sabato 21 novembre 2015

La razionalità della guerra

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Se c'è una cosa che avvicina l'umanità alla durezza del vivere questa è la guerra. Alla fine vince sempre il più forte, anche se chi sia il più forte lo si capisce, quasi sempre, a cose fatte. Ed è per questo che le guerre vengono combattute, perché se si sapesse in anticipo chi è il più forte solo i pazzi combatterebbero. Sfuggono a questa lettura dei fatti le guerre combattute per disperazione da parte di ristrette popolazioni che non accettano le conseguenze della sconfitta. Ma si tratta di eccezioni, che raramente hanno un impatto significativo sul corso reale degli eventi, sebbene possano trasformarsi in eventi simbolici capaci di segnare l'inconscio collettivo nei secoli. Un esempio è la resistenza e il suicidio collettivo dei difensori di Masada.

La guerra di Siria viene descritta dai media mainstream come il confronto tra un esercito di non più di 70mila uomini armati e l'intero occidente. Anche fuori dal mainstream non mancano voci isolate che sostengono che questo tentativo non sia una manifestazione di pura follia, argomentando che i 70mila dell'Isis possono contare su due fattori che ne amplificano il potenziale bellico: un'ideologia che li spinge al martirio e il fatto che si tratta di una guerra asimmetrica. L'intervento russo ha fortemente indebolito questa tesi, che tuttavia continua ad essere sostenuta.


Io però credo nella razionalità della guerra, e dunque per vedere chi ha ragione non resta che attendere gli eventi. L'attesa potrebbe essere lunga, perché forse il teatro siriano potrebbe essere solo il primo di una lunga serie di altri nei quali saranno coinvolti molti attori, un po' come accadde in Europa con la guerra dei trent'anni. Iniziata come conflitto religioso, dopo un po' si trasformò in una guerra che vide coinvolte le grandi potenze dell'epoca: la casa degli Asburgo (Sacro Romano Impero e Spagna) il regno di Svezia, l'Olanda, infine la Francia, solo per ricordare le maggiori.

Il coinvolgimento progressivo di altri attori in un conflitto che, inizialmente, è solo regionale, dipende da due fattori fondamentali: qualcuno coglie opportunità di espansione nell'entrare in guerra (la Svezia in quella dei trent'anni), oppure si interviene per impedire che il vincitore del conflitto diventi troppo potente (la Francia, sempre nella guerra dei trent'anni, per scongiurare il trionfo della Spagna).

Il conflitto siriano nasce su base regionale. Le petromonarchie del golfo, alleate degli USA e storicamente creature inglesi, hanno armato l'Isis con l'intento di rovesciare il regime di Assad in Siria, con l'obiettivo di indebolire l'Iran come già tentarono di fare sostenendo l'invasione di questo paese con il sostegno finanziario a Saddam Hussein. Gli uni sono sunniti (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi); la Siria, a maggioranza sunnita, è governata da un regime sciita, mentre l'Iran è la roccaforte degli sciiti. Gli angloamericani hanno lasciato fare, salvo intervenire marginalmente per limitare i successi dell'Isis, in particolare quando ha sconfinato nei territori controllati dai Kurdi, allorché i bombardamenti di contrasto della cosiddetta "coalizione internazionale" hanno effettuato azioni militari "quanto basta" per contenerne l'avanzata. I Kurdi, un popolo diviso da molte frontiere, sono il loro jolly, proprio per la forte aspirazione a riunirsi in un loro Stato. In particolare, i Kurdi sono utili per tenere a freno le ambizioni di egemonia della Turchia. Questo paese, teniamolo a mente, fa parte della Nato e per lungo tempo ha premuto per entrare nell'Unione Europea.

Tutto è cambiato in seguito all'intervento della Russia, che ha alterato gli equilibri sul campo. Proprio quando gli appetiti, per l'imminente caduta di Assad, stavano crescendo a dismisura, il blitz delle forze aeree russe in appoggio alla Siria ha sostanzialmente distrutto il più che sopravvalutato potenziale bellico dell'Isis. E' difficile pensare che la Russia si sia mossa senza cercare preventivamente degli accordi. Così come è difficile pensare che li abbia cercati a Washington, vista la situazione di crisi in Ucraina e nel Donbass, e la Cina è lontana. Dove li ha cercati, allora?

