizione commerciale, e da questo punto di vista si avrebbe una tendenza ad importare di meno proprio a causa degli aumenti di prezzo, ma per la stessa ragione si esporterebbe di più. Una parte delle merci importate, inoltre, sarebbe sostituita da fornitori domestici messi fuori gioco dall'euro, mentre potremo recuperare frazioni di mercato estero attraverso il recupero di competitività generato dalla svalutazione. Che questo gioco sarebbe favorevole per l'Italia è asseverato da molti studi, ma non c'è molto tempo: una volta distrutto il nostro tessuto industriale, gli effetti positivi di un'eventuale svalutazione sarebbero molto inferiori. E' il caso della piccola Grecia che, non avendo praticamente un'industria esportatrice (feta e yogurt a parte), pur avendo comunque benefici dal ritorno alla dracma resterebbe quello che era prima dell'adesione all'euro: un paese povero. Non così per noi che eravamo, e ancora siamo, la seconda potenza industriale d'Europa, e il più temibile concorrente della Germania. Ma se accettiamo il principio che, per restare nell'euro, si deve abbattere la domanda interna, come facciamo da sei anni a questa parte, tra pochi anni per noi sarà finita.

Un'ultima considerazione: si parla tanto di prendere esempio dai tedeschi, vale davvero la pena imitarli? O anche loro rappresentano in parte un mito fatto di luci ed ombre?

Lei ricorda che, ancora pochi anni fa, gli avvocati di classe dell'euro esaltavano la Spagna di Zapatero? Lei sa che, ancora alla metà degli anni duemila la Germania aveva una disoccupazione più alta della nostra? E che per tutti gli anni novanta era chiamata "la grande malata d'Europa"? Lei sa che solo dal 2004, con le riforme del mercato del lavoro che hanno abbattuto i salari del 10% in termini reali, il grande capitale tedesco ha preso il sopravvento? Le faccio un paragone calcistico: immagini due squadre di calcio, di cui una formata da calciatori di grossa stazza, e l'altra da giocatori leggeri ma in possesso di grande tecnica e velocità. Su che tipo di campo conviene giocare all'una e all'altra squadra, sul bagnato, o sull'asciutto? Ebbene, da ormai quindici anni i paesi del sud giocano la partita su un campo fangoso e pesante. Chi sta vincendo sta barando, ma il peggio è che è la nostra federazione ha scelto di farci giocare su un campo pesante! In ultima analisi, dunque, il problema è politico, e non lo si risolve solo informando. E' necessario cambiare i vertici della federazione, cioè conquistare il potere politico. Questo è l'obiettivo dei sovranisti.

Per concludere, in che modo l'ARS vuole arrivare ad avere influenza politica nell'ambito di cui si occupa? Inoltre, pensate che al momento ci siano in gioco schieramenti politici in grado di recepire il messaggio dell'Associazione e perseguire i vostri obiettivi?

L’ARS non è un partito, ma un’associazione politica. Siamo una frazione del sovranismo italiano e diventeremo un partito unendoci ad altre forze sovraniste. Non sarà un processo immediato, perché non sarà facile strappare milioni di italiani, danneggiati dall’euro e dall’Unione Europea, al sonno della ragione cui sono stati indotti, ma pensiamo di ottenere i primi risultati tangibili nell’arco di due o tre anni. Da quel momento inizierà la vera partita.

domenica 10 agosto 2014

Necessarie precisazioni...

...in merito a questo post del prof. Alberto Bagnai su Goofynomics.

Premessa


Ancora una volta il prof. Alberto Bagnai, in un suo articolo, mi cita nel solito modo irriguardoso della mia persona. Non mi esprimo sul modo in cui si comporta con altri, perché non è di ciò che voglio parlare.
Con grande abilità, in un crescendo di lievi imprecisioni, Bagnai tende ad accreditare l'idea di una concordanza politica tra me e l'amico Pasquinelli. Ebbene, di tale concordanza, nella realtà, l'unico tratto corrispondente al vero è la nostra comune (mia e di Pasquinelli - n.d.r.) convinzione di trovarci davanti a una persona di indubbie qualità ma, ahimè, segnata da una tara interiore che non gli consente di percepire la linea sottile che separa l'asprezza polemica dalla pura maleducazione.

