lunedì 6 aprile 2015

Indirizzarsi verso una politica economica alternativa che tenda al superamento dell’ordinamento capitalistico

Una chicca per palati fini. Il compagno Pier Carlo Padoan (sì, proprio lui, il ministro dell'economia del governo Renzi) nel numero di gennaio-febbraio 1975 di "Critica Marxista" metteva la freccia e superava Keynes a sinistra, cioè da posizioni marxiste, sostenendo che "nel momento in cui si punti ad un avanzamento della classe operaia e della democrazia occorre rifiutare questa logica [keynesiana (cioé borghese)], e con questa logica le risposte che da essa scaturiscono, per indirizzarsi verso una politica economica alternativa che tenda al superamento dell'ordinamento capitalistico".

Riconoscente, gli dedico queste immortali strophe:

«O de li altri poeti onore e lume
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».


Ed ecco a voi il CUOMPAGNO PIER GIORGIO PADOAN!


Alcune considerazioni conclusive — Abbiamo visto che in Keynes il capitalismo ha trovato una risposta sia alla crisi del meccanismo tradizionale di mercato sia alla sua incapacità di risolvere i problemi della difesa dell’occupazione posti con sempre maggior insistenza dalla crescente spinta della classe operaia, senza dover per questo uscire dal sistema economico-sociale del capitalismo stesso.
Questa risposta si basa sul riconoscimento del ruolo centrale del livello del reddito nazionale come determinante del volume di occupazione; il reddito, a sua volta, viene fatto dipendere dal livello della domanda aggregata ed è perciò su questa che è necessario agire tramite una politica di spesa pubblica (generalmente in deficit) per sostenere l’occupazione, in quanto la domanda aggregata si pone generalmente ad un livello inferiore della offerta che garantisce la piena occupazione.
La domanda rilevante ai fini della determinazione del reddito è la domanda effettiva, cioè monetaria, che nel mercato ca¬pitalistico è una domanda individuale, ed è solo in presenza di questa domanda che le imprese accetteranno di produrre facendo si che l’occupazione si mantenga devata; obiettivo della politica economica è allora quello di sostenere la domanda effettiva immettendo generico potere d’acquisto nel sistema. Questa concezione basilare ha fatto sorgere anche delle politiche di carattere egalitaristico di tipo redistributivo (soprattutto dopo l’accoglimento nel corpus della teoria tradizionale dell’esistenza del contrasto tra salario e profitto) indicando nell’aumento delle retribuzioni monetarie dei lavoratori l’obiettivo di una politica favorevole ai lavoratori stessi, la quale soddisfacesse anche la esigenza di un aumento del livello della domanda. All’aumento della domanda non corrisponde però sempre un adeguamento della struttura produttiva (una volta raggiunto il tetto della capacità produttiva esistente, oppure anche prima, se si tiene conto di strozzature dovute alla presenza di monopoli o di posizioni di rendita) e si hanno cosi dei persistenti fenomeni inflazionistici.
Ora, occorre tener presente che la classe operaia, essendo antagonista del capitale, non potrà mai accettare una distribuzione data del reddito, tendendo anzi ad aumentare la quota del reddito monetario ad essa spettante, e questo obiettivo sarà tanto maggiormente conseguibile quanto più forte sarà la classe operaia grazie al mantenimento dei livelli di piena occupazione.
Da questa situazione di conflittualità consegue che sul mercato del lavoro si produrranno continue tensioni dovute alle risposte delle imprese alle rivendicazioni operaie per tentare di ricostituire i margini di profitto tramite aumenti di prezzo, alimentando ulteriormente il processo inflazionistico.
Come abbiamo visto l’inflazione era teorizzata dai primi teorici keynesiani, come strumento di riequilibrio del sistema. Tale ipotesi era completamente proponibile negli anni trenta in quanto allora la «grande crisi» non si presentava con i forti fenomeni inflazionistici che oggi conosciamo, anzi quel periodo storico fu probabilmente l’ultimo che vide forti cadute dei prezzi industriali. Nel dopoguerra invece le cose mutarono; le imprese, e si trattava di imprese di tipo oligopolistico, tendevano, grazie ad una domanda crescente garantita dallo sviluppo della spesa pubblica e grazie al loro potere di mercato a scaricare sui prezzi sia gli aumenti di domanda a cui non si poteva rispondere con aumenti della produzione e sia gli aumenti di costo derivati dall’aumento dei salari che seguivano a tali aumenti di prezzo rinunciando in genere a rispondere a questi aumenti con innovazioni tecnologiche che, aumentando la produttività, avrebbero fatto calare i prezzi unitari dei prodotti. La presenza di una domanda crescente, che cioè eliminava i problemi di