venerdì 29 marzo 2019

Il Fronte di Liberazione Nazionale - comunicato n°1

Il 26 marzo 2019 si è costituito il Fronte di Liberazione Nazionale - FLN


Capitolo I: Il FLN nasce per iniziativa di Simone Boemio, Fiorenzo Fraioli e Mauro Gosmin, che alla data del 26 marzo 2019 ne sono gli unici aderenti, ma è aperto all'ingresso di chiunque condivida la finalità di restituire alla collettività degli italiani il potere esclusivo di determinare la politica interna della nazione al riparo da ogni interferenza esterna di qualsiasi natura (sovranità nazionale), e di adottare la politica estera ottimale in funzione dei vincoli dettati dai rapporti di forza geopolitici reali e concreti (indipendenza nazionale).

Capitolo II: Il FLN considera la democrazia in termini sostanziali e non meramente formali, e ritiene che la sovranità nazionale sia reale ed effettiva solo quando la partecipazione al confronto politico avviene su basi assolutamente paritarie tra i cittadini e qualsiasi gruppo sociale comunque organizzato. Ritiene pertanto che a sua difesa debba essere posto lo Stato con le sue Istituzioni, in capo alle quali va posto l'obbligo prioritario e inderogabile di preservare la democrazia sostanziale da ogni tentativo di disattivarla. Anche l'organizzazione interna del FLN sarà improntata allo stesso principio.

Capitolo III: Il FLN non considera come un orizzonte della sua azione la partecipazione alle elezioni politiche, perché ha come obiettivo la promozione del sentimento di appartenenza alla comunità nazionale, che può esistere solo attraverso l'instaurazione della democrazia sostanziale sancita dalla Costituzione del 1948, al cui rigoroso rispetto deve contribuire la ben formata coscienza popolare.

Capitolo IV: L'ingresso nel FLN potrà avvenire solo per approvazione di chi ne fa già parte, secondo procedure che saranno stabilite, e modificate se e quando opportuno, da coloro che hanno già aderito, i quali si daranno regole di partecipazione tali da garantire sia la democraticità interna che la difesa da infiltrazioni.

Capitolo V: Al momento, essendovi solo i tre aderenti nonché fondatori, la procedura è estremamente semplificata, e consiste nella conoscenza diretta.

Per contatti:
Simone Boemio (simone.boemio@gmail.com)
FiorenzoFraioli (ecodellarete@gmail.com)
Mauro Gosmin (mauro.gosmin@gmail.com)

Sulla legittimità e legalità del parlamento europeo


Per quanto mi riguarda il parlamento europeo è un'istituzione illegittima, e dunque non è fonte di legalità. La distinzione tra legittimità e legalità non è chiara a tutti per cui credo valga la pena scrivere due righe per un richiamino. La legittimità ha a che fare con il potere reale, la legalità attiene agli atti che un potere reale emana. Ne segue che considerare legale un'istituzione implica accettarne la legittimità, la cui fonte è evidentemente la forza. Piaccia o no alle anime belle.

Pertanto chiunque andrà a votare alle prossime elezioni europee, quale che sia il suo giudizio sulle politiche dell'Unione Europea, con ciò e bastevolmente per ciò, ne riconoscerà la legittimità, e dunque non è un sovranista costituzionale.

Non riconoscere la legittimità della montagna di sterco denominata Unione Europea comporta necessariamente il disconoscimento della sua capacità di essere fonte di legalità. La questione è politica, cioè rimanda alla fonte primigenia di ogni potere, che è la forza.

Repetita iuvant


La conseguenza logica è che chiunque andrà a votare per eleggere il prossimo parlamento della montagna di sterco denominata Unione Europea non potrà definirsi sovranista costituzionale. A maggior ragione ciò vale per chiunque si candiderà per qualsiasi partito, e ancor più per ogni partito.

Quanto appena enunciato è di chiarezza adamantina, e incontestabile. Ognuno faccia la sua scelta, assumendosene la responsabilità morale e politica.

mercoledì 27 marzo 2019

La follia del sesso

Gira questa petizione, di cui riporto l'incipit:

«In Italia accedere alla TOS (terapia ormonale sostitutiva) per le persone trans è da sempre troppo complesso e spesso costoso. Si tratta di farmaci che le persone trans* devono prendere a vita, anche dopo l’eventuale intervento di riconversione chirurgica; la TOS per queste persone è una terapia salvavita, necessaria per garantire un livello sostitutivo di estrogeni/androgeni necessario per vari aspetti metabolici.»

Mi sembra di capire che un certo numero di persone pretende che una quota del plusvalore prodotto dal mio lavoro sia impiegata per consentire ai trans* di assumere gratuitamente o a prezzi accessibili le molecole di cui hanno bisogno per "garantire un livello sostitutivo di estrogeni/androgeni necessario per vari aspetti metabolici". Ora io non ho niente da dire a chi vuole manipolare il suo sesso, però chiedo: perché vengono a chiedere i soldi a me?

Mi si chiedesse di rinunciare a una quota del plusvalore per assicurare le cure dentarie gratuite, o l'assistenza agli anziani, o quella per le madri e gli infanti, potrei capire, ma perché mi si fa la petizione per ottenere, a mie spese, una sovvenzione per le cure necessarie a cambiare sesso? Ma non se le possono pagare da soli, e in ogni caso...

DOPO

che i miei soldi siano stati usati per problemi che derivano non da una scelta libera bensì dall'inevitabile insorgere di patologie?

I capricci sessuali sono più importanti dell'inevitabile vecchiaia e delle malattie che arrivano da sole?

Scopare come più ci aggrada è diventato prioritario rispetto alle difficoltà che l'esistenza biologica impone a tutti?

Soprattutto: scopare (cioè, per essere chiari: manipolare i propri genitali in compagnia di chi più ci gusta) è cosa che ha precedenza su tutto?

Facciamo così: prima le cure dentarie, prima le risorse per combattere le malattie invalidanti, prima quelle per l'assistenza alle madri e agli infanti, prima tutte le cose che servono a mitigare la durezza della vita biologica che la natura ci infligge...

POI

anche, perché no, le (mie) risorse per i vostri felici slinguazzamenti e gioiose penetrazioni!

Post cafone in difesa della libertà sul web

Comincio ad essere stanco di ripetere l'ovvio ma, siccome ancora ce la faccio, eccomi qua. Allora, il web è nato libero. Io sono abbastanza vecchio da ricordarmelo, era un posto, per dire, dove un certo Phil Katz ti inventava l'algoritmo di compressione dei dati e lo distribuiva free, per poi morire in un anonimo motel non povero ma nemmeno straricco come sarebbe potuto essere se invece lo avesse brevettato. E non si è mai pentito.

Il web è nato libero, ognuno poteva venirci e metterci il cazzo che gli pareva. E vennero in tanti, all'inizio soprattutto idealisti e libertari che condividevano quello che sapevano, liberamente e senza chiedere in cambio lo sterco del diavolo.

Poi sono arrivati i gruppi privati, 'sti pezzi di merda che adorano lo sterco del diavolo, e anche loro hanno cominciato a mettere le loro cose, gratuitamente all'inizio, poi hanno provato a chiedere di essere pagati con abbonamenti e quant'altro, ma non se li è inculati nessuno.

Allora hanno riempito il web di pubblicità, guadagnandoci sopra bei pezzi di sterco del diavolo, ma non gli è bastato. Adesso questi stronzi figli di madri meretrici e padri col culo aperto come i porti, che sono venuti in un posto che era libero, vogliono mettere la tassa sui link. Cioè se tu li linki li devi pagare. Ma che cazzo ci siete venuti a fare in un posto libero se chi vi cita vi deve pagare?!? Ma fatevi la vostra cazzo di rete privata e vediamo chi ci viene, brutti stronzi figli di meretrici sifilitiche e di padri col culo aperto come un porto per petroliere, cazzo!

Cazzo cazzo cazzo fregna fregna fregna!!! Ma lo capite quanto sono rotti in culo? Vengono in un posto nato libero, se ne appropriano e pretendono di essere pagati solo per il fatto che uno mette un link!!!

Che si deve fare? Ma fossero tutti come me la soluzione sarebbe immediata e DEFINITIVA. Basta non inchiavarseli più, 'sti pezzi di merda, e costruirci NOI una sottorete libera dove nessuno pretende di essere pagato per il fatto di essere linkato. E siccome se questi sono dei pezzi di merda io sono uno stronzo INCOMMENSURABILE, giuro su DIO che MAI più metterò un cazzo di link alla loro merda putrescente, fatta di balle vergognose e valutazioni vomitevoli.

Un sano cordone sanitario, tra noi umani liberi e questi adoratori di sterco del diavolo, ecco quello che si deve costruire, tutti insieme e per sempre.

Serve un link o un embed per dire quello che si pensa? Voi ci trovate un link in questo post?

martedì 26 marzo 2019

L'internazionale dei dominanti e l'Italia

Fiorenzo Fraioli
«La parola "sovranismo" è stata contrabbandata come un valore del "salvinismo", che è una replica di quello che accadde nel 1922 quando molti socialisti credettero di contribuire agli ideali socialisti seguendo Benito Mussolini: oggi un numero incredibile di difensori della sovranità nazionale è indotto a credere lo stesso, e segue Matteo Salvini! - Fiorenzo Fraioli»

Le classi dei dominanti in Italia derivano da tre ceppi fondamentali: le antiche aristocrazie nobiliari, la nuova classe borghese emersa come egemone dal XIX secolo, la struttura ecclesiastica. Un quarto ceppo, le istanze popolari, pur fiorito dal XII al XIV secolo, è stato ripetutamente battuto dalle alleanze tra le prime tre, anche con l'aiuto dell'internazionale dei dominanti quando ciò è stato necessario. Ovviamente questo non è accaduto solo in Italia, ma vi è un dato che nessuno può negare: nel corso dei secoli i conflitti tra le classi egemoni, fossero queste l'aristocrazia nobiliare la borghesia o la Chiesa, sono sempre stati in secondo piano rispetto all'interesse strategico comune di frenare il protagonismo e l'ascesa del quarto stato.

La triade delle classi dominanti (nobiltà, borghesia, struttura ecclesiastica) si nutre della forza e delle risorse del quarto stato. In tal senso gli elementi migliori di quest'ultimo sono stati sistematicamente cooptati, quando possibile, oppure annichiliti senza pietà quando hanno scelto la via del conflitto diventando pericolosi. Talvolta tollerati, in maggiore o minore misura, se la loro azione non rappresentava una minaccia.