Moreno Pasquinelli è un mio amico, una persona che mi è risultata immediatamente simpatica fin da quando lo conobbi cinque anni fa, ma sul piano politico sono molte di più le cose che ci dividono rispetto a quelle che ci uniscono. L'esatto contrario di Bagnai, le cui analisi condivido in gran parte, ma che non è un mio amico, almeno dal giorno in cui, per ragioni che non ho mai compreso, iniziò ad insultarmi anche pubblicamente. E' possibile che io non comprenda le ragioni dell'ostilità di Bagnai per miei limiti culturali, forse, ma in fondo di ciò ho smesso di preoccuparmi da tempo. Parafrasando Nietzsche: anche un crotalo si pone al centro del suo mondo e secondo la propria prospettiva lo misura. Come si può ritenere una delle due prospettive – quella dell’uomo o quella del crotalo – più vera dell’altra?

Nel suo articolo Bagnai ricorda che in occasione del nostro primo incontro gli chiesi di poterlo riprendere. Ciò corrisponde al vero, poiché vedendolo per la prima volta in quel consesso intesi istintivamente fargli una cortesia (non dovuta, trattandosi di un evento pubblico). Dimentica però di ricordare che quando, all'incirca un anno dopo, gli giunse la richiesta di Claudio Messora di intervistarlo (al tempo io ero considerato "quello che ha fatto conoscere Bagnai") egli chiese la mia opinione, ed io gli risposi senza esitazione di accettare, perché il blog di Messora valeva, in quanto a visite, almeno trenta volte il mio. Sfido inoltre il prof. Bagnai a citare una sola occasione in cui io mi sia vantato di aver avuto un ruolo rilevante per il suo successo. Al contrario, in numerosissime occasioni, anche nei commenti in numerosi blog e su FB, ho tenuto a ribadire che Bagnai deve il suo successo esclusivamente alle sue capacità.

Peccato che chi legge l'articolo in questione ne tragga un'impressione esattamente opposta, e cioè che io mi sia vantato e abbia millantato meriti che, in realtà, non ho mai rivendicato. Al punto che il prof. Bagnai, in almeno un'occasione nel corso di una telefonata, mi accusò di falsa modestia. Accusa invéro giusta, ma per le ragioni su riportate: sono io, infatti, il centro del mondo, e non il crotalo! Cosa volete che me ne importi della ridicola gloria di aver mostrato al mondo una serpe?

Similmente chi legge l'articolo è indotto alla falsa conclusione che io faccia parte, in qualche modo, di MPL e/o del Coordinamento della  Sinistra Contro l’Euro. Ciò non corrisponde al vero, cosa che Bagnai sa benissimo perché, curiosa coincidenza, il giorno 8 agosto 2014 rispondevo ad una sua email nella quale mi "rimproverava" per il post su Sollevazione dove gli si rinfacciava la frequentazione di Magdi Allam. Nella mia risposta, dopo aver sottolineato come io non abbia nulla a che fare con le sue zuffe, gli chiarivo - a margine - che sono iscritto all'ARS, come pure a Riscossa Italiana, ma non a MPL né al Coordinamento della  Sinistra Contro l’Euro.

Conclusione


Tutto ciò premesso, e limitandomi rigorosamente alle questioni che riguardano la mia persona, pronunzio la seguente epitome: Bagnai travisa, sia pure con consumata abilità di scrittore, la verità dei fatti! Ma allora, se ciò avviene per la mia modesta e insignificante persona (a parte l'ovvia circostanza che io sono il centro del mondo), in che misura tale inclinazione vizia le sue argomentazioni su questioni di maggiore portata? Può, Bagnai, essere considerato un testimone affidabile e corretto delle affermazioni e delle posizioni dei tanti con cui egli polemizza?

Nella serena consapevolezza che la risposta è dentro di me, ed è quella giusta, vado a dormire poiché l'ora è tarda e, domattina, mi attende una solitaria e pensosa  passeggiata sugli scogli.

Nota: questo post è stato segnalato in un mio commento all'articolo su Goofynomics, che forse sarà pubblicato... o forse no.