lunedì 5 dicembre 2022

Leda legge Agamben


Il complice e il sovrano di Giorgio AGAMBEN
Intervento alla commissione DU.PRE del 28-XI-2022

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche soltanto di poter uscire. Credo che anche fra di noi non tutti si siano resi conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei principi del diritto e delle istituzioni pubbliche. Credo che ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente scavalcare. E se un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme, di disfacimento. Ho usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due. E se, come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere. Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per l’Europa nella seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato se stessa». Per questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.
Ma non è di questo che volevo parlarvi; mi preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e possiamo continuare a fare in una tale situazione. Io condivido infatti pienamente le considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da Luca Marini quanto all’impossibilità di una rappacificazione. Non può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni.
Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare di correggere. Chi pensa questo s’illude. Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica. In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto penale: il complice – a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta, nel senso che cercherò di spiegare.
Nella terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha posto in essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo. Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società – che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile. Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico – agiscono sempre come complici e mai come rei.
Credo che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova prospettiva il patto hobbesiano. Il contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera, estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di questo essere com-plici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.
Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.
Vi è anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto fra l’uomo e il cittadino. Hannah Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia ambigua e come nelle Dichiarazioni dei diritti sia in realtà in questione l’iscrizione della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello Stato nazione moderno.
I diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino. L’emergere in pianta stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la sovranità dello stato moderno. Quella che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto, in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione , nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura. Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.
La domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora sentirci obbligati rispetto a questa società? O se, come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati, secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa obbligazione e parlare pubblicamente?
Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare.
Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in questione la stessa medicina. Se non si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale.
Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione. È forse necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per instaurare i loro regimi? È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.
Se ho evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo. È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere di guardare.
Non intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere con rigore e acutezza. Questo lavoro può essere ed è senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo semplicemente con una strategia a lungo termine.
In questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati. Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza compromessi e senza nostalgie.

venerdì 25 novembre 2022

I salvatori della Patria


La Verità è ccom’è la cacarella,
che cquanno te viè ll’impito e tte scappa
hai tempo, fijja, de serrà la chiappa
e stòrcete e ttremà ppe rritenella.

E accusí, ssi la bbocca nun z’attappa,
la Santa Verità sbrodolarella
t’essce fora da sé dda le bbudella,
fussi tu ppuro un frate de la Trappa.

Perché ss’ha da stà zzitti, o ddí una miffa
oggni cuarvorta sò le cose vere?
No: a ttemp’e lloco d’aggriffà ss’aggriffa.

Le bbocche nostre Iddio le vò ssincere,
e ll’ommini je metteno l’abbiffa?
No: ssempre verità: ssempre er dovere.

Giuseppe Gioachino Belli - Roma, 11 febbraio 1833

Lo SME, il Divorzio e l'euro: 30 anni di lotta di classe italiana

Il 13 ottobre 1978, mentre si spegnevano gli ultimi fuochi del Movimento del 77 e iniziava il periodo più plumbeo degli anni di piombo, il Parlamento italiano discuteva dell'ingresso dell'Italia nello SME.

Premessa

Dal sito di Alberto Bagnai (Goofynomics - "Cosa sapete della produttività?"): "Il Sistema Monetario Europeo (SME) era un accordo di cambio fra paesi europei in virtù del quale questi si impegnavano a mantenere il proprio tasso di cambio fisso rispetto a una valuta di riferimento, l’ECU (European Currency Unit). Il valore dell’ECU era calcolato come media dei valori delle valute dei partecipanti (ponderata con i rispettivi pesi economici). L’impegno era quello di evitare che le valute si scostassero di±2.5% dalla parità centrale in termini di ECU. Questo significa che se una valuta veniva spinta al limite superiore della banda e un’altra al limite inferiore, di fatto la prima aveva rivalutato del 5% (e la seconda svalutato del 5%). L’Italia aveva negoziato una speciale “banda larga” di ±6%"

All'epoca del dibattito parlamentare il quadro economico nazionale e internazionale era condizionato da una serie di eventi che si erano verificati negli anni precedenti, i più importanti dei quali vengono di seguito richiamati:

  • Nel 1971 Nixon aveva abolito la convertibilità del dollaro in oro, inaugurando l'era delle monete cosiddette FIAT, o a "corso forzoso"
  • Uno shock petrolfero, la guerra del Kippur nel 1973, aveva quadruplicato il prezzo del greggio; prezzo che, di lì a poco, sarebbe nuovamente raddoppiato per gli effetti della caduta dello Scià di Persia
  • Dal 1975 la scala mobile tutelava in modo uniforme i salari di tutti i lavoratori italiani
  • L'inflazione viaggiava, ormai da un decennio, con tassi a due cifre (vedi tabella) 

 

L'inflazione in Italia dal 1970 (dal 1 gennaio al 31 dicembre)
AnnoInflazione %
19705,00%
19714,70%
19728,10%
197313,20%
197424,10%
197511,00%
197620,90%
197713,50%
197812,60%
197920,60%
198018,30%
198117,60%
198216,20%
198312,30%
19849,30%
19858,00%
19864,20%
19875,20%
19885,50%
19896,60%
19906,50%
19915,90%
19924,70%
19934,40%
19943,90%
19955,50%
19962,70%
19971,90%
19981,50%
19992,20%
20003,00%
20012,40%
20022,80%
20032,20%
20041,90%
20052,20%
20061,70%
20073,00%
20081,60%
20091,30%
20102,10%
20113,20%

 

 

L'inflazione, in particolare, destava preoccupazione, soprattutto tra i detentori di grandi capitali. Il combinato disposto di alti tassi di inflazione, e di un meccanismo automatico di adeguamento delle dinamiche salariali (la scala mobile), aveva spostato il baricentro dell'economia nazionale in favore dei redditi da lavoro, a forte discapito della rendita finanziaria.