Forse in Europa, in particolare nel cuore politico dell'Unione Europea: la Francia. In effetti, dopo un'iniziale adesione alla politica USA in Ucraina, l'Unione Europea è diventata più cauta. E dire Unione Europea, in politica estera, significa dire "asse Parigi Berlino".

Questo, a grandi linee, è lo scenario in cui è maturato l'attacco terroristico di Parigi, che fa seguito a quello contro la redazione di Charlie Hebdo. La domanda che dobbiamo porci è chi sia la mente politica che lo ha commissionato. Tralascerò l'ipotesi più complottista (i francesi se lo sono fatti da soli) e restringerò il campo delle ipotesi a due soggetti: l'Isis, e i suoi sostenitori finanziari.

Se è stato l'Isis, ciò vuol dire che questa organizzazione, preso atto della sconfitta sul campo, ha alzato la posta in gioco puntando sul caos. Questa ipotesi presenta due debolezze. La prima è che non spiega la ratio dell'attacco a Charlie Hebdo, quando ancora l'Isis dilagava sul campo. La seconda, ovvia, è che l'Isis non ha alcun interesse razionale a scatenare la reazione della Francia, la quale ha storicamente (dagli accordi Sykes-Picot) forti interessi in Siria, mai minacciati da Assad. Inoltre, un attacco al cuore dell'Europa, a Parigi, implica il rischio di un compattamento di tutti gli attori internazionali, al fine di sterilizzare la situazione e disinnescare una situazione che può sfuggire di mano. Se accadesse ciò, per l'Isis sarebbe la fine. I Kurdi sono lì che aspettano, con ansia, l'occasione di sostituirsi ad esso, garantendo per sovrappiù ben altra affidabilità. In cambio della promessa di un loro Stato, ovviamente. E la Turchia dovrebbe, a quel punto, piegare il capo.

Ma se non sono stati quelli dell'Isis, allora chi è stato ad ordinare l'attacco a Parigi? Forse i suoi finanziatori? Cioè Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi? Ma è possibile anche solo pensare che questi pseudo Stati possano compiere un gesto simile senza un accordo con l'amministrazione americana, o almeno una parte di essa? Più che difficile, lo scenario sembra impossibile.

La razionalità ci porta dunque verso una lettura che appare solo lievemente meno complottista di quella per cui i francesi si sarebbero fatto l'attentato da soli per avere il pretesto di intervenire in Siria. La razionalità ci suggerisce che l'attentato possa essere stato organizzato dai sauditi e dai qatarioti, con l'appoggio (o il consenso) di una parte, almeno, dell'amministrazione USA. Il che ci porta dritti dritti al centro del problema: la crisi dell'egemonia americana nel mondo. E naturalmente non dobbiamo trascurare il ruolo dell'Inghilterra, la cui ambiguità è massima: sono i protettori politici del mondo sunnita (accordi Sykes-Picot), hanno un piede dentro e uno fuori dall'Unione Europea, sono stati i principali fautori della creazione dello Stato di Israele.

Non mi dilungo ulteriormente, anche perché non posso. Sono un dilettante, lo ribadisco per l'ennesima volta, ma una cosa mi è sufficientemente chiara: le spiegazioni "fallaciane" sono una boiata pazzesca, e coloro che le sostengono sono nel migliore dei casi degli stupidi, nel peggiore dei mascalzoni. Che pensare, infine, degli spiriti eletti che, pur occupandosi d'altro, non disdegnano di organizzare convegni con questi personaggi?

10 commenti:

  1. Se alla base di ogni ragionamento complottista vi è la domanda " cui predest" risulta indubbio che dall' escalation terroristica chi ne ha trato il maggior vantaggio è la Russia di Putin.
    È un sospetto che finora non ho visto tradotto in nessuna ricostruzione complottista.
    Voglio chiarire subito che non credo affatto che Putin possa aver ispirato o reso possibili gli ultimi attentati, ma è strano che tra le tante cretinate che si leggono e ascoltano in giro questa non sia nemmeno sussurrata.