Da sempre l'arma ideologica più forte nelle mani del quarto stato è la democrazia sostanziale, alla cui disattivazione la triade dominante dedica la massima attenzione. Un recentemente cooptato ha avuto il merito, prima di accettare di essere disattivato, di spiegare urbi et orbi sulla blogosfera la differenza tra democrazia sostanziale - iscritta nella Costituzione del 1948 - e democrazia idraulica, ovvero la prassi delle consultazioni elettorali ad esito predeterminato. Questa minuscola vicenda ha fatto scattare nella mia mente una strana associazione con questa frase del principe nero Junio Valerio Borghese:

Junio Valerio Borghese nel 1940
"In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di morire; ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa ed il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo. (Junio Valerio Borghese)"

Junio Valerio Borghese è stato un esponente della principesca famiglia Borghese il cui capostipite fu un mercante senese di lana del XIII secolo. Dunque un borghese, che all'epoca significava dire quarto stato. Tra i membri più importanti della famiglia, oltre papa Paolo V e diversi cardinali, c'è Marcantonio I (1504-1574), uomo politico e avvocato concistoriale al servizio papale il quale, essendo rimasto vedovo, sposò la nobile romana Flaminia Astalli da cui discendono tutti i Borghese di Roma.

Insomma gira che ti rigira quel che emerge dal basso, alla fine, viene cooptato. Nihil sub sole novi.

La frase di Junio Valerio Borghese è importante perché, quantunque fotografi esattamente la natura della sconfitta nella seconda guerra mondiale, che rese possibile il momentaneo successo delle forze popolari sancito nella Costituzione proprio per la sua caratteristica di disastrosa sconfitta della classe dominante dell'epoca (la borghesia italiana), ha tuttavia validità generale. Più ancora che vincere o perdere, conta come si vince o si perde!

Ebbene questo è il problema che oggi devono affrontare le forze di quel movimento politico nato dal basso, cui si è cominciato a dare il nome di "sovranismo storico" e meglio noto come "sovranismo costituzionale", di cui mi onoro di far parte: non solo stiamo perdendo, ma anche e soprattutto in malo modo! Al solito (nihil sub sole novi) una delle regioni di questa sconfitta è l'uso della cooptazione, esattamente come avvenne nella seconda guerra mondiale che, quasi sicuramente, avremmo perso ugualmente, ma il cui esito così disastroso non può essere spiegato solo con la favoletta dell'italietta vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Junio Valerio Borghese, un esponente della nomenklatura e pertanto un avversario delle forze popolari (come ha dimostrato di essere in modo lampante nel prosieguo della sua vicenda politica) lo afferma senza infingimenti: la sconfitta disastrosa fu causata dal tradimento di quella stessa borghesia che aveva voluto il fascismo come soluzione del conflitto sociale riaccesosi dopo la vittoria nella grande guerra. L'Italia, lo affermo senza esitazione sulla base di dati oggettivi e inconfutabili, ha perso disastrosamente una guerra - che non poteva che perdere - perché la classe sociale responsabile della disattivazione di quel poco di democrazia che pure si era imposta in epoca giolittiana, si è schierata dalla parte degli inglesi ben prima dell'8 settembre 1943! Questa cosa, ne sono assolutamente convinto, deve essere ben compresa, perché è essenziale per spiegare la psicologia profonda del revanchismo fascista del dopoguerra. Questa gente, che aveva ricevuto il mandato a governare l'Italia dalla borghesia dominante preoccupata prima di tutto di tenere a bada il protagonismo e l'ascesa delle classi popolari, si è sentita tradita dai suoi stessi mandanti. Da ciò il mito del "fascismo che ha fatto delle cose buone". Un mito, in parte vero, tuttavia funzionale al fine di nascondere un altro tradimento: quello dell'idea socialista, da essi perpetrato per raggiungere il potere.

Il sovranismo costituzionale, che alcuni nella fretta di disfarsene definiscono "sovranismo storico", è ciò che resta di una mobilitazione durata un decennio che ha subito un attacco analogo a quello che patirono i socialisti e i giolittiani all'inizio del secolo scorso. Lo strumento usato dalle classi dominanti, che oggi in Italia sono un'articolazione della grande finanza globalista, è stato ancora una volta la cooptazione degli elementi più in vista. Pochi hanno resistito al canto delle sirene, molti hanno scelto di aderire purché gli sia permesso di continuare a usare, in modo fraudolento, le parole e i concetti grazie ai quali si erano distinti. Ecco allora che la parola "sovranismo" è stata contrabbandata come un valore del "salvinismo", che è una replica di quello che accadde nel 1922 quando molti socialisti ritennero di contribuire agli ideali socialisti seguendo Benito Mussolini: oggi un numero incredibile di difensori della sovranità nazionale è indotto a credere lo stesso, e segue Matteo Salvini! Un'omotetia ideologica, ben più fondata di quella meccanicistica secondo la quale gli americani sarebbero corsi in soccorso dell'Europa spinti da una loro visione del capitalismo di stampo keynesiano per combattere quello di derivazione Hayekiana. A buon intenditor poche parole.

Una delle foglie di fico, usata soprattutto da quelli che non si sono convertiti al salvinismo ma nemmeno hanno la forza morale di continuare una battaglia che oggettivamente ha poche possibilità di essere vincente, è quella secondo cui non ci si può fossilizzare in una visione ristretta entro i confini nazionali, perché "fare politica" significa prendere atto della realtà della situazione tenendo fermi i propri ideali. Insomma una ritirata tattica. E se uno vuole fare politica, cioè (per usare una frase tanto convincente quanto capziosa) "incidere sulle dinamiche reali e non coltivare sogni" deve necessariamente prendere le distanze da questo "sovranismo storico" ormai ripiegato su sé stesso. Si tratta della versione per educande sinistrate dell'altreuropeismo, buona per tacitare la coscienza. Parole, ben scelte e confezionate, utili a giustificare un bisogno di protagonismo che non può che risolversi nell'ingresso in qualche riserva indiana che sarà graziosamente concessa dagli ormai certi vincitori. Ho definito questa attitudine psicologica "ristoro", guadagnandomi qualche antipatia. Me ne dispiaccio, ma non sono pentito. Anche perché la situazione reale e concreta è questa, e non posso tacere.


venerdì 22 marzo 2019

Rapporti tra dominanti e dominati, e rapporti tra pari

Devo dirvi la verità: non sono molto interessato al destino dei dominati, salvo quando lottano per non esserlo più. Vi dirò di più: chi non si rassegna mai al fatto di essere dominato è sempre, anche quando è sconfitto e in catene, o davanti a un plotone d'esecuzione, alla pari con i vincitori del momento. Questo è vero soprattutto, e forse esclusivamente, nei rapporti fra gruppi comunque organizzati, siano essi nazioni, regni, gruppi industriali, associazioni di categoria o altro, perché in questo genere di relazioni viene a mancare l'elemento umano che invece caratterizza l'interazione tra singoli individui, a maggior ragione se integrati all'interno di un gruppo. Penso, in definitiva, che tutte le relazioni tra gruppi comunque organizzati siano, oltre che conflittuali, permeate dalla violenza, e che esse possano risolversi in due soli modi: o il rapporto diventa quello tra dominanti e dominati, oppure è un rapporto fra pari.

Il fatto che tra due gruppi esista un rapporto tra pari non implica necessariamente che essi siano di pari forza, perché ogni conflitto ha un costo che deve essere confrontato con i benefici derivanti dalla possibilità di ottenere l'asservimento, nonché coi rischi possibili. La Storia ci insegna che i rapporti alla pari, tra Stati pure di forza diseguale, non sono un'eccezione. Anzi, essi sono la normalità.

L'asservimento è possibile, e relativamente facile da ottenere, quando vi è una grande sproporzione di forze. Quando invece esiste un equilibrio di forze allora gli esiti possibili, al netto della vittoria di una delle parti, sono sostanzialmente due: o si assiste a una lunga frizione, alternata da periodi più pacifici, che durano fino a quando il continuo mutare delle cose del mondo cambia totalmente lo scenario (è il caso del confronto tra l'impero romano e i parti) oppure la parte vittoriosa si spinge fino ad annichilire totalmente quella sconfitta, facendola scomparire dalla Storia (Roma e Cartagine).

In ogni caso quello che dovrebbe essere chiaro, e purtroppo non lo è, è che lo stato di guerra è la condizione naturale dei rapporti tra gruppi organizzati, in particolare tra nazioni. Quando la guerra giunge al suo epilogo definitivo, quando cioè una delle due nazioni risulta totalmente sconfitta, essa scompare dalla Storia diventando una colonia della nazione vincitrice. Quando, invece, l'esito del conflitto non è definitivo, il che accade nella maggioranza dei casi, la nazione vincitrice guadagna una quota di egemonia a scapito dell'altra, ma il rapporto tra di esse rimane tra pari, sia pure con un parziale aggiustamento dei rapporti di forza.

I grandi imperi si costruiscono distruggendo le nazioni sconfitte; talvolta riducendole a colonie che, successivamente, diventeranno province dell'impero.

Se guardiamo alla Storia europea degli ultimi mille anni, salta subito agli occhi un fatto di grande importanza. Nella maggioranza dei casi non si assiste all'occupazione permanente della o delle nazioni sconfitte, al massimo alla cessione di territori di confine o di pezzi dell'impero coloniale. Oppure, in epoche meno recenti, alla rinuncia di una casa regnante alle pretese di successione su una qualche corona.

Con due eccezioni: l'Italia e la Germania. Entrambe queste nazioni, che in passato erano pur state il centro di due grandi imperi, quello romano e il sacro romano impero, sono state sbriciolate nel confronto con e tra le grandi potenze europee, Spagna, Francia, Inghilterra, e i loro territori sono stati frammentati politicamente quando non occupati militarmente. Se esse non sono diventate province di un impero è solo perché il confronto tra le potenze dominanti europee non è mai giunto al suo epilogo definitivo, per cui i loro rapporti reciproci, anche all'esito di conflitti in cui emergeva un vincitore, sono sempre rimasti rapporti tra pari, la qual cosa non ha consentito la nascita di un impero.