Nel 1976, infine, era nato un nuovo quotidiano, Repubblica, che aveva inaugurato un innovativo modello di informazione politica che avrebbe, nei decenni successivi, contribuito in modo determinante a generare una scorretta percezione degli interessi di classe da parte dell'elettorato. Repubblica, abbandonando lo stile clerical-fascista degli altri giornali controllati dal grande capitale, inaugurava un modo di fare informazione giocato su due piani: da una parte si poneva su posizioni laiche e libertarie in tema di diritti civili e di modernizzazione dei costumi, dall'altra iniziava a propalare una visione dell'economia sottilmente fuorviante, che avrebbe spalancato le porte, di lì a qualche anno, all'ideologia liberista. E' una tecnica che sembra mutuata dagli studi di Gregory Bateson sull'eziologia della schizofrenia (il doppio legame), secondo cui, "quando la comunicazione tra un soggetto e un altro presenta una incongruenza tra il livello del discorso esplicito (verbale, quel che vien detto) e un ulteriore livello metacomunicativo (non verbale, come possono essere i gesti, gli atteggiamenti, il tono di voce), e la situazione sia tale per cui il ricevente del messaggio non abbia la possibilità di decidere quale dei due livelli, che si contraddicono, accettare come valido, e nemmeno di far notare a livello esplicito l'incongruenza", l'unico modo per risolvere il conflitto è la fuga nel non senso. Questo giornale ha fatto da apristrada a tutti gli altri, con il risultato che oggi, in questo benedetto paese, vige una condizione di surrealtà.

Un esempio? Per quante ricerche voi possiate fare, non troverete sulle colonne di quel giornale alcun riferimento ad un dato scontato della scienza economica, cioè che l'inflazione, in presenza di meccanismi di adeguamento automatico del potere d'acquisto, favorisce le classi salariate e la piccola imprenditoria e penalizza il grande capitale. No, per Repubblica l'inflazione affama la vedova e l'orfano, e la Scala mobile è un meccanismo diabolico. Sarà perché ho capito il meccanismo di cui sono stati vittime, che ancora riesco a moderarmi, non sempre in verità, quando parlo con i miei amici piddini? 

E' necessario aggiungere che, negli anni settanta, l'inflazione era alta in tutto il mondo, prevalentemente a causa dell'aumento del greggio, e per le conseguenze della decisione di Nixon di abolire la convertibilità del dollaro in oro. In particolare, a partire dal 1971 i tassi di cambio avevano cominciato a fluttuare, inaugurando in Europa una lunga serie di aggiustamenti reciproci. La flessibilità dei cambi non era ben vista dal grande capitale, perché rendeva rischiosi gli investimenti a lungo termine. Infine, la presenza di un forte capitalismo di Stato veniva percepita come un'indebita forma di concorrenza, perché finiva con l'occupare e il monopolizzare spazi di mercato nei quali i capitali privati non osavano avventurarsi, sia per il rischio di cambio di cui sopra, sia perché lo Stato, non avendo obbiettivi immediati di profitto, e anzi potendo operare in perdita, era un concorrente temibile.

La tutela degli interessi del grande capitale rendeva così necessario porre in essere una reazione, che diminuisse i tassi di inflazione, abolisse o riducesse il rischio di cambio, e soprattutto ponesse un limite severo all'invadenza dello Stato nell'economia. Questa reazione, sostenuta culturalmente dai giornali del gruppo Espresso di De Benedetti, si sviluppò attraverso una successione di provvedimenti che furono fatti accettare agli italiani grazie all'opera  di disinformazione economica della grande stampa, con una lenta ma costante opera di penetrazione e disarticolazione delle grandi organizzazioni di massa cha avevano tutelato il mondo del lavoro dalla fine della seconda guerra mondiale, e, quando ciò si rivelò necessario, con l'appoggio del Movimento Sociale Italiano.

L'ingresso dell'Italia nello SME

Torniamo alla seduta parlamentare del 13 dicembre 1978 (lo stenografico della seduta è disponibile a questo link). Presiedeva l'on. Pietro Ingrao, del PCI. Dopo la discussione di alcuni disegni di legge, inizia (da pag. 7 del documento stenografico) la discussione sulle comunicazioni del Governo (Giulio Andreotti era il Presidente del Consiglio) , aventi ad oggetto l'adesione dell'Italia allo SME. Il parterre degli interventi è di tutto rispetto. Tra gli altri: Luciana Castellina (PdUP)Fabrizio Cicchitto (PSI)Ugo La Malfa (PRI)Giovanni Malagodi (PLI)Pietro Longo (PSDI)Lucio Magri (PdUP)Giorgio Napolitano (PCI) , Massimo Gorla (PCI)Marco Pannella (Radicali)Pino Romualdi (MSI).

Si fronteggiavano due posizioni: coloro che volevano entrare immediatamente nello SME (tra essi La Malfa, Malagodi, Pannella, Romualdi) e altri (tra essi Luciana CastellinaFabrizio CicchittoGiorgio NapolitanoMassimo Gorla), i quali, in misura maggiore o minore, manifestarono le loro perplessità e i loro timori. Di seguito alcuni stralci delle dichiarazioni di alcuni tra i sunnominati:

