martedì 30 giugno 2015

Offerta last minute


Era il 1981 (divorzio Tesoro / Banca d'Italia - n.d.r.) e Franco Battiato cantava "Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare / siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro....".

Oggi è arrivata l'offerta last minute di Juncker al governo greco. Juncker è l'alcolizzato che sproloquiava di un piano da 315 mld di investimento per la zona euro da dividere tra 19 paesi, di cui solo 13 effettivamente versati (ovviamente prelevati dalle tasche dei contribuenti, mica monetizzati dalla BCE). Vabbè...

Che dite, i greci sottoscriveranno l'offerta last minute dell'agenzia di viaggi psichedelici con sede a Bruxelles? 

Pare che ci sia uno sconto! 

Oh intendiamoci, io Juncker lo capisco, lo sento vicino: siamo entrambi avviati sulla via dell'alcolismo come linimento dell'età senile (lui 1954, io 1956), con la non lieve differenza che io vado a vino e lui a whiskey. Juncker è preoccupato, teme l'effetto valanga.

La Grecia uscirà dall'euro, di ciò sono abbastanza sicuro, così come del fatto che l'effetto valanga sull'euro questa volta non ci sarà.

Dice: ma come fai a dirlo, sei un economista? No, sono un alcolizzato. Io dico che l'effetto valanga sarà innescato da un altro evento: l'uscita di un paese del nord, forse la Finlandia.

Figura 2 - Posizione finanziaria netta sull'estero
dei principali paesi dell'Eurozona nel 2007 (punti di PIL)
Fonte: goofynomics
Dice: ma sei pazzo? La Finlandia? 

Secondo voi, se la Grecia va in default e non restituisce il bentolto, chi è che piange di più, i paesi creditori o quelli debitori?

E tra i paesi creditori, quali sono quelli che si troveranno subito nella merda? Quelli che, bene o male, hanno ancora un settore industriale che tira, o quelli che non ce l'hanno più?

Ve lo ricordate che la Finlandia voleva il Partenone come garanzia per i suoi crediti alla Grecia? Chi di voi ha un cellulare Nokia? E che dire degli effetti della svalutazione del rublo sull'export dell'industria del legno finlandese?

Io non sono un economista, sono solo un alcolizzato, and this is alcoolomics.


lunedì 29 giugno 2015

[PopulPost] - La crisi spiegata a quelli che cadono dal pero


Mi sono arrivate alcune telefonate di gente che mi chiede cosa stia succedendo. Ciò che mi sorprende è il constatare che tutti, certamente quelli disinteressati al problema euro ma anche altri che addirittura mi seguono (e in un caso sono stato loro ospite in un incontro pubblico), sembrano come caduti dal pero. Ma allora non credevate a quello che raccontavo! Ma allora mi avete seguito con riserva, della serie: è tanto un bravo ragazzo, non è cattivo... solo un po' strano! Ma allora mi avete chiamato all'incontro pubblico perché dovevate fare un po' di scena e vi serviva uno che sapesse almeno parlare italiano!

Ragazzi non ci siamo, l'euro non è un gioco di società, né uno dei tanti temi di campagna elettorale buoni per riunire un po' di gente al ristorante. La moneta unica, di cui mi occupo ormai ossessivamente (lo riconosco) dal 2008, è veramente una cosa seria, che investe non solo il nostro benessere ma addirittura la democrazia. E allora, visto che siete un po' testoni, provo a spiegarvi l'euro nel modo più semplice possibile, così lo capiscono (spero) pure i castresi e gli amasenesi.

Siamo entrati nel club dell'euro nel 1999. A quella data, infatti, anche se avevamo ancora in tasca le nostre lire, il cambio (quante lire per ogni euro) era già stato fissato, e sarebbe rimasto fisso. Entrare nell'euro è stato veramente come entrare in un club di gente ricca, un po' come se un allevatore di Amaseno facesse una fusione con un'azienda molto più grande. Ci sono dei vantaggi? Certo che sì, almeno all'inizio. Caro bufalaro di Amaseno, immagino che tu abbia sempre avuto problemi di garanzie con le banche, giusto? Però, se ti fondi con la Bufalotta Unlimited, magari questi problemi si risolvono! Ma questo vale anche per un ristoratore di Castro dei Volsci: ti fondi con la Chef Starlight e oplà, le banche ti fanno credito!