Eppure oggi la Germania, a dispetto di due clamorose sconfitte militari dopo l'ultima delle quali è stata occupata militarmente e divisa, è la potenza dominante in Europa, mentre l'Italia sembra sul punto di scomparire come nazione. Sappiamo come ciò sia avvenuto, attraverso quali avvenimenti storici, ma dobbiamo ancora chiederci perché. Questa è una domanda alla quale è stata data, sicuramente a livello di cultura di massa in Italia, una risposta che mi appare ampiamente insufficiente, e che suona pressappoco così: l'Italia è una nazione povera, priva di materie prime che deve importare, e questo ha fatto sì che essa fosse strutturalmente debole; al contrario la Germania, ricca di materie prime in particolare il carbone, su questa base si è rapidamente risollevata giungendo a imporre di nuovo la sua forza in Europa.

Non so voi, ma a me questa spiegazione suonava falsa già dai tempi delle elementari. E quando dico falsa, intendo dire alla Fantozzi:



Vi offro allora la mia spiegazione. Ci sono stati due uomini, Camillo Benso di Cavour e Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen, due grandi statisti, ai quali l'Italia e la Germania devono molto, ma che furono trattati in modo completamente diverso dalle rispettive classi dirigenti. Il primo morì in età relativamente giovane e al culmine del successo della sua politica, quasi certamente avvelenato, il secondo conservò il potere fino al 1890, certamente contrastato politicamente dagli Hohenzollern e dal parlamento, ma non fatto fuori. Non è una differenza da poco. Il filmato embedded inizia al minuto 28'56'', quando si comincia a parlare di Cavour, ma merita di essere visto dall'inizio.



Dunque la morte di Cavour, meglio il suo assassinio, sembra emergere come risultante di interessi della grande finanza inglese dominata dalla famiglia Rothchild e il tradimento di forze interne alla corte piemontese. Il tradimento, una costante della nostra storia nazionale fin dall'unità. Ma Cavour è solo l'inizio, perché è tutta la nostra storia nazionale ad essere intrisa del veleno del tradimento, perpetrato da una parte delle classi dirigenti in intesa con potentati finanziari internazionali.

Ma se è così, allora tutta la travagliata storia della nazione italiana dall'unità ad oggi può avere spiegazioni diverse che non la debolezza strutturale del paese a causa della mancanza di materie prime! Tanto è vero che quando, per una quasi miracolosa combinazione di eventi, abbiamo avuto una classe dirigente degna di questo nome, mi riferisco al trentennio tra la fine dell'ultima guerra e il colpo di stato di tangentopoli, questa nostra italietta si era ben risollevata, arrivando ad essere la quinta economia del mondo, come pure a svolgere un ruolo politico da media potenza regionale che giunse fino al punto di sfidare gli Stati Uniti in occasione della vicenda dell'Achille Lauro.

Ben diversa la storia della Germania, ben altro lo spirito nazionale di questo paese, ovvero la sostanziale compattezza della sua classe dirigente, addirittura eccessiva fino a livelli patologici essendosi spinta fino al punto di intraprendere un confronto con la potenza angloamericana chiaramente superiore. Un azzardo folle e dagli esiti criminali che però non deve nascondere un dato essenziale: non sono le materie prime e le condizioni geografiche, o almeno non solo esse, a decidere del destino di una collettività nazionale, ma soprattutto la qualità, la determinazione, unitamente all'equilibrio e al senso del limite delle sue classi dirigenti. La fragilità dell'Italia come nazione deriva soprattutto da ciò: non abbiamo più una classe dirigente degna di questo nome perché quella che abbiamo avuto per quasi tutta la nostra storia, ad eccezione di quella della prima repubblica sostenuta dalla partecipazione al potere del popolo organizzato nei grandi partiti di massa, dal colpo di stato di tangentopoli è tornata a trarre origine dagli ambienti della borghesia finanziaria, e da ciò che resta delle classi nobiliari che per secoli hanno dominato la penisola piegandosi agli eserciti stranieri. Questa classe dirigente ha occupato lo Stato dall'unità d'Italia, era stata messa ai margini nella prima repubblica, ed è tornata ad occuparlo dopo tangentopoli.

Questa classe dirigente, compradora e cosmopolita quanto intimamente servile, possiede tuttavia un'abilità diabolica nel dissimularsi, e riesce a conciliare con raffinata abilità l'equilibrio tra i suoi interessi di classe e la necessità di piegarsi alla forza dello straniero scaricando il costo di questo compromesso sull'intera nazione. Le sue armi sono, da sempre, il tradimento, l'uso dei servizi segreti deviati, il terrorismo, gli accordi con la malavita, la capacità di infiltrarsi nei movimenti popolari con la corruzione e la minaccia, quando è necessario con l'assassinio, deviandoli per porli al suo servizio.

Questa classe dirigente, in conclusione, ha ampiamente dimostrato di non essere degna di guidare la nazione, e deve essere messa da parte. Non è un compito facile perché, al fine di consolidare la sua presa sulla nazione, questa spregevole classe dirigente compradora e cosmopolita non si è fatta scrupolo di minare alle sue basi financo la struttura morale e mentale del popolo italiano, attraverso una costante e pervasiva azione mediatico-culturale che ha sovvertito, nel breve volgere di tre decenni, il senso comune, i valori e la percezione di sé stessi degli italiani. Per far ciò ha infiltrato, e corrotto, i partiti della prima repubblica, come fa ancora oggi con la complicità di stati esteri i quali, sebbene non siano certo guidati da forze popolari, tuttavia sono dominanti, mentre l'Italia è ridotta al rango di espressione geografica.

Vi sottopongo una delle tante pistole fumanti che solo chi è definitivamente accecato può non comprendere al volo. E' uno stralcio di un'intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer. Correva l'anno 1979.

 

Serve aggiungere altro? E adesso andate a guardarvi carta bianca, la trasmissione della figlia...

giovedì 21 marzo 2019

Invertendo l'ordine delle priorità il risultato cambia!

Vi porto tre esempi del fatto che invertendo l'ordine delle priorità il risultato cambia. I primi due sono auto evidenti, per cui non meritano una discussione.

I esempio: si pone al primo posto, tra i compiti di una BC, quello di perseguire la stabilità, e solo in secondo ordine la piena occupazione.

II esempio: si pongono al primo posto i diritti civili invece che quelli sociali.

Il III esempio è abbastanza nuovo e sarà discusso.

Dovete sapere che in un articolo recente (Il sapore della verità) ho inserito un passaggio un po' forte (lo riconosco) scrivendo di compagni di strada che "si stanno avventurando per sentieri che non porteranno a nulla, se non in qualche caso a un ristoro personale, comunque sempre a caro prezzo sul piano morale". Qualcuno si è risentito, e spero che qualcun altro non stia pensando di chiamare l'avvocato per replicare a un giudizio che è solo ed esclusivamente politico. Rinnovo la mia stima personale verso tutti, anche quelli che la pensano diversamente da me, ma ricordo che in politica la parola "ristoro" non significa necessariamente "poltrona" bensì, in generale, ritrarsi da una lotta senza speranza per raggiungere obiettivi ormai ritenuti impossibili, e dunque trarre "ristoro" dal fatto di raggiungerne di minori, in grado di assicurare almeno una parte della soddisfazione che l'agire politico riserva quando si vince qualche battaglia. Chi pensasse che io volessi dire altro dimostrerebbe, con ciò solo, di essere un malpensante: honni soit qui mal y pense!

Prenderò spunto, invece che dai documenti di Patria&Costituzione, da un articolo di Mimmo Porcaro: Se cominciamo a fare sul serio (Mar 20, 2019).

Nel suo pezzo Porcaro sostiene (grassetto aggiunto) "il limite maggiore del sovranismo storico (un termine con cui non indico questa o quella organizzazione, ma una cultura, uno stile di pensiero ed un insieme di riflessi mentali che sono anche in me) sta nel presentarsi di fatto come il partito del “No Ue – No euro”, esaltando più il mezzo che il fine e presentando all’esterno il lato più complicato e problematico della propria proposta: cosa che può concorrere a spiegare il minoritarismo di quest’area, nonostante la ricchezza delle intuizioni e delle analisi."

Dunque Porcaro opera una sorta di inversione delle priorità, considerando l'uscita dall'UE non come un fine dell'azione politica di P&C, bensì come un mezzo. Ciò al fine di indicare, nell'azione di proselitismo, obiettivi più facilmente spendibili. Sostiene Porcaro, dopo aver elencato una serie di azioni che lo Stato dovrebbe intraprendere ("creare occupazione non semplicemente attraverso il rilancio della domanda, ma attraverso investimenti produttivi diretti..." etc.) che ciò avrebbe l'effetto di essere più facilmente comprensibile e che, inoltre, finirebbe col far emergere ed accettare ciò che sappiamo già oggi, ma è difficile comunicare, ovvero che queste politiche sono impossibili dentro la gabbia dell'UE. Sostiene Porcaro ("E veniamo ora all’Ue, sulla quale si deve avere una posizione netta comprensibile a tutti, e nello stesso tempo priva di tratti avventuristici") che è necessario porre in essere una strategia comunicativa che non spaventi gli elettori ("Dobbiamo tener presente che anche se i sentimenti antiunionisti sono significativamente cresciuti rispetto al passato, il terrorismo mediatico e finanziario sarebbe, in caso di scelte più radicali, notevolmente maggiore a quello a cui abbiamo assistito nella recente querelle su qualche punto percentuale, e quindi dobbiamo giungere a tali scelte col massimo di consenso possibile. Tenendo conto del fatto che alla crescita della rabbia sociale (e quindi del radicalismo) fanno da contraltare paure diffuse ('e che succede poi?', 'ma cosa può fare l’Italia da sola?') che non sono occasionali, ma derivano da esperienze storiche severe (Grecia) o dalla 'lunga durata' delle abitudini geopolitiche del paese.").

Oltre a ciò, Porcaro si inoltra in un esame della complessità geopolitica di un'operazione di uscita unilaterale dall'UE esprimendo considerazioni e valutazioni che, a prescindere dal fatto che le si condivida o meno, rivelano tuttavia una postura da statista che mal si concilia col suo ruolo politico effettivo e con quello di un piccolo gruppo come P&C. Evidentemente Porcaro deve sentirsi come un nuovo Cavour, il quale seppe manovrare tutte le forze presenti sullo scenario italiano ed europeo al fine di raggiungere l'unità d'Italia. E davvero, se Porcaro fosse oggi primo ministro, prenderei in seria considerazione le cose che scrive, ma così non è. Porcaro, e con lui P&C,  è solo un esponente di una piccola e minoritaria fazione politica; una di quelle che, se ci fosse al governo un nuovo Cavour, sarebbero da questi manovrate per raggiungere l'obiettivo di restituire sovranità all'Italia.