  • Giovanni Malagodi (PLI): "Come gruppo liberale abbiamo presentato un risoluzione che ora illustrerò seguendo l'ordine che non è accidentale, come è ovvio, ma che tende a mettere in luce i motivi per i quali è interesse italiano, a due titoli, l'aderire subito allo SME. Dico interesse italiano a due titoli, prima di tutto perché vi è un interesse nazionale italiano in senso stretto; in secondo luogo, perché è interesse italiano che la Comunità faccia dei passi avanti e possa partecipare ai negoziati mondiali in corso con il massimo di rappresentatività e con il massimo di prestigio politico; e la nostra assenza dallo SME , evidentemente indebolirebbe questo prestigio"
  • Fabrizio Cicchitto (PSI): "Il dollaro in tutti questi anni ha manovrato e manovrato fortemente, si è deprezzato rispetto al marco almeno del 40 per cento, ha aumentato i suoi livelli di competitività in modo molto notevole e noi e la sterlina gli siamo andati dietro, fruendo dei livelli di competitività che in questo modo venivano conquistati. La tendenza attuale del marco è quella di arrestare la sua rivalutazione rispetto al dollaro zavorrandosi con le monete deboli e nello stesso tempo rivalutando abbastanza queste monete, in modo da diminuire la competitività della loro economia rispetto a quella tedesca. Noi dobbiamo misurarci con questo problema e con questo nodo e nello stesso tempo dobbiamo misurarci con i nodi di politica economica interna che abbiamo davanti. Cioè, dobbiamo misurarci con le differenze dei tassi di inflazione, di strutture e di produttività, di squilibri sociali"
  • Pietro Longo (PSDI): "Dicevo che le ragioni tecniche (delle perplessità del PSDI ad entrare subito nello SME - n.d.r.) si trovano nei punti positivi riportati nel discorso del Presidente del Consiglio e nel comunicato conclusivo di Bruxelles. I più importanti di questi sono: l’ampliamento della banda di oscillazione per la lira dal 2,25 al 6 per cento; la collocazione della soglia di divergenza al 75 per cento della banda di oscillazione, che equivale al 4,5 per cento per la lira e all’1,7 per cento per le altre monete; una migliore definizione del meccanismo di intervento, nell’ambito del quale si è passati dal concetto di presunzione al concetto di obbligo implicito, anche se non è stata accolta la proposta per noi più conveniente dell’o’obbligo esplicito; lo studio di opportuni meccanismi, da definirsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore dello SME, che regolano i saldi dei debitori e dei creditori coinvolti malgrado la loro volontà; la fissazione del livello del fondo monetario europeo a 25 miliardi di dollari"
  • Giorgio Napolitano (PCI): "In Italia tra i partiti democratici e nello spirito pubblico, non circolano pregiudizi antieuropeistici. La discussione attorno al progetto di Unione Monetaria avrebbe dunque potuto svolgersi in termini del tutto obiettivi. Nella fase finale, sono affiorate e prevalse forzature di varia natura, venute da una parte sola, cioè da coloro che hanno premuto per l’ingresso immediato dell’Italia nell'Unione Monetaria. Pressioni viziate da schemi e da calcoli che prescindevano da una valutazione obiettiva dei termini del problema.
    Ma mi si permetta, onorevoli colleghi, di ripartire dalla posizione assunta da noi di fronte alle indicazioni scaturite questa estate dalla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europee, combattere la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l'euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale 1’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l'euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell'Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico. Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto - cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea”. Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E' così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione.
    Queste valutazioni sono a noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una dichiarazione di principio favorevole e che escludesse l'entrata dal primo gennaio nell'euro, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna, con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
    Perché non si sono ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una decisione precipitata ed arrischiata?
    No, onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi a una risoluzione che assume le caratteristiche ristrette di una unione monetaria, le cui caratteristiche rischiano per lo più di creare gravi problemi ai Paesi più deboli che entrino a farne parte. Naturalmente non sottovalutiamo l'importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono una causa di instabilità, è vero anche che esse sono il riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli Paesi.
    La verità è che forse - come si è scritto fuori d’Italia - si è finito per mettere il “carro” di un accordo monetario davanti ai “buoi” di un accordo per le economie.
    Onorevoli colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega Cicchitto) delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci da governi amici. Queste sollecitazioni confermano l’esistenza di un reale e forte interesse degli altri Paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più presto presente nell'euro. Si sarebbe, dunque, potuto far leva su questo interesse, non dando adesione immediata, per portare avanti un serio negoziato. Ma se ci si vuole, onorevoli colleghi, confrontare con i problemi di fondo, i problemi delle politiche economiche, bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di maniera. Si è giunti a sostenere che “l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno all'euro, ma se recidere” - dico recidere - “o meno i suoi legami con i Paesi dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico”. Ma questa è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su alcun argomento razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione gratuita ed esasperata della scelta che era davanti tal nostro Paese.
    Se oggi, comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra - eludendo la difficile strada della ricerca del consenso - dinanzi ad una sostanziale distorsione della sua linea ispiratrice, dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario
    "
  • Ugo La Malfa (PRI): "Signor Presidente, onorevoli colleghi, come uomo al quale si attribuisce una qualche competenza tecnica, devo dare ai miei colleghi giustificazione per il fatto di aver dato prevalente importanza al fatto politico rispetto al fatto tecnico"
  • Massimo Gorla (PCI): "L'interesse della repubblica federale di Germania, nel tenere agganciate al marco le altre monete europee, è del tutto, evidente ed è stato riconfermato da diversi interventi. Il marco, come si sa, tende a rivalutarsi nei confronti del dollaro e la perdita di concorrenzialità che ne deriva sarà tanto minore per la repubblica federale di Germania quanto più le altre monete europee seguiranno il marco nella rivalutazione. Quindi, la perdita di concorrenzialità, per dire la stessa cosa in un altro modo, si distribuirà tra tutti i paesi del sistema monetario europeo anziché gravare sulla sola repubblica federale di Germania. Inoltre, non va trascurato il fatto che i paesi con alti tassi ,di inflazione perderanno concolrrenzialità anche nei suoi confronti; cosa, questa, che oggi viene impedita dal movimento dei tassi di cambio"
  • Luciana Castellina (PdUP): "Noi seguitiamo a considerare assai grave e assai pericolosa per il nostro paese l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo. Non condividiamo, neppure dopo questa discussione e dopo la replica del Presidente del Consiglio, l’ottimismo di chi ha sostenuto la tesi secondo cui è buona cosa per l’Italia aderire allo SME; e tanto meno condividiamo le considerazioni di chi ha teso a sottovalutare, a minimizzare la portata di questa scelta che ci si appresta a compiere. Anzi, questa ci sembra francamente irresponsabile faciloneria, così come faciloneria sarebbe far discendere la nostra adesione, o il nostro rifiuto, da dettagli tecnici, pur rilevanti, ma certo non decisivi rispetto ad una scelta così importante. La scelta di aderire allo SME è infatti destinata - e lo sappiamo tutti - ad incidere profondamente sul futuro del nostro paese ed in questo senso è scelta politica nel senso più pieno, perché destinata a mutare gli equilibri stessi su cui si fonda la nostra democrazia"
  • Pino Romualdi (MSI): "Il nostro è un documento semplice, di puro impegno al Governo di entrare immediatamente nel sistema monetario europeo, nello spirito e nel1a lettera di quei trattati di Roma ‘del 1957 che noi abbiamo votato, mentre non sono stati votati dal partito comunista e nemmeno dal partito socialista, che oggi si trovano allineati in questa posizione... aggiungo che voteremo nello stesso spirito e nella stessa logica, dopo aver respinto i cappelli più o meno ridicoli e fumosi dell’antifascismo, a favore anche di quei punti delle risoluzioni che convalidano la nostra posizione positiva nei confronti dell’immediato ingresso dell’Italia nello SME, così come deve essere nelle speranze di ciascuno di noi, perché questa è la strada per il Governo per realizzare concretamente, e non a parole, l’Europa unita, capace di difendere i suoi popoli e i suoi interessi (Applausi dei deputati del gruppo del Movimento sociale italiano-destra nazionale - Congratulazioni)"
  • Lucio Magri (PdUP): "Una prima considerazione da fare, di buon senso ma non ovvia, è questa: negli ultimi anni il deprezzamento della moneta e l’elevato tasso di inflazione non sono stati per l’economia italiana solo una manifestazione di crisi, sono stati anche il principale strumento di difesa rispetto alla crisi stessa. E' il deprezzamento del1a lira, infatti, che ha consentito una rapida espansione delle esportazioni senza grandi investimenti, senza nuovi settori trainmti e dunque con un contenuto tecnologico relativamente in declino; è il deprezzamento della lira che ha consentito anche una ristrutturazione industriale fondata preva1entemente sul decentramento produttivo, sulla piccola e medita impresa, sul lavoro precario. Ed è, infine, l’inflazione permanente che ha consentito, pur senza grandi trasformazioni strutturali, una poco appariscente ma sostanziosa redistribuzione del reddito interno e la compressione delle rendite, soprattutto bancarie ed edilizie"