E allora vai con i finanziamenti! Certo, un dettaglio avrebbe dovuto mettervi in guardia: le vostre contabilità restavano distinte da quelle della Bufalotta Unlimited e della Chef Starlight. Eravate diventati "credibili", le banche vi finanziavano, ma... se qualcosa andava male erano cazzi vostri!

Vi siete esposti, i clienti arrivavano, tutto andava a meraviglia... salvo il fatto che i debiti non diminuivano, anzi aumentavano. Dice: come è possibile? E' possibile invece, perché anche se i clienti arrivavano, questi si limitavano a guardare quello che voi esponevate in vetrina fianco a fianco con i prodotti della Bufalotta Unlimited e della Chef Starlight, come previsto da contratto, ma sempre più spesso non compravano da voi, ma da loro. E' la libera circolazione delle mozzarelle e dei menù, signori cari! Però vi avevano detto che, investendo, anche voi sareste diventati competitivi, e ci avete creduto.

Intanto i costi aumentavano. Ma niente paura, stare in società con la Bufalotta Unlimited e la Chef Starlight vi dava credibilità: prima o poi sareste riusciti a passare al segmento più alto di clientela, quello che ha da spendere, e allora i soldi veri sarebbero arrivati! Una cosa vi angustiava un po': quelli a cui davate lavoro, chissà perché, invece di comprare le vostre mozzarelle o i vostri servizi di ristorazione, preferivano la Bufalotta Unlimited e la Chef Starlight. Che è una cosa che fa un po' girare le balle! Ma come, voi gli date lavoro e questi manigoldi comprano dalla concorrenza?

Ma che concorrenza! Siete in società, diamine! Dovete stare tranquilli, vi dicevano tutti, a un certo punto i guadagni sarebbero arrivati, e nel frattempo che problema c'era? Siete credibili, basta passare in banca. Cazzo, siete o no in società con la Bufalotta Unlimited e la Chef Starlight?

Poi succede che una piccola azienda di Villa Santo Stefano, che non avevate mai capito come aveva fatto a entrare in società con queste grandi aziende, a un certo punto salta per aria. E beh, c'è da mettere un po' di soldi per tirarla fuori dai guai, mica vorrete dire di no? Facciamo il piano di salvataggio per la Marzolina di Villa santo Stefano snc, questa si riprende e tutto va a posto. Insomma, un piccolo aumento di capitale. Solo che le banche questa volta nicchiano, così i soldi ce li dovete mettere voi, magari procrastinando qualche investimento. E che sarà? Tempo un paio d'anni e la Marzolina di Villa Santo Stefano snc si riprende, è sicuro! Diamole i soldi per superare la crisi e garantiamo tutti insieme per lei: voi, la Bufalotta Unlimited e la Chef Starlight.

Sapete che succede? Succede che voi vi caricate i debiti delle banche e non avete più i soldi per continuare a investire, cosicché cominciate a vendere sempre di meno. Succede che la Marzolina di Villa Santo Stefano snc non vede un soldo perché vanno tutti alle banche, e a un certo punto questi ti cambiano pure il consiglio di amministrazione!!! Il quale convoca un'assemblea dei soci per decidere se ripagare i debiti oppure mandarvi affanculo!

E adesso state tutti lì a chiedervi cosa non avete capito e dove avete sbagliato. Se la Marzolina di Villa Santo Stefano snc porta i libri in tribunale voi non rivedete una lira; una cosa che comincia a puzzarvi di bruciato e vi toglie il sonno. Che fare? Ma è semplice! Ancora increduli venite a scassare gli zebedei a chi vi aveva messo sull'avviso, ma voi non gli avevate creduto veramente perché è un tipo un po' strano con la testa sempre tra le nuvole.

