domenica 10 marzo 2019

La tecnica della sconfitta

Ho ricopiato un paio di pagine di un libro di Franco BandiniTecnica della sconfitta. Storia dei quaranta giorni che precedettero e seguirono l'entrata dell'Italia in guerra, Milano, Sugar, 1963. Nuova ed. Firenze, Nuova Editoriale Florence Press, 2013. ISBN 978-88-908964-0-8. Il libro mi è stato segnalato dall'amico Mauro Gosmin, abituale commentatore del blog, che ringrazio.

La tesi del libro è che l'Inghilterra, nei primi mesi del 1940, stesse predisponendo una trappola nel Mediterraneo nella quale si sforzava, con poco successo, di far cadere l'Italia, al tempo non belligerante, e che le cose siano invece cambiate per l'inaspettato crollo della Francia. Infatti, in seguito a questo evento, Mussolini ruppe gli indugi credendo che i giochi fossero ormai conclusi, non capendo la reale complessità strategica del conflitto in corso. Questo si giocava sulla necessità, da parte di Hitler, di evitare ad ogni costo il suo allargamento, così da poter affrontare e battere i suoi avversari uno alla volta: prima la Francia, poi la Russia, infine l'Impero inglese. Al contrario, l'Inghilterra aveva interesse a favorire un rapido allargamento del conflitto, così da costringere il Reich a combattere su più fronti il più possibile vasti. Da qui gli sforzi inglesi di provocare l'ingresso in guerra dell'Italia, tendendole al contempo una trappola navale nel Mediterraneo. Tuttavia l'imprevisto crollo della Francia mise l'Italia nella condizione, non ricercata e quindi non meritata, di godere di un enorme vantaggio strategico per più di un anno, di cui l'insipienza della classe politica fascista, delle alte gerarchie militari e diplomatiche, e più in generale delle classi dominanti che avevano creato il fascismo, non seppero approfittare, conducendo così il paese da una possibile vittoria, o almeno da una onorevole sconfitta, al più vergognoso disastro della sua storia.

A mio avviso quelle stesse classi sociali, quelle stesse gerarchie, dopo la parentesi della prima repubblica abbattuta con il colpo di stato di tangentopoli, si sono avventurate nuovamente in un'impresa superiore alle loro capacità diplomatiche, politiche e, soprattutto, morali, inserendo l'Italia nel gioco mortale dell'Unione Europea con la stessa superficialità e impreparazione intellettuale con cui la fecero precipitare nel secondo conflitto mondiale.

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Entrammo in guerra con la persuasione che si sarebbe potuto non farla, ed anzi che si sarebbe dovuto non farla: quando il potere ed il dovere avevano radici lontanissime nel tempo, ed erano stati decisi nell'atto in cui la borghesia italiana aveva scelto Mussolini come vessillifero di un «mito» in cui amava credere, e di cui l'Impero, la Spagna e la guerra non erano che la naturale conseguenza. Per cui questa sostanziale errata valutazione della posizione in cui l'intera nazione si era leggermente cacciata negli ultimi vent'anni, veniva a provocare, come ultima conseguenza, una ennesima fuga di fronte alle responsabilità: al momento delle cose dure, la maggioranza del popolo italiano, e segnatamente della sua alta borghesia, rifiutò di ammettere che le scadenze dovessero essere pagate, e preferì credere che tutto avvenisse per le colpe di un uomo solo, dietro il quale supinamente bisognava schierarsi.