Colpisce, nel leggere le dichiarazioni riportate, l'appassionato intervento di Giorgio Napolitano, che richiamò ripetutamente il rischio di una pesante deflazione salariale nei paesi più deboli, ove non si fossero ben chiariti i termini e i meccanismi di compensazione di un accordo che favoriva in modo smaccatamente evidente l'economia della Germania. E colpisce, anche, l'appoggio all'ingresso immediato dell'Italia nello SME di Pino Romualdi, cosa di cui sarà presto opportuno ricordarsi, per rintuzzare i tentativi populistici della Destra politica italiana di rifarsi una verginità assumendo una posizione eurocritica, quando, come i resoconti parlamentari ampiamente dimostrano, quella parte politica si è pesantemente compromessa in favore dell'euro, fornendo alla Destra economica tutto l'appoggio di cui questa necessitava.

Come è noto, l'esito di quel lontano confronto fu favorevole all'ingresso immediato dell'Italia nello SME, a partire dal 1 gennaio 1979, seppure con una banda di oscillazione rispetto alla parità centrale del 6% invece che del 2,5%. Lo SME consentiva, tuttavia, che si operassero dei riallineamenti, cosa che avvenne ogni volta che i dati macroeconomici lo resero necessario. Ciò nonostante, esso costituì una corda al collo dal punto di vista dei margini di manovra economica dei governi che, dal 1979, si susseguirono. Nessuno dei riallineamenti che si resero necessari, però, indusse ad un ripensamento della scelta di aderire, e anzi le nostre autorità tentarono, in tutti i modi, di entrare nella banda di oscillazione ristretta del 2,5% e, quando vi riuscirono, come nel 1990, gli esiti furono disastrosi: nel 1992, dopo soli due anni, dovemmo uscire, svalutando del 25% per recuperare competitività. Le previsioni di tutti coloro che si erano espressi in maniera critica nel dibattito parlamentare del dicembre 1978 erano state profetiche.

Il passo successivo: il "divorzio"

Il passo succesivo del progetto di reazione del grande capitale, o, se preferite, della lotta di classe in Italia, è stato il "divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia", voluto da Nino Andreatta e dall'allora Governatore Carlo Azeglio Ciampi. Quella decisione ebbe gravissime conseguenze sul debito pubblico italiano.  

Eccolo qua lo storico del rapporto Debito/Pil! Guardiamolo (clicca per allargare) con un minimo di attenzione. Cos'è che salta agli occhi?

  1. nel 1970 era ~40%
  2. nel 1981 era ~60%, il grosso dell'aumento essendosi verificato tra il 1970 e il 1972, come conseguenza dell'autunno caldo, cioè come conseguenza delle rivendicazioni salariali
  3. nel 1990 si nota una netta impennata, che conduce al massimo del 1994 (oltre il 120%). Sulle ragioni di ciò, si veda anche il paragrafo "Conseguenze sul debito pubblico della liberalizzazione della circolazione dei capitali" di questo stesso articolo. Per il momento limitiamoci alle sole conseguenze immediate, dal 1981 al 1988, periodo nel quale si ha una prima crescita esplosiva del rapporto debito/Pil, dal60% al 100%.