Secondo voi, che cadete dal pero, come andrà a finire?

Intervista a Enea Boria (ORA Costituente)

L'amico Enea Boria di ORA-Costituente è ancora in Grecia, dove ha partecipato al Forum di Atene. Gli ho chiesto un'intervista telefonica, che egli mi ha cortesemente accordato. L'intervista è stata registrata alle ore 14:00 del 29 giugno 2015.

domenica 28 giugno 2015

Il referendum greco



Tsipras non poteva dire di sì al piano della commissione europea perché Syriza si sarebbe spaccata e il governo sarebbe caduto. Ergo: elezioni.

Tsipras non poteva dire di no al piano della commissione europea perché Syriza si sarebbe spaccata e il governo sarebbe caduto. Ergo: elezioni.

La scelta dunque era tra elezioni anticipate e un referendum. Ma elezioni anticipate avrebbe significato immettere nel confronto una miriade di altre questioni, secondarie rispetto al nocciolo, con il rischio di un voto popolare molto distorto anche da divisioni politiche interne.

Il referendum è la scelta più pulita, il rasoio di Occam della democrazia. Se i greci faranno la scelta sbagliata ne pagheranno le conseguenze, ma come può esserci sovranità popolare senza una piena assunzione di responsabilità?

Ivano Alteri - Occupazione e reddito: si può fare qualcosa (RdC\S)

Nota: per distrazione il titolo del video, che avrebbe dovuto essere "Occupazione e reddito: si può fare qualcosa (RdC\S)", risulta sbagliato. In effetti "Occupazione e lavoro" è una cosa diversa da "Occupazione e reddito". Pazienza...

La dichiarazione di Tsipras

Localizzato a Frosinone, il sito eunews.it (News sull'Europa e l'Unione Europea da Bruxelles) comincia a segnalarsi per un'informazione sulla crisi europea interessante e con un taglio nuovo. Ho già usato questa fonte per scrivere l'articolo "Considerazioni di uno scapestrato", e oggi vi segnalo la sua traduzione del discorso di Tsipras, "Per la sovranità e la dignità della Grecia". Non ho verificato la correttezza della traduzione, ma l'intuito mi induce a ritenerla tale.

Se la traduzione del discorso di Tsipras è corretta, e se le parole hanno ancora un significato, siamo davanti a un fatto nuovo, per certi aspetti clamoroso. Infatti l'interpretazione dominante negli ambienti sovranisti (ma anche di qualche economista alla moda) della strategia del governo greco, da sempre improntata allo scetticismo, rischia di essere completamente smentita dai fatti. Le parole di Tsipras suonano come un invito esplicito, agli elettori greci, a respingere le richieste della Troika: "Cittadini greci, Vi invito a decidere, con la sovranità e dignità che vuole la storia greca, se dovremmo accettare l’esorbitante ultimatum che chiede una rigorosa e umiliante austerità senza fine, e senza la prospettiva di poterci reggere in piedi, socialmente e finanziariamente. Dobbiamo rispondere all’autoritarismo e alla dura austerità con la democrazia, con la calma e con decisione. La Grecia, la culla della democrazia, deve inviare un clamoroso messaggio democratico alla comunità europea e mondiale."

Vedremo come andrà a finire, ma credo sia necessario cominciare a chiedersi se vi siano fatti nuovi, e non ancora noti, che possano spiegare questo improvviso atto di coraggio del governo greco. Ha ottenuto garanzie dalla Russia? Sono gli USA che vogliono mandare un segnale alla Germania e alla Francia? E' la mitica razionalità dei mercati che fa sentire le sue ragioni? ("Per questa mia difesa della razionalità tecnica dell’economia sono stato fatto passare per una maestrina dalla matita blu che si arrocca nel suo sapere tecnico e emette sentenze dalla sua torre d’avorio. A voi il giudizio." - Illo dixit)

Non lo sappiamo.

