sabato 27 giugno 2015

Dicono i ricchi che uscire dall'euro sarebbe devastante per i poveri! (RdC/S)


La traccia dell'intervento


Dicono i ricchi che uscire dall'euro sarebbe devastante per i poveri.

La penetrante richiesta di onestà nella vita politica è l'ideale che canta nell'anima di tutti gli imbecilli - B. Croce, Etica e politica, 1931.

Ho scelto questa frase di Benedetto Croce non perché io pensi che l'onestà non sia una qualità morale importante per il benessere di una nazione. Al contrario, questa come altre qualità morali è fondamentale, ma esse non possono spiegare i cambiamenti improvvisi. Ciò perché la struttura etica di una collettività, cioè l'insieme delle regole condivise, dei tabù sociali, degli stili di vita, insomma tutto ciò che caratterizza una civilizzazione, sono elementi che cambiano in modo relativamente lento. Per dire, nel settecento i tedeschi erano considerati i peggiori soldati d'Europa, e in generale avevano fama di essere un popolo pigro, indolente, incline al consumo di birra, indisciplinato. Centocinquanta anni dopo le cose erano cambiate radicalmente, ma i tedeschi di Bismark non erano gli stessi che aveva trovato Federico II di Prussia nei primi anni del suo lungo regno (1740-1786).

Certamente il profilo etico di un popolo ha particolare importanza a livello amministrativo, cioè colà dove non si ha la responsabilità di assumere decisioni politiche, ma solo quella di eseguire ciò che altrove è stato deciso. Tuttavia la causa del progressivo peggioramento delle condizioni di vita, al quale assistiamo in tutta Italia, non può e non deve essere ricercata in un improvviso quanto impossibile a verificarsi abnorme degrado del profilo morale delle classi politiche locali. Queste sono, più o meno, simili a quelle che amministravano 10, 20 o 30 anni fa.

Dunque è necessario cercare altrove le ragioni del peggioramento.



Credo che l'indice migliore al quale possiamo riferirci sia il tasso di disoccupazione. Possiamo isolare 5 periodi:

  1. 1960-1975 (stabilmente bassa)
  2. 1975-1987 (salita rapida)
  3. 1987-1999 (stabilmente alta)
  4. 1999-2008 (discesa rapida)
  5. 2008-2014 (salita rapida)

A questa variabilità del tasso di disoccupazione corrispondono dei fondamentali cambi di struttura in politica e in economia, dei quali mi occuperò brevemente. Per farlo mi aiuterò con un altro grafico, che riporta il tasso di inflazione e la quota salari.



Il 1° periodo si conclude nel 1975 con un massimo dell'inflazione e della quota salari. A partire da quella data la quota salari inizia a declinare, di conserva con l'inflazione. Entrambe raggiungono un minimo intorno al 1999, l'anno di ingresso nell'euro. Rispetto al massimo del 1975 la quota salari perde quasi 12 punti percentuali, ponendosi al di sotto del livello del 1960.

Nel 1975 si svolse un G7 al quale fu invitata per la prima volta anche l'Italia. Gli inglesi e gli americani premevano per il rilancio di una strategia atlantica, mirata alla creazione di un'area di libero scambio nella quale coinvolgere anche il Giappone. Gli europei, in particolare Francia e Germania, propendevano invece per la trasformazione della CEE in un'area a moneta unica, uno scenario che per gli anglo-americani non aveva futuro in assenza di un'unione politica effettiva, difficile da realizzarsi.

Prevalse la visione franco-tedesca, alla quale l'Italia si accodò. L'idea di base era quella di vincolare i tassi di cambio delle monete per procedere, in un secondo tempo, verso la moneta unica. A questa avrebbero fatto seguito, quando necessari, i provvedimenti indispensabili per realizzare l'unione politica. Questo percorso ci è stato presentato in termini positivi senza informare le popolazioni coinvolte dei rischi insiti nel processo. In effetti il percorso scelto - partire dalla moneta per arrivare all'unione politica - è praticabile solo se le economie più forti, quindi a più bassa inflazione, innalzano i consumi interni concedendo aumenti salariali, mentre quelle più deboli li diminuiscono contenendo gli aumenti salariali. Per questa ragione dopo il vertice ebbe inizio, in Italia, la stagione dei cosiddetti "sacrifici".

La politica dei "sacrifici", inaugurata dal governo Andreotti nella seconda parte del 1976, poggiava sull’accordo con il PCI che, ansioso di entrare nell’area di governo, accettava di esercitare pressioni sul maggiore dei sindacati, la CGIL, affinché non si opponesse. Per Cossiga, la condizione per far entrare il Pci nell’area di governo era data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica” (da la Repubblica). Ancora su la Repubblica, il 24 gennaio 1978, comparve un’intervista a Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, nella quale dichiarava: “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.

Ricordate la contestazione a Luciano Lama nel 1977 all'università? Gli studenti gridavano, ironicamente, "sacrifici sacrifici sacrifici".