Cosa è successo, dopo il 1981, di così grosso, da giustificare un simile andamento? Lo Stato, in quegli anni, si è lanciato in grandiosi programmi di spesa? Questo lo pensano i grulli, molti dei quali, facendo confusione, sono ancora convinti che l'aumento del rapporto debito/pil si sia verificato addirittura negli anni settanta. Poverini, traggono questa conclusione perché, essendo totalmente ignoranti dei dati di fatto, e similmente accecati dall'ideologia, trovano comodo raccontare a sé stessi che "il disastro dei conti pubblici italiani si è verificato negli anni settanta"! No cari, il disastro si è verificato negli anni ottanta, quelli di Reagan e della Tachter! E perché? Perché nel 1981 quel brav'uomo di Nino Andreatta (il papino ideologico di Romano Prodi n.d.r.) pensò bene di tramare (è il termine giusto) per far sì che si verificasse, fra Tesoro e Banca d' Italia, una "separazione dei beni", che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo.

Ecco in che modo si espresse lo stesso Nino Andreatta, in una lettera al sole24ore, dieci anni dopo quella sciagurata operazione: "Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, ne' lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come 'congiura aperta' tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso - soprattutto sul mercato dei cambi - abolire per ritornare alle piu' confortevoli abitudini del passato".

Insomma, una "congiura aperta", tant'è che esso non fu mai neppure discusso in Parlamento, poiché quelli che Andreatta definisce "la coalizione degli interessi contrari" si ritrovò davanti al fatto compiuto, e non fu più in grado di modificare quella norma.

Ma che cos'è questo debito pubblico?

La massa disinformata dei cittadini è convinta che il debito pubblico sia una cosa simile al debito di una famiglia. Non è colpa loro, ovviamente, ma di un'informazione serva. Diamo allora una definizione corretta di debito pubblico: uno strumento, fornito dallo Stato, per reperire fondi dal settore privato concedendo in cambio uno strumento per trasferire "al futuro" il proprio risparmio in eccesso. Insomma, il debito pubblico è (meglio: era) un servizio di tutela e tesaurizzazione del risparmio, che lo Stato rende (rendeva) al settore privato. Va da sé che, se è un servizio, questo deve essere pagato. E così è stato, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni settanta. Per tutto quel periodo, infatti, l'interesse medio pagato sui titoli di Stato, in tutto il mondo occidentale, ed anche in Italia, è stato costantemente inferiore al tasso di inflazione di circa l'1,5%!

Tutto cambia nel 1981, dopo il famoso "divorzio". A partire da quella data, grazie alla graziosa congiura del malemerito Nino Andreatta, fu fatto divieto alla Banca d'Italia di intervenire alle aste per il collocamento dei titoli di Stato per acquistare (stampando moneta) i titoli che lo Stato non riusciva a collocare al tasso di interesse da esso stabilito.Analoghi provvedimenti erano già stati adottati in altri paesi (ad esempio la Francia, nel 1973). Il risultato fu lo stesso ovunque: una salita dei tassi di interesse nel collocamento dei titoli di Stato, che ha avuto un pesante effetto redistributivo in favore della rendita finanziaria. Attenzione: ho detto "effetto redistributivo", e la cosa deve essere ben intesa. Già, perché "spiazzare" risorse dal mondo del lavoro verso la rendita finanziaria, se da un lato contribuisce a creare una situazione di ingiustizia, perché sono favoriti i possessori di capitali da mettere a rendita, a scapito dei lavoratori che questa rendita devono retribuire, dall'altro lato è pur vero che questa rendita resta nella disponibilità delle imprese e delle famiglie, contribuendo alla stabilità e al contenimento dell'inflazione. Ed è proprio quest'ultimo aspetto che Nino Andreatta mette in evidenza nella sua lettera al sole24ore, allorché scrive: "Senza presunzioni eccessive, questa lettera ha segnato davvero una svolta e il divorzio, assieme all' adesione allo Sme (di cui era un' inevitabile conseguenza), ha dominato la vita economica degli anni 80, permettendo un processo di disinflazione relativamente indolore, senza che i problemi della ristrutturazione industriale venissero ulteriormente complicati da una pesante recessione da stabilizzazione".

La disinflazione di cui parla Nino Andreatta è quella causata dalla natura endogena della moneta. In pratica, sottraendo capitali all'investimento produttivo, e reindirizzandolo verso la rendita finanziaria alimentata dalle tasse dei lavoratori (essi stessi per altro in parte percettori della rendita stessa) si tende a diminuire la velocità di circolazione della moneta, rafforzandone la funzione di strumento di tesaurizzazione. L'inflazione diminuisce e, al contempo, si gonfia la rendita finanziaria. Una scelta di tipo chiaramente redistributivo, dunque, e un altro tassello della lotta di classe. Sul piano macroeconomico della contabilità dello Stato, tuttavia, questa politica non ha effetti disastrosi, a meno che, come si è pensato bene di fare, non si associ ad essa un altro provvedimento: la liberalizzazione nella circolazione dei capitali.

Conseguenze sul debito pubblico della liberalizzazione della circolazione dei capitali

Se un cittadino italiano avesse voluto, ancora dopo il divorzio, acquistare bund tedeschi, non avrebbe potuto farlo. Ma il processo di integrazione europea, e l'ideologia liberista ad esso sottostante, presupponevano questa decisione, che fu implementata nel corso degli anni ottanta. La conseguenza fu che lo Stato Italiano si trovò costretto, per finanziarsi, ad operare in concorrenza con altri Stati. E anche, che una parte crescente del nostro debito pubblico si internazionalizzò, cioè fu acquistato da non residenti, sui quali lo Stato italiano non ha alcun potere impositivo. Per capirci: se tutto il debito pubblico fosse nelle mani di residenti, famiglie o imprese, lo Stato italiano potrebbe sempre abbattere lo stock di debito con il prelievo fiscale, preservando così la ricchezza complessiva del paese, mentre questo strumento non è utilizzabile nei confronti dei non residenti.

Ma l'aspetto più grave del combinato disposto del "divorzio" e della liberalizzazione della circolazione dei capitali è il fatto che lo Stato italiano non è stato più in grado di decidere autonomamente la propria politica monetaria, che ha finito con l'essere condizionata dalle scelte economiche della Germania. E infatti, quando dopo il crollo del muro di Berlino questo paese ebbe bisogno di grandi flussi di capitali per finanziare la ricostruzione, alzò i suoi tassi di interesse, trascinando al rialzo i tassi di tutti i paesi europei, Italia compresa. L'effetto si vede benissimo nel grafico del rapporto debito/Pil, nell'area avidenziata. Nel 1990, per sovrappiù, avevamo pensato bene di rientrare nella banda ristretta di oscillazione dello SME.