Quello che è evidente, a mio avviso, è che questa dichiarazione sconvolge lo stanco scenario che ha fatto da sfondo a questi mesi di estenuanti trattative. La dichiarazione di Tsipras pone fine alla "DRÔLE DE GUERRE" europea, rivelando l'esistenza di scenari imprevisti o, al più, ipotizzati da pochi. Ci saranno, nei prossimi giorni, molti contorcimenti mentali...

sabato 27 giugno 2015

Aniello Prisco - il Reddito di Cittadinanza (RdC\S)

Continua la saga "Resa dei Conti a Sinistra RdC\S". E' la volta di Aniello Prisco (m5s) che espone il suo pensiero sul Reddito di Cittadinanza proposto dal m5s.

Seguiranno a breve gli interventi di Ivano Alteri e di Daniela Bianchi. Non sarà pubblicato, anche su sua richiesta, il breve intervento di Stefania Martini che si è limitata a salutare i convenuti e a esporre alcune sommarie considerazioni sulla politica locale, evidentemente fuori dal tema in discussione.

Al termine proverò a tirare le somme.

Dicono i ricchi che uscire dall'euro sarebbe devastante per i poveri! (RdC/S)


La traccia dell'intervento


Dicono i ricchi che uscire dall'euro sarebbe devastante per i poveri.

La penetrante richiesta di onestà nella vita politica è l'ideale che canta nell'anima di tutti gli imbecilli - B. Croce, Etica e politica, 1931.

Ho scelto questa frase di Benedetto Croce non perché io pensi che l'onestà non sia una qualità morale importante per il benessere di una nazione. Al contrario, questa come altre qualità morali è fondamentale, ma esse non possono spiegare i cambiamenti improvvisi. Ciò perché la struttura etica di una collettività, cioè l'insieme delle regole condivise, dei tabù sociali, degli stili di vita, insomma tutto ciò che caratterizza una civilizzazione, sono elementi che cambiano in modo relativamente lento. Per dire, nel settecento i tedeschi erano considerati i peggiori soldati d'Europa, e in generale avevano fama di essere un popolo pigro, indolente, incline al consumo di birra, indisciplinato. Centocinquanta anni dopo le cose erano cambiate radicalmente, ma i tedeschi di Bismark non erano gli stessi che aveva trovato Federico II di Prussia nei primi anni del suo lungo regno (1740-1786).

Certamente il profilo etico di un popolo ha particolare importanza a livello amministrativo, cioè colà dove non si ha la responsabilità di assumere decisioni politiche, ma solo quella di eseguire ciò che altrove è stato deciso. Tuttavia la causa del progressivo peggioramento delle condizioni di vita, al quale assistiamo in tutta Italia, non può e non deve essere ricercata in un improvviso quanto impossibile a verificarsi abnorme degrado del profilo morale delle classi politiche locali. Queste sono, più o meno, simili a quelle che amministravano 10, 20 o 30 anni fa.

Dunque è necessario cercare altrove le ragioni del peggioramento.



Credo che l'indice migliore al quale possiamo riferirci sia il tasso di disoccupazione. Possiamo isolare 5 periodi:

  1. 1960-1975 (stabilmente bassa)
  2. 1975-1987 (salita rapida)
  3. 1987-1999 (stabilmente alta)
  4. 1999-2008 (discesa rapida)
  5. 2008-2014 (salita rapida)

A questa variabilità del tasso di disoccupazione corrispondono dei fondamentali cambi di struttura in politica e in economia, dei quali mi occuperò brevemente. Per farlo mi aiuterò con un altro grafico, che riporta il tasso di inflazione e la quota salari.



Il 1° periodo si conclude nel 1975 con un massimo dell'inflazione e della quota salari. A partire da quella data la quota salari inizia a declinare, di conserva con l'inflazione. Entrambe raggiungono un minimo intorno al 1999, l'anno di ingresso nell'euro. Rispetto al massimo del 1975 la quota salari perde quasi 12 punti percentuali, ponendosi al di sotto del livello del 1960.