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    1. Un evento, qualsiasi evento, sicuramente fa il gioco di chi lo ha promosso, ma anche di altri che possono approfittarne. Tuttavia il "cui prodest" ha un valore esplicativo forte solo quando gli attori sono due: in questo caso è difficile che uno dei due faccia qualcosa che lo danneggia. Insomma, il "cui prodest" è una chiave utile in una situazione bipolare, mentre vale molto di meno, o addirittura nulla, in uno scenario multipolare.

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  2. Caro Fiorenzo,
    innanzitutto, vuoi farci credere che tu non conosca la differenza tra razionalità della guerra e razionalità dei suoi risultati? Tu nel post chiaramente espliciti che tu ritieni razionali i risultati delle guerre,ma la mia personale impressione è che tu, partendo da un titolo apparentemente impreciso, voglia in verità affermare che sia razionale anche farle le guerre, senza doverlo affermare chiaramente.

    Nel merito della possibile ricostruzione degli attentati, mi pare che siamo abbastanza d'accordo. Senza potere fornire una tesi completa sulla ricostruzione dettagliata dei fatti perchè privi di un quadro complessivo degli elementi di fatto che non sono di pubblico dominio (sull'assalto a Saint Denis non hanno ancora fornito una versione univoca dei fatti, ad esempio), non rimane che fare delle affermazioni generiche sui possibili mandanti, e si va a finire lì, su sauditi, emirati e Qatar. Sul ruolo degli USA, sarei più cauto. E' vero che c'è una spaccatura interna che vede Obama alquanto isolato, rispetto a potentati economici con interessi colossali proprio nei ricchi paesi del golfo, ma direi che in questo caso più che dare il permesso questa parte dell'establishment USA sia stata al traino, ed in effetti la crisi dell'egemonia USA sta proprio nell'impossibilità di essere ubbidita da chi prima l'avrebbe fatto ciecamente.

    Il punto su cui o non ho ben capito, o siamo alquanto discordi è sull'importanza dell'islamismo radicale sullo scenario geopolitico.
    Io penso che la frustrazione dei popoli musulmani, unita ad una carenza di motivazioni forti della nostra civiltà, abbia davvero causato una voglia di ritorno alle origini (o presunte tali) di giovani, crescitui anche nelle periferie delle grandi città occidentali.
    Non si tratta di una spiegazione alternativa a quella che dicevamo, perchè nell'attentato, ci sta il mandante, ma ci sta anche l'esecutore che, visto che si fa saltare in aria, non può avere soltanto motivazioni economiche, una componente di fanatismo è indispensabile in questi casi.

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    1. Scusa Vincenzo, ma da cosa desumi la sottovalutazione dell'importanza dell'islamismo radicale nello scenario geopolitico? Non è questione di negare il potenziale di violenza di cui sono (giustamente o ingiustamente) portatori coloro che popolano il medio oriente e il c.d. "terzo mondo", ma di capire chi e perché utilizza quel potenziale per fare esplodere bombe ad orologeria. Una cosa mi sento di escludere decisamente: che le bombe in questione siano utilizzate per le finalità per cui quella massa di incazzati cronici vorrebbe esloderle.

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    2. @Vincenzo Cucinotta che scrive: "la mia personale impressione è che tu, partendo da un titolo apparentemente impreciso, voglia in verità affermare che sia razionale anche farle le guerre, senza doverlo affermare chiaramente."

      Se siamo d'accordo sul fatto che "razionale" non significa "moralmente giusto", allora sì, credo che chi decide di fare la guerra lo faccia in base a calcoli razionali, i quali possono essere corretti (nel qual caso vince) o sbagliati (e allora perde). A posteriori, quando il campo di battaglia ha fugato i dubbi, è generalmente abbastanza facile individuare i fattori razionali che hanno portato una parte a prevalere e l'altra a soccombere.

      Naturalmente (anche in guerra la palla è tonda) talvolta accade che, grazie al contributo di eventi eccezionali o all'abilità di qualche generale o uomo politico, la parte oggettivamente più debole riesca a vincere. Un esempio è Napoleone il quale, grazie al genio militare, riuscì ad ottenere dei successi tattici che rimandarono per qualche anno la sconfitta francese, ma alla fine vinsero l'Inghilterra, la Russia, la Prussia e gli Asburgo, che avevano un chiaro vantaggio strategico.