La seconda conseguenza, perfettamente chiara sul piano logico, fu che mancò ogni preparazione alla guerra: in questo la gerarchia fascista raggiunse un'identità di vedute perfetta non solo con l'alta direzione militare, ma anche con la borghesia e la popolazione. Tutto andava bene quando si trattava di «vivere pericolosamente» in tempo di pace, ma cambiava singolarmente aspetto quando cominciavano a fischiare le pallottole. La nazione era disposta a qualche piccola e facile guerra locale, come erano state l'Abissinia e la Spagna, ma si ritraeva spaventata di fronte all'eventualità di una guerra sul serio, nella quale sarebbe stato ovvio il dover impegnare la stessa compagine sostanziale dello Stato. Perciò era giusto vestire i bambini da Figli della Lupa, e mandarli ai saggi ginnici, ma era assolutamente da scartare l'idea di lavorare per la guerra, accettandone i sacrifici e la stessa idea di cupa fatalità. Di tutte le nazioni entrate nel conflitto, l'Italia è l'unica che vi sia passata con la persuasione che fosse affare che non la riguardava, né da vicino né da lontano: simile alla signora che uscendo con gli abiti spiegazzati da una rissa di ubriachi, si domandi perplessa per quali mai ragioni la fortuna l'abbia costretta a passare proprio di lì.

Ci fu ancora una conseguenza. Circostanze apparentemente favorevoli, e mal giudicate come sempre, fecero ritenere che la guerra fosse possibile e persino desiderabile, dopo la caduta della Francia. Un minimo di capacità politiche, ed un più esatto apprezzamento militare, avrebbero consigliato ad una altra nazione, dotata di maggior senso di responsabilità, una entrata in guerra «contemporanea» all'inizio delle operazioni tedesche sul fronte occidentale: ma quand'anche si voglia ammettere che questa decisione era impossibile, e fuori della portata degli umani apprezzamenti, sta di fatto che quando entrammo in guerra la persuasione che essa in fondo riguardasse veramente una rissa da ubriachi nella quale non avevamo nulla a che fare, fu tale che non la facemmo.

Grandi occasioni furono perdute per questa sostanziale incapacità a realizzare politicamente i termini veri del conflitto: e vennero inflitte alla nazione perdite, sacrifici e vergogne che erano evitabilissime. Quando attorno a noi si stendeva un deserto nel quale il nemico era rimasto improvvisamente sprovvisto non solo di qualsiasi forza di attacco, ma anche delle più elementari difese: quando sarebbe stato possibile impostare le operazioni in modo da fornire a se stessi, per qualunque avvenire, garanzie e vittorie che avrebbero pesato sia al tavolo di un'eventuale pace, sia a quello di un più probabile armistizio. Quando la bilancia della sorte oscillò per la prima volta incerta, e parve persino possibile che il corso della Storia si decidesse veramente a seguire un'altra direzione, l'irresponsabilità della direzione politica e militare italiana fu tale da chiudere alla nostra disgraziata nazione non solo ogni possibilità e speranza di vittoria, ma anche, ed è ciò che più conta, ogni e qualsiasi avvenire politico in Europa e nel mondo. Quasi accasciata sotto il peso di oscure e terribili colpe, ridotta alla più mortale paralisi della volontà da una decisiva malattia dello spirito, una nazione di quaranta milioni di abitanti cominciò in quel momento a seguire la china fatale della propria dissoluzione nazionale, indifferente al proprio destino, rassegnata alla propria sorte.

Infinita la colpa di Mussolini, sia diretta che indiretta: per quel tanto cioè di deteriore che vent'anni del suo dispotismo avevano indotto in tutte le alte direzioni delle singole branche dello Stato. Ma terribile e schiacciante la colpa, questa sì incancellabile, di coloro che Mussolini avevano prodotto, ed accettato e sostenuto: di coloro che male intendendo la posizione dell'Italia nel mondo, l'avevano condotta irresponsabilmente sulla strada di una politica le cui conseguenze, al momento dato, non si potevano evitare. E di coloro che, quando le conseguenze sopravvennero, non vi seppero neppur scorgere quel tanto di utile che se ne poteva pur trarre e che la sorte, imperscrutabilmente, offriva loro. Di coloro infine che, senza avere avuto il coraggio di sbarazzarsi di un uomo che essi stessi avevano creato, giudicarono che una guerra persa sarebbe stata ottima cosa per raggiungere lo stesso fine. Senza accorgersi né ieri né oggi che con lui si sarebbero persi anch'essi, e la stessa nazione. Pensiero criminale non perché attentasse alla «sacra figura» del duce, come vogliono i fascisti di oggi, ma criminale perché era lo stesso sul quale, come su un piatto d'argento, Mussolini era nato ed aveva trionfato.