Nel 1975 si svolse un G7 al quale fu invitata per la prima volta anche l'Italia. Gli inglesi e gli americani premevano per il rilancio di una strategia atlantica, mirata alla creazione di un'area di libero scambio nella quale coinvolgere anche il Giappone. Gli europei, in particolare Francia e Germania, propendevano invece per la trasformazione della CEE in un'area a moneta unica, uno scenario che per gli anglo-americani non aveva futuro in assenza di un'unione politica effettiva, difficile da realizzarsi.

Prevalse la visione franco-tedesca, alla quale l'Italia si accodò. L'idea di base era quella di vincolare i tassi di cambio delle monete per procedere, in un secondo tempo, verso la moneta unica. A questa avrebbero fatto seguito, quando necessari, i provvedimenti indispensabili per realizzare l'unione politica. Questo percorso ci è stato presentato in termini positivi senza informare le popolazioni coinvolte dei rischi insiti nel processo. In effetti il percorso scelto - partire dalla moneta per arrivare all'unione politica - è praticabile solo se le economie più forti, quindi a più bassa inflazione, innalzano i consumi interni concedendo aumenti salariali, mentre quelle più deboli li diminuiscono contenendo gli aumenti salariali. Per questa ragione dopo il vertice ebbe inizio, in Italia, la stagione dei cosiddetti "sacrifici".

La politica dei "sacrifici", inaugurata dal governo Andreotti nella seconda parte del 1976, poggiava sull’accordo con il PCI che, ansioso di entrare nell’area di governo, accettava di esercitare pressioni sul maggiore dei sindacati, la CGIL, affinché non si opponesse. Per Cossiga, la condizione per far entrare il Pci nell’area di governo era data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica” (da la Repubblica). Ancora su la Repubblica, il 24 gennaio 1978, comparve un’intervista a Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, nella quale dichiarava: “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.

Ricordate la contestazione a Luciano Lama nel 1977 all'università? Gli studenti gridavano, ironicamente, "sacrifici sacrifici sacrifici".

Il principale oppositore di questa linea era Aldo Moro. Con la sua scomparsa per mano delle Brigate Rosse la linea di Andreotti prevalse. Questi alla fine del 1978, con il corpo di Moro ancora caldo, sorprese tutti riproponendo e ottenendo l'adesione dell'Italia allo SME, l'accordo di cambio promosso dall'asse franco-tedesco. Vi riporto il commento tranciante di Luciano Barca: " Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia".

Dal 1978 al 1999, per un ventennio, la quota salari e l'inflazione precipitarono di conserva. Per quanto riguarda la quota salari, stiamo parlando di 12 punti di PIL, qualcosa come 150 mld di euro l'anno in salari che, dal remunerare il lavoro, sono finiti in profitti! C'è qualcuno che vuole parlare ancora di corruzione?

In questo "ventennio" ci sono stati molti altri fatti sui quali sorvolo. Mi limito a citare il divorzio Tesoro-Banca d'Italia del 1981, il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitali che ebbe luogo dal 1986 al 1990, la ratifica del trattato di Maastricht nel 1992 passato pressoché inosservato a causa del ciclone "mani pulite".

Nel 1999 entrammo nell'euro. Consentitemi di sorvolare sulle polemiche relative alle speculazioni che si scatenarono, limitandomi a sottolineare che si trattò di una redistribuzione di reddito che rimase comunque confinata all'economia nazionale.
Il dato di gran lunga più interessante è che, a partire dal 1999 e fino al 2008, si assiste a una fase di crescita economica in cui:

  1. l'inflazione si stabilizza
  2. la quota salari ricomincia a crescere guadagnando 4 punti di PIL
  3. la disoccupazione scende dall'11% al 6%
  4. anche il debito pubblico scende, dal 113% al 103%

Ora la domanda è: perché un'economia che presenta un andamento così positivo entra improvvisamente in crisi? E ancora: perché analogo destino occorre ad altri paesi che avevano indici altrettanto positivi, se non addirittura migliori? Per dire: la Spagna aveva un debito/PIL del 36%, l'Irlanda del 25%, il Portogallo del 63%.