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    3. @Claudio
      Siamo d'accordo, il senso era differente.
      La frase di Fiorenzo che forse ho equivocato è stata "le spiegazioni "fallaciane" sono una boiata pazzesca".
      Volevo solo sottolineare che, impegnati a definire i mandanti, non dobbiamo nel contempo mai dimenticare l'esecutore, tutto qui. C'è insomma un elemento ineliminabile di partecipazione di fanatismo in questo caso islamista, e quindi capire bene fonte e dinamica nel vasto mondo musulmano complessivo di questi fenomeni, che mi pare sia un compito molto complesso, e che mi pare manchi nel mainstream, tutto impegnato a distinguere tra due differenti tipi di islamismo, come se tale distinzione così ferrea fosse ovvia, mentre in tutta evidenza non lo è per niente, al massimo opinabile.

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  3. Anche io credo che non si debba trascurare il revanscismo arabo, esso costituisce un sostrato diffuso in un popolo diviso, ma unito da una lingua e da una religione comune.
    Allo stesso tempo non bisogna considerarlo come attore politico bensì semplicemente come un elemento in grado di modificare alcune modalità di espressione del conflitto; un conflitto i cui i veri attori mirano, come sempre, al controllo del territorio per le sue risorse e relativo valore strategico

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    1. Durante gli anni universitari (quasi 40 anni fa) ebbi modo di frequentare un gruppo di amici ebrei e, successivamente, il mondo dei mercanti di quadri (croste) venduti ai turisti in Piazza Navona. Lasciai i miei amici ebrei quando mi dissero che dovevo nascondere alle loro famiglie, se occasionalmente passavo a casa loro, il fatto di essere un "gentile". Erano bravi ragazzi, ma questa cosa mi infastidì moltissimo. Ciò nonostante conservo di tutti loro un caro (e sfumato) ricordo.

      Il periodo in cui frequentai gli arabi di Piazza Navona (quasi 40 anni fa) fu molto divertente. Con uno di loro, che divenne mio carissimo amico, pur perdendolo di vista successivamente e con mio grande dispiacere, un egiziano di nome Anwar, eravamo sempre in giro tra Roma, l'Umbria e la Toscana.

      Mai, ripeto mai, percepii il minimo sentimento di revanscismo o di odio religioso, in nessuno dei due gruppi. Questi sentimenti sono nati successivamente, dopo la prima invasione dell'Iraq nel 1991, dunque non costituiscono, a mio avviso, di un sostrato profondo. Essi sono la conseguenza della dissennata politica dell'Occidente, soprattutto gli USA, i quali, dopo la caduta dell'URSS hanno coltivato il sogno di un'egemonia globale. Un po' come fecero gli ateniesi dopo aver sconfitto i persiani: il loro sogno di egemonia globale sul mondo ellenico causò la divisione tra i popoli della Grecia, e il loro indebolimento. Ne approfittarono, come sapete, i cinesi... oops... volevo dire i macedoni.

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    2. Ho molti pazienti arabi, con i quali ho un rapporto splendido di reciproco rispetto, la mia disponibilità a rimodulare le terapie durante il ramadan, per esempio, è molto apprezzata.
      La lingua e una religione comune sono aspetti che fanno dei costituenti la nazione araba un popolo culturalmente più omogeneo di noi europei.
      Ci sono piccoli particolari che ti fanno capire il senso di alterità di un popolo: gli anglosassoni ad esempio si rifiutano di usare le supposte, una volta una mia paziente inglese mi spiegò, con alterigia,che le supposte vanno bene per i popoli latini.
      Così quando ti trovi un tunisino che parla tranquillamente in arabo con un qatariota e poi li ritrovi ad ascoltare lo stesso imam, fa una certa impressione.
      L' errore degli USA e delle sue colonie è quello di pensare di poter trattare la nazione araba come furono trattate le nazioni pellerossa.

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    3. Comunque, OGGI da quelle parti (e non solo) c'è gente con il dentino comprensibilmente avvelenato nei confronti degli occidentali che utilizza la fede religiosa come naturale "collante" culturale di incitamento dei confedeli alla riscossa nei confronti dell'Occidente "miscredente". Se poi pensiamo che gli islamici abbiano con l'islamismo lo stesso rapporto che gli europei hanno con il Cristianesimo, mi sa che siamo un po' fuori strada.

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