sbocco, alimentava la crescita dell’inflazione in quanto agli aumenti dei prezzi seguivano necessariamente aumenti dei salari. Questa situazione inoltre alimentava le posizioni di rendita e i cosiddetti profitti di monopolio provocando un progressivo decadimento della produttività e della capacità competitiva delle imprese. In conclusione quindi l’esistenza di un crescente sostegno pubblico della domanda immetteva sul mercato un potere d’acquisto a cui le imprese rispondevano non con aumenti della produttività tramite innovazioni ed investimenti tesi ad aumentare l’offerta, ma con aumenti dei prezzi: l’inflazione da domanda era causata dall’impatto di questo potere d’acquisto su una base produttiva che non veniva allargata e a cui seguiva una inflazione da costi. L’inflazione quindi, oltre che come potente strumento redistributìvo, si poneva come drammatica elusione della esigenza di un allargamento della capacità produttiva delle economie occidentali, di un aumento delle risorse disponibili e di un miglior uso di quelle esistenti (la politica keynesiana per sua natura ha bisogno dello spreco) che la lotta della classe operaia per una migliore soddisfazione dei bisogni andava sempre più affermando.
È da questa situazione che deriveranno allora gli altri tipi di intervento nell’economia (come la politica dei redditi) con cui si passa dal tentativo di sostenere il livello della domanda globale a un tentativo di regolare la domanda attraverso la regolamentazione del livello del salario. In questo senso quindi si può parlare di derivazione keynesiana delle politiche diverse dal generico sostegno della domanda (o, meglio, politica keynesiana «rovesciata»); l’intervento dello Stato è infatti sempre più necessario per mantenere in piedi il meccanismo di mercato in presenza della spinta della classe operaia. Ci si deve allora chiedere se questo tentativo di salvaguardare il livello dell’occupazione compatibilmente con una data struttura della distribuzione sia veramente possibile. La risposta è negativa, in quanto la lotta all’inflazione e il mantenimento di una data struttura della distribuzione possono essere ottenute all’interno del mercato capitalistico solo tramite una diminuzione dei livelli di occupazione cioè ricorrendo a situazioni prekeynesiane e quindi segnando il limite della intera esperienza keynesiana.
In conclusione si può affermare che la risposta keynesiana ha portato, nel tentativo di porre fine al problema della disoccupazione, a delle tensioni insostenibili per il sistema capitalistico compatibilmente con il quadro democratico e non ha neanche risolto il problema (che pur voleva affrontare con politiche redistributive) della soddisfazione dei bisogni delle masse. Non si è risolto inoltre il problema costituito dal fatto che l’unico elemento di riferimento per la produzione, il consumo, è un elemento all’interno del mercato capitalistico fonte di grande incertezza e che rimane succube al momento della produzione; abbiamo visto infatti che sia le soluzioni keynesiane «pure» sia altri tipi di intervento più diretto nel sistema produttivo da parte dello Stato non vanno nella direzione di risolvere questa contraddizione.
Ricordiamo qui quanto si era affermato nella premessa e cioè che queste conclusioni sono quelle che si possono trarre restando all’interno della logica keynesiana (cioè borghese). Non a caso queste risposte implicano oggi una soluzione della crisi che presuppone un mantenimento del quadro capitalistico al prezzo di un arretramento della classe operaia e di un indebolimento della democrazia. È chiaro quindi che nel momento in cui si punti ad un avanzamento della classe operaia e della democrazia occorre rifiutare questa logica, e con questa logica le risposte che da essa scaturiscono, per indirizzarsi verso una politica economica alternativa che tenda al superamento dell’ordinamento capitalistico.
Pier Carlo Padoan

Postilla


Che je famo ar compagno Padoan, dopo? Avanzo una modesta proposta. Io lo metterebbe a fa' er guardia macchine ar parcheggio de l'Olimpico, da lunedì ar venerdì, quanno nun ce sta nessuno. Vojo vede si è bòno a tirà su du' lire co 'na politica arternativa che tenne ar superamento de l'ordinamento capitalistico. Ma li mortacci...

1 commento:

  1. Oltretutto, mi sembra che l'argomento usato dal Nostro fosse lievemente tentenzioso, non essendo stato egli minimamente sfiorato dall'idea che un governo di uno stato (social)democratico, così come può sostenere la domanda aggregata, potrebbe prevenire e correggere i fenomeni inflazionistici da eccesso di domanda e da aumento del costo del lavoro con idonee scelte di politica industriale (un tempo si chiamava "programmazione economica").

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