Ma allora perché Mimmo Porcaro, e con lui P&C, ragiona da "statista" quale non è, e non invece da militante e patriota come dovrebbe, dando così vita a una formazione politica che faccia dell'intransigenza la sua ragion d'essere, come è ancora possibile quando si è agli inizi? Non è forse vero che Cavour seppe utilizzare perfino i mazziniani più accesi per tessere la sua tela diplomatica, e anzi senza le forze più estreme avrebbe probabilmente trovato maggiori difficoltà o forse fallito?

Poiché non riesco a credere che P&C possa coltivare l'illusione di diventare in tempi ragionevoli una forza di governo, né che Porcaro possa immaginare di esserne il Presidente del Consiglio, sono costretto a cercare altre spiegazioni. Una di queste, suggerita anche dalle amare delusioni che tanti ci hanno offerto negli ultimi anni, è che gli uomini e le donne di P&C abbiano scelto di non dedicarsi all'umile ma indispensabile lavoro di costruire un fronte di opposizione radicale nel nome dell'obiettivo primario della nostra collettività nazionale: la riconquista del potere di auto determinarsi sul piano interno, per il diritto di adottare senza vincoli esterni tutte le soluzioni di politica economica e sociale volute dalla maggioranza degli elettori. La nascita di una siffatta forza politica sarebbe, a mio avviso, molto più importante del fatto di costituirne una che, per quanto potrà tenersi lontana da posizioni esplicitamente radicali sulla necessità di uscire dall'UE, non sarà mai accolta in nessun governo! Cosa resterebbe da fare a questa forza, se non riuscire, nella migliore delle ipotesi, a conquistare qualche scranno, ma al prezzo di non dire la verità? Per non parlare del fatto che, ove mai riuscisse a ottenere qualche scranno, i suoi rappresentanti eletti sarebbero sempre a rischio di essere cooptati dal PD o da qualche altra formazione politica falsamente socialisteggiante, come spesso è avvenuto in passato.

Ognuno di noi, in quanto parte della collettività nazionale che chiamiamo Patria, ha l'obbligo morale di fare la sua parte nel luogo e nelle circostanze in cui lo ha messo la vita: chi insegnando a scuola, chi lavorando nella pubblica amministrazione, chi facendo l'imprenditore, e anche ricoprendo un ruolo da intellettuale. Ma sempre dicendo la verità.

Ora invertire l'ordine delle priorità, cioè indicare agli elettori un obiettivo di equità sociale che si sa non essere perseguibile perché si è persa la libertà, è una menzogna; e come tale non può essere agìta (nemmeno a fin di bene) da chi non ha ancora, e non potrà avere in tempi ragionevoli, una posizione di governo in un paese veramente libero. Scegliere di seguire una linea politica fondata sulla menzogna, per calcoli elettoralistici o superbia intellettuale, è come minimo un errore politico. Talmente evidente che, nello sforzo di trovare una spiegazione, può affacciarsi alla mente di molti, come in effetti è, il sospetto che chi lo fa si stia costruendo uno scenario di comodo, all'interno del quale provare a dare concretezza alle proprie ambizioni.

Mi dispiace che qualcuno se la sia presa, ne sono afflitto, ma credo di aver solo dato voce a un pensiero che è nella mente di molti. Tuttavia sono libero di farlo perché non conto niente, sono solo un professore di provincia che sogna la pensione ma, proprio per questa ragione, non devo preoccuparmi di altro che dire la verità. Lo stesso atteggiamento, io credo fermamente, che dovrebbe essere fatto proprio da qualsiasi forza minoritaria che si sforza di nascere e crescere. Verrà il tempo della diplomazia, delle mezze verità, e financo, se e quando si sarà al governo, quello di praticare la menzogna come è obbligo di chi serve il suo paese da statista. Ma chi parla da statista quando non lo è, ed è solo un militante o un intellettuale, o entrambe le cose, non la racconta dritta. Oppure ha completamente sbagliato l'analisi.

mercoledì 20 marzo 2019

Le treccine di Greta e il metodo scientifico


Premessa


Ho fatto vedere questo documentario ai miei studenti del IV anno. L'ho fatto per insegnare loro come funziona il metodo scientifico, in particolare il suo primo assioma che consiste nel dubitare di qualsiasi teoria. Gli ho detto che non è vero che vi sia consenso unanime sulla teoria del riscaldamento globale, visto che il governo del più potente paese del mondo, e il più tecnologicamente avanzato, gli USA, lo ha rinnegato. La risposta a ciò non può essere quella di demonizzare quel governo sulla base di un preconcetto politico che, ovviamente, non rientra nel metodo scientifico.

Gli ho anche ricordato che, quando avevo la loro età, ero bombardato da un messaggio diametralmente opposto: che fosse in atto un processo di raffreddamento globale che avrebbe reso le regioni più vicine ai poli progressivamente meno abitabili. Ciò avveniva come conseguenza del fatto che dal 1940 al 1975 le temperature medie del pianeta erano scese, nonostante proprio in quegli anni la produzione di co2 da attività antropiche stesse crescendo con rapidità. Non solo! Prima del 1940, quando le emissioni di co2 erano trascurabili, le temperature erano invece aumentate, cosicché si può sostenere che la relazione causale tra aumento della concentrazione di co2 e delle temperature viene smentita, solo negli ultimi 150 anni, per ben due volte su tre.

Gli ho anche fatto notare come l'ultima campagna mediatica sul riscaldamento globale, che ha adottato la giovane Greta come testimonial, possieda tutte le caratteristiche della propaganda. Dopo averli avvertiti che questa circostanza, da sola, non basta per considerare falsa la teoria del riscaldamento globale, poiché è sempre possibile che la propaganda venga usata per sostenere una teoria vera per rafforzarne l'assimilazione presso grandi masse al fine di sensibilizzarle, ho sottolineato che l'esistenza di una chiara propaganda è però un fatto innegabile.

L'insieme delle suddette considerazioni impone, pertanto, di prendere in considerazione ogni possibilità: sia il fatto che la teoria del riscaldamento globale sia scientificamente fondata e che la si propagandi per sensibilizzare le popolazioni; sia che sia falsa e che dietro la propaganda si celino interessi di natura politica. Infine, ho sottolineato con convinzione che un corretto approccio scientifico deve considerare anche altre possibilità: 
  1. Il riscaldamento globale è solo una fase di un continuo cambiamento climatico le cui cause non sono riconducibili all'attività antropica
  2. Il riscaldamento globale è causato dall'attività antropica ma non è la co2 l'agente responsabile
  3. Il riscaldamento globale è la conseguenza di esperimenti su larga scala per il controllo del clima a fini bellici
  4. Il riscaldamento globale è causato dalle flatulenze dei puffi
  5. ... etc. etc. etc...
Insomma, serve apertura mentale e umile applicazione della metodologia scientifica.

Dati di partenza


Se il riscaldamento globale è causato dalla presenza della co2 nell'atmosfera dobbiamo conoscerne la concentrazione. Secondo gli ultimi dati questa è di 410 ppm, ovvero per ogni milione di molecole di tutti i gas presenti in atmosfera - Vapore acqueo (H2O), anidride carbonica (CO2), protossido di azoto (N2O), metano (CH4) ed esafluoruro di zolfo (SF6) - quelle di co2 sono 410, cioè lo 0,041%. In figura la concentrazione in ppm di co2 dal 1982 al 2017:


L'aumento è del 20% in 36 anni. In realtà la concentrazione è solo in parte conseguenza di attività antropiche, per cui si dovrebbe indagare la possibilità che questo aumento sia stato influenzato, ad esempio, da anomalie nell'attività vulcanica.

https://ingvvulcani.wordpress.com/2018/07/13/lattivita-vulcanica-della-terra-sta-aumentando-no-e-tutto-nella-normalita/
In effetti (scontando il fatto che nei secoli passati molti vulcani attivi non erano conosciuti) è innegabile che negli ultimi decenni l'attività vulcanica sia in crescita. Il fenomeno viene considerato nella regola dagli esperti, però dal punto di vista dell'aumento della co2 in atmosfera esso ha sicuramente contribuito. E' però necessario sapere che le emissioni di co2 di origine antropica superano quelle da attività vulcanica di almeno un fattore 10. Le prime generano 26Gt/anno (miliardi di tonnellate) le seconde circa 2GT/anno. Pertanto ogni critica alla validità della teoria del riscaldamento globale che tiri in ballo l'attività vulcanica è da ritenersi scarsamente fondata. Oltre a ciò, è bene tener presente che non tutta la co2 prodotta ogni anno da attività antropiche, da vulcani o altre fonti deve essere semplicemente sommata a quella già esistente, perché la co2, oltre che creata da una molteplicità di fonti, viene anche distrutta, realizzandosi così un ciclo della co2 che, negli ultimi decenni, ne ha visto crescere la concentrazione.

Ma allora perché parlo dei vulcani? Perché nel filmato presentato agli studenti al minuto 24'37'' viene affermato che i vulcani producono più co2 di tutte le attività antropiche, il che è falso.

Questa bufala sui vulcani, insieme alle treccine di Greta, dimostra in modo lampante che tutta la questione si riduce, dal punto di vista della comunicazione pubblica, a pura propaganda!

A maggior ragione è necessario ogni possibile sforzo per occuparsi del problema in modo metodologicamente corretto dal punto di vista scientifico. Un mio modesto contributo consiste nel calcolare, sulla base dei dati disponibili e universalmente accettati, la sensibilità delle variazioni della temperatura media rispetto a quelle della concentrazione di co2, e nel trarre da ciò alcune considerazioni generali. Il tutto, ovviamente, nell'ipotesi che sia vera la relazione di causalità tra aumento della concentrazione di co2 e della temperatura, e non il contrario: ovvero che siano gli aumenti di temperatura legati a fattori esogeni, ad esempio l'attività solare, a determinare gli aumenti della concentrazione di co2. Una tesi, quest'ultima, che personalmente mi appare più convincente, sebbene non la consideri provata oltre ogni ragionevole dubbio.
Fig. 1
Dalla figura si vede come la temperatura media globale sia aumentata dal 1980 di 0,4 gradi, mentre nello stesso periodo la concentrazione di co2 è passata da 340 a 410 ppm. Il che significa che negli ultimi 30 anni la temperatura media globale è aumentata mediamente di meno di 0,6 centesimi di grado per ogni aumento di co2 di 1 ppm.