Le conseguenze, come economia insegna, furono due: aumentò il nostro debito (internazionalizzandosi ancor di più): dal 1990 al 1995 il rapporto debito/pil salì dal 100% al 121%. Inoltre, la nostra Bilancia dei Pagamenti, già in forte difficoltà, sperimentò un ulteriore tracollo. Come già ricordato, due anni dopo, nel 1992, in piena emergenza e dopo un folle quanto inutile sforzo di rimanere nello SME, fummo costretti ad uscire, svalutando del 25% in un anno. Gli effetti di questo allentamento del cappio furono benefici e immediati: l'inflazione scese di un punto percentuale, mentre le esportazioni ripartirono alla grande, insieme alla produttività. La nostra  Bilancia dei Pagamenti tornò in attivo, conseguendo il record storico di ben 40 mld di euro nel 1996.

L'ingresso nell'euro

Ma ormai la strada era tracciata e, nel 1999, entrammo nell'euro. Se nello SME erano ancora possibili oscillazioni intorno alla parità concordata, e riallineamenti, dal 1999 il cambio diventa rigido come l'acciaio. Anzi, sparisce il concetto stesso di cambio: la moneta è unica!

Ci hanno raccontato che, se le cose sono andate male, la colpa è stata nostra, perché non abbiamo approfittato del famoso dividendo dell'euro. Una favola, questa, in cui non crede più nessuno, e che può essere smontata pezzo per pezzo, dati alla mano. Lo ha fatto, meglio di quanto possa mai farlo io, il Prof. Alberto Bagnai, con il suo blog Goofynomics, e soprattutto con il suo libro, "Il tramonto dell'euro". E, prima di Alberto Bagnai, lo hanno fatto coloro che, nel 1978, intervennero per tentare di frenare la deriva che ci avrebbe condotto all'adozione della moneta unica: Luciana Castellina (PdUP)Fabrizio Cicchitto (PSI)Lucio Magri (PdUP)Giorgio Napolitano (PCI) , Massimo Gorla (PCI).

A quelli che vi chiederanno "ma chi è Alberto Bagnai", potrete rispondere che è l'erede, tra gli altri, di Giorgio Napolitano, o almeno di ciò che era Giorgio Napolitano prima della metamorfosi... sic!

Mi limiterò dunque a mostrarvi due grafici, relativi al debito pubblico e ai saldi delle bilance dei pagamenti della Germania, dei cosiddetti PIIGS e della Francia. Dal primo, potete evincere come, allo scoppio della crisi, due dei paesi cosiddetti PIIGS avevano un rapporto debito/Pil molto più basso della Germania, un terzo (il portogallo) di poco superiore, mentre il nostro, pur alto (per le ragioni che vi ho spiegato) era comunque in discesa. Solo la Grecia era fuori dai cardini, secondo il parametro debito/Pil!

Per quanto riguarda il secondo, La Bilancia dei Pagamenti in $, vi faccio una semplicissima domanda: vi sembra credibile che, a partire dal 2000, in Germania siano diventati tutti mostruosamente virtuosi, mentre in Italia, Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, siamo diventati tutti dei "porci schifosi"? E se invece i "porci schifosi" fossero quelli che ci dicono che è colpa nostra?


giovedì 27 ottobre 2022

Il vasto programma

L'uomo si riunisce in comunità per avere più sicurezza e libertà. Poi quella comunità, un giorno, ti dice che per darti sicurezza e libertà deve togliertele entrambe.
Qualsiasi limite al contante attenta alla sicurezza e alla libertà dei cittadini.

domenica 2 ottobre 2022

Divano, birra o vino, e rutto libero!

La grande $toria d'amore tra gli italiani e la L€uropa

 Link correlato: Propaganda - Duel (in ITALY) - 1985


Eye to eye stand winners and losersHurt by envy, cut by greedFace to face with their own disillusionsThe scars of old romances still on their cheeksAnd when blow by blowThe passion dies sweet little deathJust have been liesSome memories of gone by time would still recall the lies
The first cut won't hurt at allThe second only makes you wonderThe third will have you on your kneesYou start bleeding, I start screaming
It's too late, the decision is made by fateTime to prove what forever should lastWhose feelings are so true as to stand the test?Whose demands are so strong as to parry all attacks?And when blow by blowThe passion dies sweet little deathJust have been liesSome memories of gone by time will still recall the lies

martedì 6 settembre 2022

Un Truman show

Eravamo 4 liste al bar

Adesso ascoltate la canzone Di Gino Paoli con questo mixaggio finale, in cui, con abile interpolazione musicale, nel finale, si sovrappone la lirica di una certa merd@acci@ che parla di Roxy bar. E' finita così, certamente, ma se qualcosa è rimasto è perché qualcuno non ha ceduto. Al Roxy bar ci sono stato anch'io, ed era una merd@, l'ho capito subito e sono andato via. Non so quanti abbiano fatto lo stesso, forse uno su quattro. Tra un po' arrivano le bollette, la guerra c'è già, ma ricordate: non abbiamo ancora perso.

Io ho paura

Links:

Riders on the storm - there's a killer on the road

Le convergenze tra il complottista Toscano e noi

Link correlati:

Le idee camminano sulle loro gambe


giovedì 1 settembre 2022

Le ben argomentabili ragioni della Grande Trasformazione

E' davvero incredibile come il semplice meccanismo speculativo dietro gli spropositati aumenti dell'energia non venga compreso dai più, perfino da quelli più impegnati politicamente e nella divulgazione. Figuriamoci le sue conseguenze e implicazioni.

Ho trovato su FB uno scritto postato da Nino Di Cicco, che vi invito a leggere prima di seguirmi nelle ulteriori analisi.