Il principale oppositore di questa linea era Aldo Moro. Con la sua scomparsa per mano delle Brigate Rosse la linea di Andreotti prevalse. Questi alla fine del 1978, con il corpo di Moro ancora caldo, sorprese tutti riproponendo e ottenendo l'adesione dell'Italia allo SME, l'accordo di cambio promosso dall'asse franco-tedesco. Vi riporto il commento tranciante di Luciano Barca: " Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia".

Dal 1978 al 1999, per un ventennio, la quota salari e l'inflazione precipitarono di conserva. Per quanto riguarda la quota salari, stiamo parlando di 12 punti di PIL, qualcosa come 150 mld di euro l'anno in salari che, dal remunerare il lavoro, sono finiti in profitti! C'è qualcuno che vuole parlare ancora di corruzione?

In questo "ventennio" ci sono stati molti altri fatti sui quali sorvolo. Mi limito a citare il divorzio Tesoro-Banca d'Italia del 1981, il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali che ebbe luogo dal 1986 al 1990, la ratifica del trattato di Maastricht nel 1992 passato pressoché inosservato a causa del ciclone "mani pulite".

Nel 1999 entrammo nell'euro. Consentitemi di sorvolare sulle polemiche relative alle speculazioni che si scatenarono, limitandomi a sottolineare che si trattò di una redistribuzione di reddito che rimase comunque confinata all'economia nazionale.
Il dato di gran lunga più interessante è che, a partire dal 1999 e fino al 2008, si assiste a una fase di crescita economica in cui:

  1. l'inflazione si stabilizza
  2. la quota salari ricomincia a crescere guadagnando 4 punti di PIL
  3. la disoccupazione scende dall'11% al 6%
  4. anche il debito pubblico scende, dal 113% al 103%

Ora la domanda è: perché un'economia che presenta un andamento così positivo entra improvvisamente in crisi? E ancora: perché analogo destino occorre ad altri paesi che avevano indici altrettanto positivi, se non addirittura migliori? Per dire: la Spagna aveva un debito/PIL del 36%, l'Irlanda del 25%, il Portogallo del 63%.

Credo che siate d'accordo sul fatto che ciò non può essere spiegato con l'ipotesi corruzione, perché dovremmo ammettere che improvvisamente, e in tutti i paesi della periferia d'Europa, vi sia stato un improvviso peggioramento delle qualità morali delle classi dirigenti, anche nell'Irlanda (la tigre celtica) e nella Spagna del compagno Zapatero! Siamo seri!

In Italia, dall’inizio della crisi:
  • abbiamo perso 9 punti di PIL
  • abbiamo perso il 25% della produzione industriale e il 20% della capacità produttiva
  • il reddito disponibile è calato dell’11% in termini reali
  • la disoccupazione è al 13% (dal 6%) quella giovanile al 43% (dal 18%)

La spiegazione alternativa è che l'architettura dell'Unione Europea, oltre ad essere improntata ai principi del più sfrenato liberoscambismo, e dunque contraria agli interessi del mondo del lavoro, è anche profondamente sbagliata. Per funzionare l'Europa avrebbe dovuto adottare uno stile cooperativo, una cosa che, di per sé, confligge con il principio della concorrenza assoluta. L'Unione Europea è fondata su un ossimoro, che chiamerò liberismo cooperativo.

In base a questa impostazione, gli stati più competitivi, dunque più produttivi, avrebbero dovuto aumentare i consumi interni, cioè i salari, mentre in quelli meno produttivi i salari avrebbero dovuto essere compressi. Dall'incontro tra questi due comportamenti sarebbe sorto un equilibrio che, si noti, sarebbe stato di natura profondamente dirigista, e dunque in contrasto con il principio di concorrenza: un altro ossimoro. Quello che invece è accaduto è che nei paesi più produttivi i salari sono stati compressi, mentre in quelli meno produttivi sono cresciuti più del dovuto.

Il ciclo di Frenkel

In effetti, grazie all'abolizione del rischio di cambio che liberava i prestatori dal timore di vedersi restituiti i prestiti in moneta svalutata, i capitali hanno cominciato a defluire dal centro per andare a finanziare la periferia. Ciò ha determinato la compressione dei salari al centro e ha innescato un eccessivo aumento degli stessi nella periferia. In pratica, la crescita dei paesi della periferia è stata finanziata a debito con i soldi che, invece di remunerare i più produttivi lavoratori del centro, hanno arricchito le banche, cioè i capitalisti che avevano maggiori profitti proprio perché sottopagavano i lavoratori!

La crisi è esplosa quando il flusso dei finanziamenti dal centro alla periferia si è interrotto, dopo la crisi dei subprime americani. Ciò ha innescato un crollo della produzione, una lunga serie di fallimenti bancari di cui il settore pubblico si è fatto carico, dunque un aumento repentino dei debiti pubblici. Non solo! Davanti al rifiuto dei paesi del centro di riequilibrare la situazione attraverso la concessione di imponenti aumenti salariali (o in alternativa attraverso la condivisione del rischio: gli eurobonds) la soluzione adottata è stata quella di ridurre i redditi dei cittadini.

E fu subito Monti!