Il grafico qui sotto completa i dati sui quali proverò a ragionare.
Fig. 2
Il grafico di fig.2 ci mostra che nel periodo dal 1910 al 1940 la temperatura media globale è aumentata di 0,5 gradi, mentre nel frattempo la concentrazione di co2 passava da circa 300 ppm a 305 ppm. In quel periodo, dunque, la sensibilità della temperatura alla concentrazione di co2 è stata decisamente maggiore: 8 centesimi di grado/ppm, ovvero più di 130 volte maggiore che nel periodo tra il 1980 e il 2010. Si potrebbe invocare una sorta di "effetto non lineare", in base al quale la sensibilità della temperatura all'aumento di concentrazione di co2 varierebbe in funzione del suo livello. 

Se tale effetto non lineare fosse una realtà, ciò significherebbe che ci troviamo in presenza di un sistema instabile nel quale, in funzione di non ben identificate soglie critiche di co2 che potremmo raggiungere nei prossimi decenni, si possono innescare comportamenti non lineari. Se questo effetto non lineare esiste davvero, allora saremmo nella condizione per cui in circostanze avverse uno sbuffo di co2 in Alabama potrebbe generare una fornace a Bruxelles. Un esito certamente da non augurarci, ma che qualche risvolto positivo potrebbe anche averlo! 

Il fatto che il coefficiente di proporzionalità tra concentrazione di co2 e aumento della temperatura media globale sia diminuito all'aumentare della concentrazione di co2 non deve trarre in inganno. Come ben sa chiunque si occupi di scienza, gli effetti di non linearità, spesso chiamati "condizioni di risonanza" possono emergere al raggiungimento di soglie diverse, tra le quali il sistema si comporta in modo lineare. A titolo di esempio vi mostro questa figura, che rappresenta la caratteristica di emissione di un diodo laser al variare della frequenza:


Quanto ne sappiamo del sistema climatico per poter escludere la possibilità che si verifichino effetti di risonanza qualora la concentrazione di co2 raggiunga alcune soglie critiche?

Esaminiamo ora un grafico che riporta la concentrazione di co2 e la temperatura media globale negli ultimi 400.000 anni. 


Credo che, sul fatto che concentrazione di co2 e temperatura media globale sono in qualche modo correlate non possano esserci dubbi. Resta però da interrogarsi sulla questione fondamentale: sono le variazioni di co2 a causare quelle di temperatura, oppure sono le variazioni di temperatura a causare quelle di co2?

Il ragionamento, se i dati sono sostanzialmente corretti come credo, è piuttosto semplice. Se il rapporto di causalità è quello per cui le variazioni di co2 determinano quelle di temperatura, allora si può e deve fare qualcosa, atteso che vi è anche la possibilità del verificarsi di un temuto effetto di non linearità tale che, raggiunta una soglia critica, l'intero sistema subisca una transizione non lineare dagli effetti potenzialmente catastrofici. Viceversa, se il rapporto di causalità è quello per cui sono le variazioni di temperatura - che si verificano per ragioni esogene, ad esempio l'attività solare - a causare quelle di co2, allora non solo non vi è molto che possiamo fare, ma anzi, agendo sugli effetti (le variazioni di co2) e non sulle cause - sulle quali non abbiamo potere alcuno, rischiamo di combinare l'ulteriore disastro di impoverire economicamente l'intero pianeta, colpendo così soprattutto le sue aree più povere che hanno estremo bisogno di svilupparsi.

I sostenitori della teoria per cui il driver fondamentale dei cambiamenti climatici è il sole hanno dalla loro solide argomentazioni. La prima di esse è la mancata correlazione, negli ultimi secoli, tra aumenti della concentrazione di co2 e della temperatura globale, ma si tratta di un'argomentazione che, se si rivelasse inesatta perché questa è una conseguenza del fatto che il sistema climatico è non lineare, avrebbe l'effetto di nascondere un problema ben più grave: ovvero il rischio di un effetto valanga col raggiungimento di una soglia critica, oltre la quale si scatenerebbe la fine del mondo. Un indizio a favore di questo grave pericolo è rappresentato proprio dal cambio del coefficiente di proporzionalità tra concentrazione di co2 e temperatura, che è anche uno dei punti di forza degli scettici.

Conclusioni


Come vedete, e come ho spiegato ai miei studenti, il tema dei cambiamenti climatici è estremamente complesso e potenzialmente molto pericoloso, chiunque abbia ragione. E poiché esso riguarda tutti noi, la prima esigenza è quella di liberarlo dalla propaganda politica: non contrastare l'aumento della concentrazione di co2 potrebbe rivelarsi catastrofico, ma altrettanto può esserlo frenare lo sviluppo, soprattutto dei paesi poveri, in base a timori infondati alimentati da una teoria farlocca.

Ho cercato, nel mio piccolo, di essere onesto coi miei studenti e con voi pochi lettori. Quello che mi dispiace, più di tutto, è vedere le truppe di fans che si azzuffano, ancora una volta comandate a bacchetta dalle centrali di condizionamento che obbediscono alle menti raffinatissime di questa o quella fazione del grande capitale privato. Io sbaglio spesso perché sono un essere limitato, ma vi assicuro che lo faccio sempre e solo con la mia testa, dopo aver dedicato ai problemi che mi si pongono l'attenzione e l'energia che giudico necessaria e sufficiente in base alla loro priorità. In questo penso di non sbagliare.

martedì 19 marzo 2019

Il sapore della verità

Il video incorporato è un assaggio, il resto potete trovarlo qui.


L'incontro è stato organizzato da:  Associazione Socialismo, Federazione Giovani Socialisti, Mondoperaio, Partito Socialista Europeo, Partito Socialista Italiano; in pratica dai socialisti che considerano l'Unione Europea un progetto sostanzialmente positivo i cui ideali sono stati deviati e, dunque, che sia nell'Unione Europea che si deve organizzare la battaglia ideale e politica per rimetterli al loro posto. Tra gli invitati anche Stefano D'Andrea, fondatore e Presidente del Fronte Sovranista Italiano, che ha discusso la tesi oppostal'Unione Europea, oltre che irriformabile, è un disegno politico strutturalmente opposto agli ideali socialisti, oltre che politicamente ed economicamente insostenibile; a meno di mettere nel conto, al fine di imporlo, un'azione basata sull'uso esplicito della forza. Ma, comunque, destinato alla rapida dissoluzione.

Vi invito a trovare il tempo per ascoltarlo tutto, con particolare attenzione gli interventi di SdA. Emerge dal dibattito un "sapore di verità" che cattura i palati in grado di apprezzarlo, soprattutto nel contrasto tra l'irenica narrazione di Giulio Saputo (segretario del Movimento Federalista Europeo della Toscana) e quella concreta e razionale di SdA.

Purtroppo il FSI è rimasto l'unico gruppo politico organizzato a difendere la linea del recesso dai trattati europei come unica strada percorribile, mentre moltissimi altri compagni di strada (faccio alcuni nomi: Bagnai, LBC, Moreno Pasquinelli, Enea Boria, Marco Mori, Fassina, Mimmo Porcaro, Ugo Boghetta...) si stanno avventurando per sentieri che non porteranno a nulla, se non in qualche caso a un ristoro personale, comunque sempre a caro prezzo sul piano morale. La sola cosa che mi sento di dir loro è "fermatevi! siete ancora in tempo". Naturalmente «Faber est suae quisque fortunae», e chi è un povero cristo come il sottoscritto per dare lezioni in tal senso? 

Potrei anche disinteressarmi del destino spirituale e morale, prima ancora che politico, dei sempre più timidi oppositori dell'Unione Europea che ho citato, ma il fatto è che vedo un pericolo all'orizzonte. Cari amici, supponete per un istante che SdA e il FSI abbiano ragione, e cioè che l'Unione Europea sia un progetto, oltre che di ispirazione liberale, anche insostenibile (nel senso letterale del termine) ovvero destinato a crollare catastroficamente: vi rendete conto della responsabilità che vi assumete lasciando sulle spalle del solo FSI e di SdA il ruolo di soli e veri oppositori? Lo volete capire che il vostro vero compito è, soprattutto, quello di impedire che sia un solo raggruppamento politico, certo oggi molto minoritario ma domani chissà, a potersi fregiare del merito di essere sempre stato coerentemente un nemico del folle progetto unionista? Vi rendete conto di quanto pericoloso ciò potrebbe essere, al netto delle ottime intenzioni democratiche degli uomini e delle donne del FSI nelle quali possiamo pur credere?

Ecco, passatevi una mano sulla coscienza, e soprattutto sforzatevi di guardare la realtà in modo concreto: abbiamo una sola possibilità di contare qualcosa, e questa risiede nel fatto che il progetto unionista crolli per le sue irrimediabili tare congenite. Se questo non accadrà, allora ogni cosa che possiamo fare sarà inutile; ma se questo dovesse accadere, tutti noi saremo chiamati a rispondere per quello che non avremo fatto. Ebbene, quello che non dobbiamo fare è lasciare solo il FSI sulla linea della fermezza e dell'intransigenza. Non per aiutare il FSI, ma per impedire che esso, rimasto solo, possa soccombere sotto il peso degli impegni, per trasformarsi in qualcosa che oggi non è, che spero ardentemente non diventi mai, ma in cui potrebbe trasformarsi

La linea del recesso dai trattati europei deve essere sostenuta da una molteplicità di piccole - oggi - organizzazioni, essa deve essere corale. 

domenica 17 marzo 2019

La magna carta - ovvero la democrazia è sempre tra pari

La democrazia è sempre l'esito di un conflitto tra pari. Per ritrovare il filo conduttore della grande storia dell'occidente basta sostituire la pretesa del potere assoluto delle case regnanti del passato con quella odierna della commissione europea: dai greci ai romani, passando per il medioevo e fino all'era moderna e alla contemporaneità, la democrazia non è un valore, ma una conquista. Al più, è un valore ex-post: che si impone, dopo il conflitto, come nuovo equilibrio. Ma chi non ha la forza per parteciparvi semplicemente non esiste: è uno schiavo.

venerdì 15 marzo 2019

Il gretinismo

Vieni avanti Gretina!
Greta Thunberg, la novella Giovanna D'arco svedese, è riuscita là dove milioni di ambientalisti hanno fallito per anni. Deve essere una santa, ispirata dallo spirito globale dei nostri tempi. Pensateci, una ragazzina di quindici anni che per un anno è andata a protestare davanti al parlamento svedese, e nessuno che sia intervenuto davanti a un comportamento così strano per una quindicenne, anzi quattordicenne quando ha cominciato. La madre? Forse troppo impegnata per occuparsene, ma in fondo che rischi correva a star seduta davanti al parlamento? Un miracolo, qui c'è la mano della Provvidenza, chi siamo noi per dubitare? Mica Rita Pavone!