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DAL GENERALE AL PARTICOLARE, COSA C'È DIETRO GLI ALTI PREZZI DELL'ENERGIA (spoiler: non è Putin).

1) RIMOZIONE DELL'ASPETTO STRATEGICO

Da quando mi occupo di energia, ormai oltre 10 anni, ho sempre visto il dibattito nel settore svilupparsi unicamente intorno a due fattori: quello economico (quanto costa) e quello ambientale, totalmente incentrato nella sua declinazione climatica (quanta CO2 emette). 

Perfettamente in linea con l'approccio da "fine-della-storia" dell'ultimo trentennio, il fatto che l'approvvigionamento di una quantità sufficiente di energia a prezzi accettabili rivesta per uno Stato innanzitutto un'importanza strategica fondamentale, direi addirittura vitale, in Italia, il Paese di Enrico Mattei (!), era ormai totalmente assente, ignorato, rimosso, sia dagli operatori del settore, sia dalla classe dirigente.

Questa rimozione del significato strategico dell'energia, ha provocato inevitabilmente l'assenza di politiche di sicurezza energetica, mirate al mantenimento di buone relazioni internazionali con i fornitori e al perseguimento della massima autosufficienza possibile e mi sento di affermare che sia la causa principale dell'attuale disastrosa situazione nella quale ci troviamo.

2) FINANZIARIZZAZIONE E AZIENDALIZZAZIONE DEL SETTORE

Sul primo aspetto di (rimozione della) natura strategica, si innesta perfettamente la trasformazione del settore energetico in direzione aziendalista e finanziaria realizzata attraverso:

- la privatizzazione delle grandi aziende energetiche (Eni, Enel), che smettono di avere come finalità l'interesse nazionale e spostano l'obbiettivo sull'ottenimento dei massimi dividendi per gli azionisti; 

- la liberalizzazione dei mercati energetici al grido di "più concorrenza, più convenienza", per ritrovarsi (già prima dell'esplosione dei prezzi) con una pletora di offerte nelle quali per il normale cittadino o imprenditore è praticamente impossibile districarsi, e con il tanto osannato "mecato libero" da sempre più costoso (in media) rispetto a quello di "maggior tutela";

- lo spostamento degli acquisti da parte dei fornitori verso contratti "spot" nei grandi "hub", i nuovi mercati virtuali dove la speculazione finanziaria è libera di fare il bello e il cattivo tempo che hanno via via rimpiazzato i vecchi contratti pluridecennali con prezzi e quantità praticamente fissi.

3) REGOLE DI MERCATO CHE FAVORISCONO SUPER-PROFITTI

Scendendo nei dettagli di funzionamento del mercato elettrico, c'è un aspetto tecnico poco conosciuto, la cui modifica consentirebbe un calo consistente e immediato del costo dell'energia elettrica e che trovo estremamente esemplificativo della volontà politica di favorire i profitti a scapito degli interessi dei cittadini: il sistema del prezzo marginale.

Si tratta del meccanismo utilizzato nel mercato elettrico per determinare, ora per ora, il prezzo dell’elettricità, facendo incrociare la domanda stimata del sistema elettrico e l’offerta da parte dei vari produttori. Ogni produttore, per ciascuna ora di ciascun giorno, indica quanta elettricità può fornire e a che prezzo. Il mercato elettrico accetta le offerte a partire dalla più bassa e via via a salire, fino a coprire il fabbisogno previsto. Il meccanismo del prezzo marginale prevede che tutta l'energia elettrica venga pagata al prezzo massimo entrato nel pacchetto. Per esempio, se un impianto a carbone ha offerto 1.000 MWh a 40 €/MWh, mentre l’ultimo fornitore entrato nel gruppo ha offerto 1.000 MWh da gas naturale a 870 €/MWh (prezzo massimo raggiunto ieri, 30 agosto), entrambi incasseranno 870.000 €, anche il proprietario dell’impianto a carbone che avrebbe venduto i suoi 1.000 MWh a 40.000 € e realizzerà così un super profitto di 830.000 €! 870 €/MWh sarà poi il prezzo orario che contribuirà a determinare il costo dell'energia elettrica per tutti i consumatori, il cosiddetto Prezzo Unico Nazionale (PUN).

A ben vedere, si tratta dello stesso sistema utilizzato dal Ministero dell'Economia e Finanze per il collocamento dei titoli di stato a medio-lungo termine: stabilita la quantità di titoli da collocare, il MEF accetta le offerte a partire da quella con interesse più basso, fino a quella più alta necessaria a coprire il fabbisogno. E poi paga a tutti l'interesse massimo tra quelli accettati, anche a chi si sarebbe accontentato di un interesse inferiore.

Un meccanismo che non ha altre spiegazioni se non la precisa volontà di trasferire ricchezza dal basso verso l'alto.»

Le ben argomentabili ragioni della Grande Trasformazione

Se avete letto con attenzione quanto sopra posso esimermi dal perdere tempo nel descrivere il meccanismo speculativo in azione, per passare direttamente a considerazioni di altro ordine. Mettiamo da parte l'indignazione e la sorpresa e domandiamoci, per prima cosa, se l'affermazione che conclude l'articolo sia ragionevolmente vicina alla realtà: "Un meccanismo che non ha altre spiegazioni se non la precisa volontà di trasferire ricchezza dal basso verso l'alto".

Se questa affermazione fosse vera, allora tale meccanismo avrebbe dovuto prevedere la possibilità di interventi correttivi ordinari qualora, in condizioni particolari di mercato, si fossero manifestate tensioni eccessive sui prezzi. Quale "ricchezza" può essere trasferita verso l'alto se la stessa viene distrutta con grande velocità proprio da quei meccanismi che dovrebbero favorire il suo trasferimento? Anche volendo ammettere che il mercato dell'energia sia stato disegnato male (e già questa osservazione ci ricorda che non siamo in presenza di un libero mercato bensì di un mercato normato)  in testa all'agenda di tutti i governi dell'UE dovrebbe esserci l'urgenza di interventi straordinari atti a sospendere, almeno temporaneamente, il sistema di formazione dei prezzi attualmente in vigore, ma nulla di ciò sembra stia accadendo. Al più si parla di extra tassazione, un tipo di provvedimenti che possono essere facilmente impugnati legalmente, con l'avvio di lunghi e incerti contenziosi.