Non si capisce il senso dell'azione del governo Monti se non si ha chiaro il fatto che nel lungo periodo le esportazioni e le importazioni si devono uguagliare, altrimenti un paese dipende in maniera crescente dai capitali esteri. Poiché le importazioni dipendono dal reddito dei cittadini, in un sistema di libera circolazione e concorrenza e una moneta sopravvalutata vi sono due strumenti possibili: la svalutazione e/o la compressione dei redditi. La svalutazione però è inibita con l'euro, dunque non rimane che la compressione dei redditi.

La compressione dei redditi può essere perseguita in due modi: per via fiscale o per mezzo della deflazione salariale, cioè attaccando i diritti dei lavoratori. Il governo Monti ha operato sul lato fiscale; Renzi, con il jobs act, sta agendo su quello salariale.

Entrambe queste misure di politica economica deprimono il PIL causando disoccupazione, la quale a sua volta alimenta un'ulteriore calo dei salari, quindi dei prezzi. Quando questo circolo vizioso si instaura si cade in deflazione, una condizione che assomiglia allo stallo di un aereo: il rischio di precipitare improvvisamente in una depressione disastrosa diventa altissimo.

La tendenza alla caduta dei prezzi, cioè la deflazione, ha l'effetto di indurre gli imprenditori a rimandare gli investimenti. Infatti non è conveniente investire oggi per vendere domani a prezzi più bassi. Se la crisi, con il suo portato di disoccupazione e povertà, fa soffrire i lavoratori, la deflazione terrorizza le classi dominanti perché i suoi effetti sono rapidi e ingestibili. In Germania, ad esempio, i disoccupati passarono da uno a sei milioni nel periodo 1929-1932! Per contrastare la stagnazione dei prezzi in una fase di recessione, quando cioè questi tendono naturalmente a crescere poco (o addirittura scendono), si possono usare metodi non convenzionali. Uno di questi è il QE. La sostanza delle cose è questa: è vero, i prezzi scendono perché c'è poca domanda, ma, per evitare il peggio, cioè per evitare la gelata causata dalle decisioni degli imprenditori di rimandare gli investimenti, faccio aumentare i prezzi artificialmente inondando le banche di liquidità.

E' un'operazione sul filo del rasoio perché l'aumento dei prezzi così ottenuto è orientato a stimolare solo i consumi delle fasce più ricche, mentre l'esistenza di chi ha redditi bassi e calanti si complica, anche a causa dell'aumento artificiale dei prezzi. In definitiva il QE serve a guadagnare tempo per consentire il completamento della deflazione salariale, senza che nel frattempo il sistema economico abbia un vero e proprio infarto.

Da ciò segue che assisteremo, nei prossimi mesi, ad ulteriori attacchi sul fronte del lavoro. In questo quadro la proposta, sostenuta anche dal M5S, di introdurre un Reddito di Cittadinanza, è perfettamente coerente. Il problema è sostanzialmente di natura politica, cioè trovare una giustificazione per far passare il RdC in cambio di un intervento strutturale sulle pensioni, di cui si vocifera da tempo il passaggio, per tutti, al metodo contributivo.

L'aggettivo "strutturale" è importante, e merita una spiegazione. L'idea è quella di utilizzare i flussi di reddito "certi", derivanti dai trattamenti pensionistici in essere, per finanziare un provvedimento che si immagina "temporaneo", in attesa che la crisi passi e la disoccupazione scenda. Con l'ulteriore vantaggio di imprimere una forte spinta al mercato delle pensioni integrative, saldamente in mano al settore finanziario privato.

In definitiva siamo davanti a una politica economica che non solo scarica sui lavoratori il costo di una crisi che è il risultato di un errore di progettazione dell'UE, ma si coglie l'occasione per compiere un ulteriore passo avanti nella direzione di un assetto liberistico e privatistico. Al punto che non è più tacciabile di complottismo chi ipotizza che la crisi stessa sia stava prevista, voluta e finanche provocata.

3 commenti:

  1. come faremmo senza i ricchi che hanno così a cuore il nostro bene.

    ringraziarli per l'altruismo è il minimo.

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  2. E poi dici che non sei un economista , la tua è una vera lectio magistralis !

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    1. Fabio, ci sono le cose che uno può fare, se vuole, e quelle che non può fare, anche se volesse, fortissimamente volesse. Io avrei potuto fare l'economista (mio padre mi spingeva in quella direzione) ma ero troppo interessato ad altro.

      Alla fine, ci sono le cose che uno ha fatto, dove ha una certa competenza, e quelle che non ha fatto. Per queste ultime non c'è niente da fare: o ti metti a studiare quello che serve, oppure lasci perdere e ti risparmi il ridicolo.

      Io non ho studiato economia. Punto. Dunque in questo campo sono solo un sub divulgatore.

      Sono invece un politico, perché un politico deve avere una cultura ad ampio spettro (oltre a qualche competenza in almeno un campo specifico) e queste caratteristiche mi appartengono grazie a una natura fondamentalmente eclettica.

      Dice: sei un politico ma non ti votano! Giusto, è colpa del mondo che non mi capisce. Ho detto che sono un politico, non una fogliolina trasportata dal vento.

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