La bimbetta è ora giustamente, sacrosantemente e non qualunquemente candidata al Nobel per la pace, sapete quello che è stato assegnato anche a personaggi del calibro di Kissinger e Obama, nonché all'Unione Europea (“per oltre sei decenni ha contribuito all'avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti umani in Europa”). Niente male per un'adolescente che invece di giocare, studiare e fare sport ha trascorso un anno seduta per terra circondata di cartelloni.

Ma è giusto che sia così perché Greta ha fatto quello che andava fatto: puntare l'attenzione sulla sola cosa veramente importante per l'umanità, notoriamente minacciata dai cambiamenti climatici di cui nessuno si occupa. Non un giornale, telegiornale, nessuna figura pubblica ci parla mai del vero grave e improrogabile problema che incombe sulla vite del pianeta: l'aumento delle emissioni pro-capite di CO2. Ed è giusto indicare i responsabili!



Minchia, i cattivi sono i cinesi! I quali dal 1970 hanno aumentato le loro emissioni pro-capite del 700% (da 1 a 8), mentre gli USA le hanno diminuite (fino all'arrivo di Trump, ovvio) del 27%, da 22 a 16. Bravi gli europei, invece: Francia -44% (da 9 a 5), Regno Unito - 50% (da 12 a 6). Noi italiani? Stabili, salvo un breve periodo dal 2000 al 2008: poi per fortuna siamo rinsaviti.

Se ne deduce che la guerra ambientalista deve essere combattuta contro i cinesi e gli americani, prima di tutto. E i russi e gli indiani? Andiamo a vedere.

Un paese che nel 1998 sembrava ben avviato sulla via della virtù, improvvisamente è ricaduto nel vizio. Salvo un bel periodo nel 2009, ma una rondine non fa primavera, si sa.

Diamo un'occhiata all'India:

Veramente pazzesco, un aumento del 500%. 

Signori, se vogliamo evitare la guerra serve un governo mondiale che imponga un livello di emissioni di co2 al quale tutti dovranno convergere. Si potrebbe adottare lo standard medio della santa Unione Europea, che è a 3 tonnellate annue pro-capite. Dunque gli USA dovrebbero scendere da 16 pari al -80%, la Germania da 8,92 pari al -66%, la Francia da 5,19 pari a -42%. Al contrario l'India potrebbe crescere da 1,66 pari a +44%. 

Possiamo far leva sul movimento gretino che tanto entusiasmo sta suscitando. 

O no? Mi sfugge qualcosa? Vediamo, pare che le emissioni di co2 di tutte le flotte mercantili del mondo siano equivalenti a un consumo di 2 miliardi di tonnellate di gasolio al giorno, mentre quello di tutte le automobili a uno di 7 mln di tonnellate al giorno, cioè 285 volte in meno. Pare che riducendo dell'1% i consumi delle flotte mercantili si risparmierebbe più gasolio di quanto ne consumino tutte le automobili del mondo...

E allora che aspettiamo? Diventiamo tutti gretini! Siamo già sulla buona strada, ne vedo molti in giro.

giovedì 14 marzo 2019

Il contributo scolastico "volontario" e una proposta per la costituzione dei "soviet di classe"



Io sono un prof.

Ogni anno, di questi tempi, si aprono le iscrizioni all'anno successivo e le famiglie si trovano davanti alla richiesta di versare un contributo "volontario" di entità variabile da alcune decine di euro fino a qualche centinaio, spesso presentato, in modo più o meno subdolo, come obbligatorio.

Io credo che gli studenti e le famiglie dovrebbero organizzarsi per lanciare un'iniziativa del tipo "no taxation without representation" il cui fine sia la richiesta, tassativa e non negoziabile, che i proventi di questo contributo, che comunque deve restare volontario, siano totalmente sotto il controllo delle assemblee di classe degli studenti, delle famiglie attraverso i rappresentanti eletti, e con il coinvolgimento a titolo esclusivamente consultivo del consiglio di classe degli insegnanti.

Spesso vediamo in televisione film o serie sulla scuola che si sviluppano in ambienti che nulla hanno a che vedere, nemmeno lontanamente, con i locali degradati in cui studenti e insegnanti trascorrono oltre 200 giorni all'anno: muri scrostati, finestre con vetri pericolosi per l'incolumità degli studenti, finestre senza tapparelle, interruttori luce sfondati, Lim non funzionanti, lavagne tradizionali inadeguate, riscaldamento invernale insufficiente, banchi e sedie rotti, cattedre senza cassetti, mancanza perfino di attaccapanni, e molto altro, sono la quotidianità per centinaia di migliaia di studenti e insegnanti. Dopo la propria casa, le aule scolastiche sono il luogo dove i nostri studenti trascorrono più tempo per tutta la durata del loro periodo di apprendimento, dalle elementari alle medie superiori.

Considerando una media di 25 alunni per classe, un contributo di 100 € (ma si arriva anche a diverse centinaia di € nelle scuole frequentate dai figli della classe medio alta) significano una cifra di 2500 €/anno, i quali, per le sole superiori che durano cinque anni, sommano 12500 €. Se questa cifra, che è assolutamente volontaria, e non obbligatoria come molti dirigenti scolastici si sforzano di far credere, fosse interamente spesa per l'allestimento delle aule in cui gli alunni trascorrono almeno 200 giorni l'anno, in totale 1000 giorni sui cinque anni delle superiori pari al 55% dei giorni, le cose potrebbero cambiare radicalmente. Purtroppo non è così, perché i ricavi di questo contributo "volontario" vengono utilizzati in funzione sussidiaria rispetto ad altre attività che, invece, dovrebbero essere a totale carico dello Stato; e spesso per finanziare iniziative astruse che hanno un impatto minimo, quando non nullo, sulla qualità della vita degli studenti a scuola.

Ma se questo contributo è "volontario", e dunque non obbligatorio (chi provasse a comunicare a studenti e famiglie il contrario incorrerebbe in un reato penalmente perseguibile) allora vi è la possibilità di aprire un confronto con le istituzioni scolastiche che lo chiedono, al fine di imporre che il suo utilizzo sia sotto il controllo diretto delle famiglie che "volontariamente" scelgono di versarlo. Infatti, essendo il contributo "volontario", le famiglie possono ben decidere di non farlo se non viene accolta la più che giusta richiesta di controllarne l'uso. No taxation without representation, per l'appunto!

L'iniziativa dovrebbe nascere dagli stessi studenti, coadiuvati dalle famiglie, ma ritengo che a noi insegnanti spetti il diritto-dovere di chiarire la circostanza sia agli studenti che alle loro famiglie. Si tratta, semplicemente, di dire la verità, e cioè che il contributo è "volontario", cioè non dovuto in base a nessuna legge dello Stato, e che al suo eventuale mancato versamento non può in alcun modo corrispondere alcuna conseguenza per gli studenti le cui famiglie decidano di non effettuarlo!

Chiedo scusa se insisto sul concetto di non obbligatorietà del contributo volontario, ma purtroppo ho potuto verificare come questa semplice circostanza sia tenuta nascosta, e anzi come la comunicazione posta in essere da molte scuole tenda a spacciarlo come obbligatorio. Si tratta, ci tengo a ribadirlo, di una circostanza che potrebbe avere rilievi anche penali per i dirigenti scolastici e, più in generale, per l'intero corpo docente chiamato a legiferare sulla vita scolastica nel collegio docenti, e dunque responsabile delle decisioni qui assunte.

Sottomettere il contributo volontario, che in quanto tale dovrebbe assumere un carattere di soglia di riferimento, lasciando alle famiglie che possono permetterselo anche la libertà di contribuire con cifre maggiori (ovviamente in forma anonima) e a quelle in difficoltà di versare somme minori o addirittura nulla, al controllo degli studenti e delle loro famiglie, coinvolgendo il consiglio di classe degli insegnanti in funzione consultiva e propositiva ma senza diritto di voto sulle scelte ultime, avrebbe l'effetto di responsabilizzare gli studenti.

In tal modo le assemblee di classe cesserebbero di essere quel rituale stanco e privo di sostanza al quale siamo abituati da decenni, potendo gli studenti, finalmente, deliberare non sul nulla ma su cifre che cominciano ad avere una qualche rilevanza.

La democrazia sostanziale è anche un'abitudine mentale, il cui esercizio deve essere praticato fin dall'adolescenza e su questioni che abbiano sostanza. Non v'è un'età, come l'adolescenza, in cui i giovani abbiano le antenne più drizzate per capire in che razza di mondo sono capitati! Concedere loro assemblee di classe in cui non possono decidere su nulla di concreto e reale è un inganno, le cui conseguenze la società pagherà nel tempo.

Dunque che i nostri giovani studenti siano responsabilizzati sull'uso del contributo volontario che le loro famiglie sono invitate ad erogare. Che questo contributo sia da essi gestito, in collaborazione con le loro famiglie e con l'ausilio del corpo insegnante di classe, che vive con loro nelle aule per almeno 200 giorni all'anno.

Insomma, si costituiscano i soviet di classe!

martedì 12 marzo 2019

Sovranità popolare e sovranità nazionale

La cricca
Una collettività, ancor più se tale collettività assurge al rango di popolo, se vuole essere sovrana deve risolvere un'equazione politica con almeno due variabili. Deve cioè affrontare e risolvere l'equazione della sovranità interna e della sovranità esterna. La prima attiene al problema di come si costituisce il potere all'interno della collettività, il secondo a quello di esercitare la forza che ne deriva nei confronti di altre collettività organizzate esterne alla nazione: la politica e la geopolitica.