Dopo guerra, la figura di Mussolini si è rivelata di grandissimo comodo, almeno all'interno della nazione, tantoché se non fosse esistito, si sarebbe reso necessario inventarlo. Nessuna delle accuse che gli sono state mosse, nessuna delle biografie che di lui sono state stese, potrà mai rendere pienamente l'incredibile ottusità di quest'uomo nefasto: la sua totale ignoranza dei problemi anche superficiali della collettività, la fatuità e l'irresolutezza del suo giudizio, la sua completa dipendenza, di tipo psicanalitico, dalle pur mediocri personalità con le quali aveva ad imbattersi. In un certo senso, una definizione esatta di colui che che fu a capo della nazione per più di venti anni non è neppur possibile, perché il suo nome si è caricato, con gli anni, di significati che sono andati a far parte integrante della sua stessa personalità: e la stessa cosa può esser detta per tutti coloro che gli stettero intorno, sia che li avesse trovati nell'alta direzione di questa o quella branca dello Stato, sia che se li fosse scelti: tutti, salvo rarissime eccezioni, a lui somiglianti nella leggerezza del pensiero, nella ignoranza dei fattori sostanziali sui quali erano pur chiamati ad operare, nella nessunissima cura dei veri e profondi interessi della nazione.

Ma la condanna al fascismo non può rimanere isolata né a Mussolini, né alla sua gente: perché essi furono l'espressione, su un piano contingente  e disgraziatamente troppo spettacolare, di movimenti profondi dell'anima nazionale, e la risultante storica di una sostanziale e costante incapacità di tutti nella comprensione dei fini perenni dello Stato, e dei limiti reali in cui esso era chiamato a vivere ed a continuare. Quasi che la nazione fosse incapace di esprimere dal suo tessuto i mezzi e gli uomini del livello minimo necessario a comprendere ed a salvarla: e si fosse rassegnata, in difetto di questo, a sviluppare soltanto una grossolana furbizia di terz'ordine, e l'abitudine a giustificare disinvoltamente se stessa, qualunque cosa potesse succedere.

In quel terribile 1940, l'Italia parve preda ad una bufera di follia collettiva. Come festuche nel vento tutti si mossero in direzioni contrastanti e grottesche, creando sulla leggibile lavagna nera della realtà, un febbricitante mondo di ombre smisuratamente allungate. Agendo con l'angosciosa demenza dell'ubriaco che ripicchia sempre contro lo stesso albero e ritiene alla fine di essersi smarrito in una foresta: adottando, senza altro metro che la propria ignoranza, soltanto quelle soluzioni, militari e politiche, che più sicuramente e più celermente potevano condurci alla sconfitta, politica, diplomatica e sul campo. Una «tecnica della sconfitta» che il fascismo solo non spiega, e sulla quale dobbiamo chinarci pensosi se desideriamo veramente che il passato insegni qualcosa. Una catastrofe che impone la maggiore spietatezza verso noi stessi. Una vergogna del pensiero e delle capacità nazionali che occorre cancellare a tutti i costi, col sacrificio, la rinuncia ai veli della ipocrisia, e con l'assunzione delle responsabilità collettive delle quali, tuttavia, non si vede ad oggi il minimo segno. Tutto, fatalmente, ricomincia sempre.

Quando la Francia cadde, con gigantesco rumore, l'Inghilterra rimase sola e praticamente nuda contro le due potenze dell'Asse: non aveva uomini, non aveva mezzi, non aveva alcuna idea sul come fronteggiare la crisi che l'aveva colta di sorpresa ed in modo così grave. L'unica cosa sulla quale poteva giocare era l'insipienza del nemico, soprattutto di quello, nuovissimo, che si era così pertinacemente procurata nel Mediterraneo. Giocò su questa carta e vinse.