L'assenza di tempestivi e decisi interventi calmieratori per volontà politica, fosse pure decisi oggi ex-post, non può non ingenerare il sospetto che il mercato dell'energia, così come è stato normato in ossequio ai principi ordoliberisti dell'UE, costituisca in realtà uno strumento di leva per il controllo dei prezzi, in vista del conseguimento di obiettivi politici. Ovvero che tale strumento, rimasto dormiente fino al maggio 2021 (si veda il grafico) sia stato opportunamente attivato con il fine di perseguire, dopo la stagione della farsa pandemica, gli stessi scopi per i quali questa è stata messa in scena: la distruzione (creativa) di parte dell'economia europea. Saranno contenti gli Zingales e i Boldrin che, da sempre, sostengono la necessità di concentrare i capitali verso l'alto per rendere l'economia europea più efficiente, eliminando dal mercato le PMI onde favorire l'ingresso del grande capitale in settori ancora a bassa capitalizzazione. Dunque, una enorme operazione di ristrutturazione del tessuto economico, ma anche sociale e politica, in una scala molto maggiore rispetto a quelle che l'hanno preceduta.

Si potrebbe eccepire che un'operazione di così larga scala indebolirebbe l'UE, e in generale l'occidente, in una fase di confronto militare con la Russia e la Cina, ma a questa obiezione è facile rispondere osservando che, su questo piano, non sussiste alcuna possibilità che uno dei numerosi conflitti liminali, tra i quali quello in Ucraina, possa degenerare in un confronto su larga scala che comporti pericoli di invasione delle rispettive zone di controllo strategico, pena lo scatenarsi di un conflitto atomico distruttivo. Le uniche guerre possibili sono quelle che ho definito "liminali", di logoramento degli avversari, mentre, ben al sicuro dei propri confini presidiati dalla minaccia reciproca dell'uso della pistola atomica, ogni sistema ha mano libera nel condurre a termine i processi di ristrutturazione necessari. Questa potrebbe essere la ragione della corsa a inglobare altri paesi, nel caso della Nato Svezia e Finlandia, all'interno dell'area strategica di pertinenza. Questa chiave di lettura ci consente di guardare alla farsa pandemica mondiale e all'attuale crisi dei prezzi energetici in UE come a due fasi dello stesso processo storico; un processo che abbiamo l'abitudine di definire Great Reset, e quasi sempre proposto all'opinione pubblica con toni enfatici impregnati di considerazioni di natura religiosa e spirituale.

Non è tuttavia questo l'approccio confacente al vostro umile cronista della contemporaneità, da sempre ben ancorato all'idea di indagare le ragioni strutturali degli avvenimenti e abituato a considerare gli orpelli sovrastrutturali al più come segnali di ciò che avviene nel sottosuolo, laddove agiscono le vere forze del cambiamento, sempre fortemente ancorate a concreti interessi materiali.

Come ho già argomentato in numerosi video (Un green pass medievale), un'operazione di ristrutturazione su larga scala di un'intera area strategica implica, oltre alla concentrazione dei capitali, anche un'analoga forte concentrazione dei poteri decisionali, che può essere perseguita soltanto mettendo mano alle strutture di potere dell'intera società. Da qui la necessità di limitare i poteri dei Parlamenti, nell'ottica della conservazione di una maschera democratica, e il loro trasferimento agli esecutivi. I segnali di questa tendenza, ormai pluridecennale, sono sotto gli occhi di tutti, ma anche ciò non è sufficiente. Servono strumenti di controllo e coercizione che siano accettati dalle popolazioni anche quando i costi sociali e umani diventano insopportabili, e a tal fine vengono utili gli allarmi emergenziali di vario genere, dal riscaldamento globale agli allarmi pandemici, che giustifichino la consegna di poteri straordinari, da stato di eccezione, a organismi sovranazionali del tutto sganciati da ogni controllo democratico.

Il punto centrale dell'operazione, se volete possiamo chiamarla "complotto" così da far felici i pennivendoli di ogni risma, consiste nel far accettare all'intera società l'idea che il Principio di legittimazione di questi organismi non sia la volontà popolare, bensì un fumoso concetto di competenza tecnica posto al di sopra di essa. Fatto ciò ogni stato di eccezione potrà essere giustificato, e sarebbe supinamente accettato dalle popolazioni opportunamente condizionate semplicemente invocando la neutralità del nuovo clero tecnocratico chiamato a sostituire quello preposto, per secoli, alla cura delle anime.

Il processo testé descritto, già in incubazione da decenni e forse più di un secolo, ha subito negli ultimi tre anni un'accelerazione evidente, dapprima con lo stato di polizia imposto in mezzo mondo, in particolare in Italia, con il pretesto di una risibile pandemia influenzale, e adesso con la nuova crisi dell'energia, assolutamente ingiustificabile senza tirare in ballo le distorsioni di un mercato appositamente normato per trasformarsi in una clava politica da impugnare al momento opportuno.

Ve lo scrivo oggi e potete appuntarvelo: se ho ragione, allora le dimensioni del cataclisma che sta per abbattersi su tutti noi saranno dello stesso ordine di grandezza di quello che è accaduto con i lockdown e gli obblighi vaccinali; i quali non scompariranno del tutto ma resteranno momentaneamente in secondo piano, pronti per essere tirati fuori nel momento della mazzata finale. Mancano poco più di sette anni al 2030, quando non avremo nulla ma saremo felici, ma solo di esserci arrivati. Per chi ci arriverà.

Tanto vi dovevo e tanto vi ho dato, alla prossima.