I due problemi, pur essendo strettamente connessi, si pongono tuttavia su piani diversi. Sono connessi perché, se non vi è sovranità nazionale, ovvero un grado minimo di indipendenza rispetto ad altre collettività organizzate esterne alla nazione, la questione della sovranità interna non si pone neppure, essendo chiaro che in mancanza di una sufficiente capacità di auto determinazione la collettività è ridotta allo stato di colonia. Parrebbe dunque che la sovranità esterna, che chiameremo tout-court sovranità nazionale, sia preminente rispetto alla sovranità interna. Questo è vero con molti limiti, poiché una sovranità nazionale ottenuta senza risolvere l'equazione per la parte che riguarda la sovranità interna costituisce una soluzione necessariamente non democratica. In effetti un gruppo sociale, sufficientemente organizzato e forte, può conquistare il potere all'interno della nazione, ed esercitarlo verso l'esterno con successo, ma ciò comporta, oltre alla già accennata perdita di democrazia, un effetto castrante rispetto al pieno sviluppo delle energie della collettività. Queste, infatti, possono dispiegarsi al massimo della loro efficacia solo grazie al contributo attivo, e fondato sulla condivisione di un interesse comune, di tutti i gruppi sociali. La forza delle vere democrazie discende da ciò.

I sovranisti costituzionali, la corrente politica alla quale appartengo, si pongono da sempre il problema di risolvere l'equazione della sovranità sul piano interno, ritenendo che ai fini della libertà e della democrazia sostanziale questo aspetto sia non meno fondamentale della sola sovranità nazionale. Da ciò discende un atteggiamento dei sovranisti costituzionali, nei confronti dei nazionalisti, che corre su uno stretto sentiero. Noi non disdegniamo la sovranità nazionale, o interesse nazionale come viene prudentemente chiamato, ma siamo assolutamente convinti che, nelle attuali circostanze, tale difesa dell'interesse nazionale sia fondata su presupposti deboli, perché non vi è garanzia che il gruppo sociale che oggi si erge a sua difesa non possa facilmente barattarlo in cambio di privilegi per sé stesso. Ed è per questo che la categoria del tradimento sta acquistando, nel nostro mondo, un'importanza particolare.

Per noi sovranisti costituzionali la sovranità interna significa sovranità popolare, che non equivale semplicisticamente e solo alla sovranità della maggioranza così come emerge dalle consultazioni elettorali, e nemmeno alla circostanza per cui le elezioni si svolgano in condizioni di parità comunicativa, come pure non è. La vera sovranità popolare emerge come conseguenza di un patto fra corpi sociali diversi che, nella loro interezza, rappresentino la stragrande maggioranza (meglio, sebbene impossibile, la totalità), ognuno dei quali abbia la forza di imporre la propria partecipazione alle decisioni politiche fondamentali, interne ed esterne . Questo concetto non deve essere confuso con l'interclassismo, dottrina politica e sociale fondata sulla convivenza e la collaborazione delle diverse classi sociali, che è una visione irenica e falsa della realtà concreta. Tanto è vero che ho usato, intenzionalmente, il verbo "imporre": solo quei gruppi sociali che hanno la forza di "imporre" la propria partecipazione, in condizioni di parità, alla conduzione della cosa pubblica, possono godere della democrazia. Questa, come ho avuto modo di esprimere in occasione dell'invito a un incontro dell'amico Ippolito Grimaldi, è sempre  e solo inevitabilmente un patto fra pari.

Questo patti fra pari, inteso fra corpi sociali organizzati con interessi diversi, in Italia non è oggi possibile perché vi è un solo gruppo sociale organizzato che egemonizza la vita politica: la cricca alto-borghese che fu sostenitrice e complice dell'avventura fascista, nonché responsabile della fine della prima repubblica. E, nel ventennio precedente, di un attacco forsennato e criminale agli equilibri politici sanciti dalla Costituzione del 1948, condotto a suon di bombe, terrorismo, servizi segreti deviati e manipolazione crescente grazie al monopolio dell'industria della comunicazione e culturale. Se oggi in Italia non vi è guerra civile è perché questa cricca, che è ideologicamente liberale e concretamente dedita alla difesa i suoi interessi finanziari e industriali, ha annichilito tutte le forze sociali che le si possono opporre.

Questa cricca oggi straparla di interesse nazionale, il quale nelle condizioni date non può che coincidere con l'interesse di detta cricca. Nel far ciò si avvale anche dell'apporto di alcuni di coloro che, in tempi recenti, avevano dato l'impressione di possedere uno spirito ribelle ma, davanti all'immensità di un compito che travalica l'esistenza umana, ovvero ristabilire la vera e sostanziale democrazia nella nostra Patria, e cioè la sovranità popolare, per debolezza spirituale hanno fatto scelte sbagliate.

Siamo ad un passaggio cruciale della storia, non solo del nostro paese. La democrazia borghese, fondata sull'idea di partecipazione, intesa però e sempre più come valore nominale e formalisticamente sottoposto a riti svuotati di sostanza  (ne sono una dimostrazione lampante le leggi elettorali sempre più improntate al criterio di governabilità, e quindi infarcite di ostacoli di ogni sorta concepiti per sterilizzare la partecipazione dal basso) non è più garanzia di partecipazione vera di interessi concreti diversi e tuttavia cointeressati alla ricerca di una sintesi. Questo modello di democrazia, ormai degenerato a competizione solo demagogica ma privo di contenuti ideologici, i quali sono necessariamente di classe, si è trasformato in una dittatura delle opinioni manipolate. Oltre al danno c'è la beffa, per cui ogni opinione dissenziente viene bollata dagli altoparlanti più potenti (cit.) come fake-news. Il punto essenziale da capire, sintomo eclatante della morte della democrazia, è l'abbandono del dialogo razionale, sostituito in pieno dalla demagogia basata sulla sapiente manipolazione delle emozioni, oltre che dei fatti.

La rivolta contro questo inaccettabile stato delle cose, incompatibile con la lunga tradizione culturale della grande civiltà greco-romana, e anzi suo cancro divorante, non potrà consistere solo nel tentativo di far leva su una "sollevazione" degli interessi economici dei gruppi sociali perdenti ed esclusi, ma dovrà avere un carattere più profondo. Essa dovrà costituirsi prima di tutto come pretesa, senza la minima ipotesi di cedimento o compromesso, di riconquistare lo spazio del logos, cioè la preminenza della verità logica e dei fatti sulla propaganda sofistica della cricca liberale. Questa riconquista è la precondizione essenziale affinché la storia della civiltà possa continuare ad evolversi lungo il sentiero della democrazia, volgendo le spalle all'orizzonte distopico verso il quale stiamo correndo a precipizio. Per questa ragione chiunque volga le spalle a questo compito, per miserrimi interessi personali o per auto assolutoria interpretazione delle contingenze, deve oggi essere condannato all'ostracismo. Anche le guerre di civiltà esigono la loro razione di vittime, più o meno colpevoli.

lunedì 11 marzo 2019

I morti di fame [post breve ad alto tasso etilico]


Visto che il post precedente non se lo incula nessuno, forse perché è troppo denso, mi metto a scrivere con un tasso etilico da ritiro immediato della patente. Ma tanto sono a casa mia e allora... dito medio.

Parli con la gente e gli spieghi che lo Stato potrebbe stampare tutta la moneta che vuole, ma ti senti rispondere che stampare moneta non crea ricchezza.

Allora.

Posto che si potrebbe discutere anche di ciò, perché se stampi moneta, e con quella metti la gente a lavorare, cioè a fare qualcosa, una qualche cazzo di ricchezza magari la crei....

dicevo

posto ciò, tu gli dici che stampare moneta, ammesso che non crei ricchezza, di sicuro la redistribuisce. E pensi di averli convinti...

E invece no, perché i morti di fame con cui parli, che magari anzi sicuramente guadagnano più di un professore qual io sono...

IMMEDIATAMENTE

si preoccupano, perché pensano, da veri morti di fame quali non sospettano di essere...

AH, MA ALLORA TU VUOI REDISTRIBUIRE LA MIA RICCHEZZA!

Morti di fame, spiritualmente e intellettualmente parlando.

Che vadano affanculo, 'sti schiavi de mmerda. Tra un po' divento liberale, mi vendo pure io.

domenica 10 marzo 2019

La tecnica della sconfitta

Ho ricopiato un paio di pagine di un libro di Franco BandiniTecnica della sconfitta. Storia dei quaranta giorni che precedettero e seguirono l'entrata dell'Italia in guerra, Milano, Sugar, 1963. Nuova ed. Firenze, Nuova Editoriale Florence Press, 2013. ISBN 978-88-908964-0-8. Il libro mi è stato segnalato dall'amico Mauro Gosmin, abituale commentatore del blog, che ringrazio.

La tesi del libro è che l'Inghilterra, nei primi mesi del 1940, stesse predisponendo una trappola nel Mediterraneo nella quale si sforzava, con poco successo, di far cadere l'Italia, al tempo non belligerante, e che le cose siano invece cambiate per l'inaspettato crollo della Francia. Infatti, in seguito a questo evento, Mussolini ruppe gli indugi credendo che i giochi fossero ormai conclusi, non capendo la reale complessità strategica del conflitto in corso. Questo si giocava sulla necessità, da parte di Hitler, di evitare ad ogni costo il suo allargamento, così da poter affrontare e battere i suoi avversari uno alla volta: prima la Francia, poi la Russia, infine l'Impero inglese. Al contrario, l'Inghilterra aveva interesse a favorire un rapido allargamento del conflitto, così da costringere il Reich a combattere su più fronti il più possibile vasti. Da qui gli sforzi inglesi di provocare l'ingresso in guerra dell'Italia, tendendole al contempo una trappola navale nel Mediterraneo. Tuttavia l'imprevisto crollo della Francia mise l'Italia nella condizione, non ricercata e quindi non meritata, di godere di un enorme vantaggio strategico per più di un anno, di cui l'insipienza della classe politica fascista, delle alte gerarchie militari e diplomatiche, e più in generale delle classi dominanti che avevano creato il fascismo, non seppero approfittare, conducendo così il paese da una possibile vittoria, o almeno da una onorevole sconfitta, al più vergognoso disastro della sua storia.