Nello stesso momento veniva creata da noi, ed alimentata con tutti i mezzi, la più colossale mistificazione storica mai messa in atto nella ricerca spasmodica di coprire le proprie incapacità: quella di un'Italia disarmata contro un potentissimo nemico che era follia soltanto pensare di poter battere. Vent'anni prima il nazionalismo italiano aveva creato la leggenda della «vittoria mutilata» e dell'Italia «che aveva vinto per tutti». Ora le stesse fonti varavano un'altra leggenda, alla quale avrebbe arriso la stessa fortuna: ma erano leggende entrambe. Abbiamo scontato la prima con la perdita della nazione. Possiamo chiederci con che cosa dovremo scontare la seconda, semmai venisse il momento.

2 commenti:

  1. Il 17 giugno del 1940, 18 mesi prima di Pearl Harbor, evento che ufficialmente costrinse gli Stati Uniti ad entrare in guerra, successe anche questo:
    "Roosevelt ordina immediatamente il sequestro di tutti i beni francesi negli Stati Uniti e manda una durissima comunicazione al proprio ambasciatore in Francia, incaricandolo una immediata dèmarche presso l'ammiraglio Darlan e il ministero degli esteri francese. Obiettivo: la flotta. Roosevelt esige, categoricamente ed in ogni caso che la flotta francese non cada in mano al nemico " pena la continuazione dell'Impero Francese e la eventuale restaurazione ed indipendenza della stessa Francia" Si tratta di un messaggio estremamente grave, ma chiaro. Gli Stati Uniti " esigono dalla Francia vinta un supremo sacrificio". Se essa non avrà la forza di compierlo, ne andrà di mezzo lo stesso destino della nazione qualunque cosa avvenga.
    Pag 449 del succitato libro.
    Chi due giorni prima si era rifiutato di entrare in guerra a favore della Francia, " L'America dunque, non si leverà in piedi per cacciare le forze del male che sommergono l'Europa. Ne ora ne presumibilmente per lungo tempo ancora", solo due giorni dopo detta ad un Paese sconfitto dalle Germania le condizioni della propria resa, pena la perdita dell'Impero e dell'indipendenza della stessa Nazione.
    Poi questi sono i nostri "liberatori", e non i nostri occupanti, e qualcuno un milione di volte più colto di me, tempo fa si divertiva a fare i frattali storici, ponendo i "liberatori" d'allora come i probabili attuali liberatori dalla dittatura dell'euro adesso, e altrettante persone coltissime lo seguivano in questa favola.
    Immagino che dopo 70 anni di propaganda e di stratificazioni di credenze che si sono accumulate nelle nostre menti non è facile accettare verità diverse.

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  2. Oltre alle cose imparate a scuola come storia, geografia e educazione civica, la mia identità nazionale si è formata anche grazie alla politica di istituzioni che facevano l'interesse nazionale, definendo uno stesso destino collettivo;
    anche identificarsi con il destino sportivo della stessa nazionale di calcio crea comunità;
    importanti sono anche le relazioni umane tra persone nate a latitudini molto distanti dalla mia ma che parlano la mia stessa lingua, condividendone i codici sottili, cristallizzati nel tempo, che in modo esclusivo, rispetto a chi non li possiede, fanno ridere o piangere insieme.

    Per me lo spirito nazionale fa riferimento e dipende da questo dispositivo culturale.

    Dopo anni di applicazione di un dispositivo culturale a favore dello spirito padano qualcosa è cambiato, dopo pochi anni di globalizzazione forse molto di più.

    Se su tutto il territorio nazionale si parla, si ride o si piange nella stessa lingua non significa essere accomunati dallo stesso interesse economico, se questo diventa il fondamento del dispositivo culturale dominante, il neoliberismo.

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