Credo che siate d'accordo sul fatto che ciò non può essere spiegato con l'ipotesi corruzione, perché dovremmo ammettere che improvvisamente, e in tutti i paesi della periferia d'Europa, vi sia stato un improvviso peggioramento delle qualità morali delle classi dirigenti, anche nell'Irlanda (la tigre celtica) e nella Spagna del compagno Zapatero! Siamo seri!

In Italia, dall’inizio della crisi:
  • abbiamo perso 9 punti di PIL
  • abbiamo perso il 25% della produzione industriale e il 20% della capacità produttiva
  • il reddito disponibile è calato dell’11% in termini reali
  • la disoccupazione è al 13% (dal 6%) quella giovanile al 43% (dal 18%)

La spiegazione alternativa è che l'architettura dell'Unione Europea, oltre ad essere improntata ai principi del più sfrenato liberoscambismo, e dunque contraria agli interessi del mondo del lavoro, è anche profondamente sbagliata. Per funzionare l'Europa avrebbe dovuto adottare uno stile cooperativo, una cosa che, di per sé, confligge con il principio della concorrenza assoluta. L'Unione Europea è fondata su un ossimoro, che chiamerò liberismo cooperativo.

In base a questa impostazione, gli stati più competitivi, dunque più produttivi, avrebbero dovuto aumentare i consumi interni, cioè i salari, mentre in quelli meno produttivi i salari avrebbero dovuto essere compressi. Dall'incontro tra questi due comportamenti sarebbe sorto un equilibrio che, si noti, sarebbe stato di natura profondamente dirigista, e dunque in contrasto con il principio di concorrenza: un altro ossimoro. Quello che invece è accaduto è che nei paesi più produttivi i salari sono stati compressi, mentre in quelli meno produttivi sono cresciuti più del dovuto.

Il ciclo di Frenkel

In effetti, grazie all'abolizione del rischio di cambio che liberava i prestatori dal timore di vedersi restituiti i prestiti in moneta svalutata, i capitali hanno cominciato a defluire dal centro per andare a finanziare la periferia. Ciò ha determinato la compressione dei salari al centro e ha innescato un eccessivo aumento degli stessi nella periferia. In pratica, la crescita dei paesi della periferia è stata finanziata a debito con i soldi che, invece di remunerare i più produttivi lavoratori del centro, hanno arricchito le banche, cioè i capitalisti che avevano maggiori profitti proprio perché sottopagavano i lavoratori!

La crisi è esplosa quando il flusso dei finanziamenti dal centro alla periferia si è interrotto, dopo la crisi dei subprime americani. Ciò ha innescato un crollo della produzione, una lunga serie di fallimenti bancari di cui il settore pubblico si è fatto carico, dunque un aumento repentino dei debiti pubblici. Non solo! Davanti al rifiuto dei paesi del centro di riequilibrare la situazione attraverso la concessione di imponenti aumenti salariali (o in alternativa attraverso la condivisione del rischio: gli eurobonds) la soluzione adottata è stata quella di ridurre i redditi dei cittadini.

E fu subito Monti!

Non si capisce il senso dell'azione del governo Monti se non si ha chiaro il fatto che nel lungo periodo le esportazioni e le importazioni si devono uguagliare, altrimenti un paese dipende in maniera crescente dai capitali esteri. Poiché le importazioni dipendono dal reddito dei cittadini, in un sistema di libera circolazione e concorrenza e una moneta sopravvalutata vi sono due strumenti possibili: la svalutazione e/o la compressione dei redditi. La svalutazione però è inibita con l'euro, dunque non rimane che la compressione dei redditi.