A mio avviso quelle stesse classi sociali, quelle stesse gerarchie, dopo la parentesi della prima repubblica abbattuta con il colpo di stato di tangentopoli, si sono avventurate nuovamente in un'impresa superiore alle loro capacità diplomatiche, politiche e, soprattutto, morali, inserendo l'Italia nel gioco mortale dell'Unione Europea con la stessa superficialità e impreparazione intellettuale con cui la fecero precipitare nel secondo conflitto mondiale.

Potete acquistare l'interessantissimo libro di Franco Bandini su Amazon. Lo consiglio vivamente.


Entrammo in guerra con la persuasione che si sarebbe potuto non farla, ed anzi che si sarebbe dovuto non farla: quando il potere ed il dovere avevano radici lontanissime nel tempo, ed erano stati decisi nell'atto in cui la borghesia italiana aveva scelto Mussolini come vessillifero di un «mito» in cui amava credere, e di cui l'Impero, la Spagna e la guerra non erano che la naturale conseguenza. Per cui questa sostanziale errata valutazione della posizione in cui l'intera nazione si era leggermente cacciata negli ultimi vent'anni, veniva a provocare, come ultima conseguenza, una ennesima fuga di fronte alle responsabilità: al momento delle cose dure, la maggioranza del popolo italiano, e segnatamente della sua alta borghesia, rifiutò di ammettere che le scadenze dovessero essere pagate, e preferì credere che tutto avvenisse per le colpe di un uomo solo, dietro il quale supinamente bisognava schierarsi.

La seconda conseguenza, perfettamente chiara sul piano logico, fu che mancò ogni preparazione alla guerra: in questo la gerarchia fascista raggiunse un'identità di vedute perfetta non solo con l'alta direzione militare, ma anche con la borghesia e la popolazione. Tutto andava bene quando si trattava di «vivere pericolosamente» in tempo di pace, ma cambiava singolarmente aspetto quando cominciavano a fischiare le pallottole. La nazione era disposta a qualche piccola e facile guerra locale, come erano state l'Abissinia e la Spagna, ma si ritraeva spaventata di fronte all'eventualità di una guerra sul serio, nella quale sarebbe stato ovvio il dover impegnare la stessa compagine sostanziale dello Stato. Perciò era giusto vestire i bambini da Figli della Lupa, e mandarli ai saggi ginnici, ma era assolutamente da scartare l'idea di lavorare per la guerra, accettandone i sacrifici e la stessa idea di cupa fatalità. Di tutte le nazioni entrate nel conflitto, l'Italia è l'unica che vi sia passata con la persuasione che fosse affare che non la riguardava, né da vicino né da lontano: simile alla signora che uscendo con gli abiti spiegazzati da una rissa di ubriachi, si domandi perplessa per quali mai ragioni la fortuna l'abbia costretta a passare proprio di lì.

Ci fu ancora una conseguenza. Circostanze apparentemente favorevoli, e mal giudicate come sempre, fecero ritenere che la guerra fosse possibile e persino desiderabile, dopo la caduta della Francia. Un minimo di capacità politiche, ed un più esatto apprezzamento militare, avrebbero consigliato ad una altra nazione, dotata di maggior senso di responsabilità, una entrata in guerra «contemporanea» all'inizio delle operazioni tedesche sul fronte occidentale: ma quand'anche si voglia ammettere che questa decisione era impossibile, e fuori della portata degli umani apprezzamenti, sta di fatto che quando entrammo in guerra la persuasione che essa in fondo riguardasse veramente una rissa da ubriachi nella quale non avevamo nulla a che fare, fu tale che non la facemmo.

Grandi occasioni furono perdute per questa sostanziale incapacità a realizzare politicamente i termini veri del conflitto: e vennero inflitte alla nazione perdite, sacrifici e vergogne che erano evitabilissime. Quando attorno a noi si stendeva un deserto nel quale il nemico era rimasto improvvisamente sprovvisto non solo di qualsiasi forza di attacco, ma anche delle più elementari difese: quando sarebbe stato possibile impostare le operazioni in modo da fornire a se stessi, per qualunque avvenire, garanzie e vittorie che avrebbero pesato sia al tavolo di un'eventuale pace, sia a quello di un più probabile armistizio. Quando la bilancia della sorte oscillò per la prima volta incerta, e parve persino possibile che il corso della Storia si decidesse veramente a seguire un'altra direzione, l'irresponsabilità della direzione politica e militare italiana fu tale da chiudere alla nostra disgraziata nazione non solo ogni possibilità e speranza di vittoria, ma anche, ed è ciò che più conta, ogni e qualsiasi avvenire politico in Europa e nel mondo. Quasi accasciata sotto il peso di oscure e terribili colpe, ridotta alla più mortale paralisi della volontà da una decisiva malattia dello spirito, una nazione di quaranta milioni di abitanti cominciò in quel momento a seguire la china fatale della propria dissoluzione nazionale, indifferente al proprio destino, rassegnata alla propria sorte.

Infinita la colpa di Mussolini, sia diretta che indiretta: per quel tanto cioè di deteriore che vent'anni del suo dispotismo avevano indotto in tutte le alte direzioni delle singole branche dello Stato. Ma terribile e schiacciante la colpa, questa sì incancellabile, di coloro che Mussolini avevano prodotto, ed accettato e sostenuto: di coloro che male intendendo la posizione dell'Italia nel mondo, l'avevano condotta irresponsabilmente sulla strada di una politica le cui conseguenze, al momento dato, non si potevano evitare. E di coloro che, quando le conseguenze sopravvennero, non vi seppero neppur scorgere quel tanto di utile che se ne poteva pur trarre e che la sorte, imperscrutabilmente, offriva loro. Di coloro infine che, senza avere avuto il coraggio di sbarazzarsi di un uomo che essi stessi avevano creato, giudicarono che una guerra persa sarebbe stata ottima cosa per raggiungere lo stesso fine. Senza accorgersi né ieri né oggi che con lui si sarebbero persi anch'essi, e la stessa nazione. Pensiero criminale non perché attentasse alla «sacra figura» del duce, come vogliono i fascisti di oggi, ma criminale perché era lo stesso sul quale, come su un piatto d'argento, Mussolini era nato ed aveva trionfato.

Dopo guerra, la figura di Mussolini si è rivelata di grandissimo comodo, almeno all'interno della nazione, tantoché se non fosse esistito, si sarebbe reso necessario inventarlo. Nessuna delle accuse che gli sono state mosse, nessuna delle biografie che di lui sono state stese, potrà mai rendere pienamente l'incredibile ottusità di quest'uomo nefasto: la sua totale ignoranza dei problemi anche superficiali della collettività, la fatuità e l'irresolutezza del suo giudizio, la sua completa dipendenza, di tipo psicanalitico, dalle pur mediocri personalità con le quali aveva ad imbattersi. In un certo senso, una definizione esatta di colui che che fu a capo della nazione per più di venti anni non è neppur possibile, perché il suo nome si è caricato, con gli anni, di significati che sono andati a far parte integrante della sua stessa personalità: e la stessa cosa può esser detta per tutti coloro che gli stettero intorno, sia che li avesse trovati nell'alta direzione di questa o quella branca dello Stato, sia che se li fosse scelti: tutti, salvo rarissime eccezioni, a lui somiglianti nella leggerezza del pensiero, nella ignoranza dei fattori sostanziali sui quali erano pur chiamati ad operare, nella nessunissima cura dei veri e profondi interessi della nazione.

Ma la condanna al fascismo non può rimanere isolata né a Mussolini, né alla sua gente: perché essi furono l'espressione, su un piano contingente  e disgraziatamente troppo spettacolare, di movimenti profondi dell'anima nazionale, e la risultante storica di una sostanziale e costante incapacità di tutti nella comprensione dei fini perenni dello Stato, e dei limiti reali in cui esso era chiamato a vivere ed a continuare. Quasi che la nazione fosse incapace di esprimere dal suo tessuto i mezzi e gli uomini del livello minimo necessario a comprendere ed a salvarla: e si fosse rassegnata, in difetto di questo, a sviluppare soltanto una grossolana furbizia di terz'ordine, e l'abitudine a giustificare disinvoltamente se stessa, qualunque cosa potesse succedere.

In quel terribile 1940, l'Italia parve preda ad una bufera di follia collettiva. Come festuche nel vento tutti si mossero in direzioni contrastanti e grottesche, creando sulla leggibile lavagna nera della realtà, un febbricitante mondo di ombre smisuratamente allungate. Agendo con l'angosciosa demenza dell'ubriaco che ripicchia sempre contro lo stesso albero e ritiene alla fine di essersi smarrito in una foresta: adottando, senza altro metro che la propria ignoranza, soltanto quelle soluzioni, militari e politiche, che più sicuramente e più celermente potevano condurci alla sconfitta, politica, diplomatica e sul campo. Una «tecnica della sconfitta» che il fascismo solo non spiega, e sulla quale dobbiamo chinarci pensosi se desideriamo veramente che il passato insegni qualcosa. Una catastrofe che impone la maggiore spietatezza verso noi stessi. Una vergogna del pensiero e delle capacità nazionali che occorre cancellare a tutti i costi, col sacrificio, la rinuncia ai veli della ipocrisia, e con l'assunzione delle responsabilità collettive delle quali, tuttavia, non si vede ad oggi il minimo segno. Tutto, fatalmente, ricomincia sempre.

Quando la Francia cadde, con gigantesco rumore, l'Inghilterra rimase sola e praticamente nuda contro le due potenze dell'Asse: non aveva uomini, non aveva mezzi, non aveva alcuna idea sul come fronteggiare la crisi che l'aveva colta di sorpresa ed in modo così grave. L'unica cosa sulla quale poteva giocare era l'insipienza del nemico, soprattutto di quello, nuovissimo, che si era così pertinacemente procurata nel Mediterraneo. Giocò su questa carta e vinse.

Nello stesso momento veniva creata da noi, ed alimentata con tutti i mezzi, la più colossale mistificazione storica mai messa in atto nella ricerca spasmodica di coprire le proprie incapacità: quella di un'Italia disarmata contro un potentissimo nemico che era follia soltanto pensare di poter battere. Vent'anni prima il nazionalismo italiano aveva creato la leggenda della «vittoria mutilata» e dell'Italia «che aveva vinto per tutti». Ora le stesse fonti varavano un'altra leggenda, alla quale avrebbe arriso la stessa fortuna: ma erano leggende entrambe. Abbiamo scontato la prima con la perdita della nazione. Possiamo chiederci con che cosa dovremo scontare la seconda, semmai venisse il momento.