La compressione dei redditi può essere perseguita in due modi: per via fiscale o per mezzo della deflazione salariale, cioè attaccando i diritti dei lavoratori. Il governo Monti ha operato sul lato fiscale; Renzi, con il jobs act, sta agendo su quello salariale.

Entrambe queste misure di politica economica deprimono il PIL causando disoccupazione, la quale a sua volta alimenta un'ulteriore calo dei salari, quindi dei prezzi. Quando questo circolo vizioso si instaura si cade in deflazione, una condizione che assomiglia allo stallo di un aereo: il rischio di precipitare improvvisamente in una depressione disastrosa diventa altissimo.

La tendenza alla caduta dei prezzi, cioè la deflazione, ha l'effetto di indurre gli imprenditori a rimandare gli investimenti. Infatti non è conveniente investire oggi per vendere domani a prezzi più bassi. Se la crisi, con il suo portato di disoccupazione e povertà, fa soffrire i lavoratori, la deflazione terrorizza le classi dominanti perché i suoi effetti sono rapidi e ingestibili. In Germania, ad esempio, i disoccupati passarono da uno a sei milioni nel periodo 1929-1932! Per contrastare la stagnazione dei prezzi in una fase di recessione, quando cioè questi tendono naturalmente a crescere poco (o addirittura scendono), si possono usare metodi non convenzionali. Uno di questi è il QE. La sostanza delle cose è questa: è vero, i prezzi scendono perché c'è poca domanda, ma, per evitare il peggio, cioè per evitare la gelata causata dalle decisioni degli imprenditori di rimandare gli investimenti, faccio aumentare i prezzi artificialmente inondando le banche di liquidità.

E' un'operazione sul filo del rasoio perché l'aumento dei prezzi così ottenuto è orientato a stimolare solo i consumi delle fasce più ricche, mentre l'esistenza di chi ha redditi bassi e calanti si complica, anche a causa dell'aumento artificiale dei prezzi. In definitiva il QE serve a guadagnare tempo per consentire il completamento della deflazione salariale, senza che nel frattempo il sistema economico abbia un vero e proprio infarto.

Da ciò segue che assisteremo, nei prossimi mesi, ad ulteriori attacchi sul fronte del lavoro. In questo quadro la proposta, sostenuta anche dal M5S, di introdurre un Reddito di Cittadinanza, è perfettamente coerente. Il problema è sostanzialmente di natura politica, cioè trovare una giustificazione per far passare il RdC in cambio di un intervento strutturale sulle pensioni, di cui si vocifera da tempo il passaggio, per tutti, al metodo contributivo.

L'aggettivo "strutturale" è importante, e merita una spiegazione. L'idea è quella di utilizzare i flussi di reddito "certi", derivanti dai trattamenti pensionistici in essere, per finanziare un provvedimento che si immagina "temporaneo", in attesa che la crisi passi e la disoccupazione scenda. Con l'ulteriore vantaggio di imprimere una forte spinta al mercato delle pensioni integrative, saldamente in mano al settore finanziario privato.

In definitiva siamo davanti a una politica economica che non solo scarica sui lavoratori il costo di una crisi che è il risultato di un errore di progettazione dell'UE, ma si coglie l'occasione per compiere un ulteriore passo avanti nella direzione di un assetto liberistico e privatistico. Al punto che non è più tacciabile di complottismo chi ipotizza che la crisi stessa sia stava prevista, voluta e finanche provocata.

venerdì 26 giugno 2015

Storia del lavoro rubato - Luciano Granieri (RdC/S)

L'intervento di Luciano Granieri (Aut-Frosinone) all'incontro "Occupazione e reddito, le sole cose che non aumentano".


La traccia dell'intervento di Luciano Granieri.


CAUSE

Spiegare perché l’occupazione e il reddito sono le uniche cose che non aumentano non è questione semplice. Intanto perché le cause partono da lontano e perché hanno a che fare con un profondo mutamento dei rapporti sociali e di produzione fra capitale e lavoro. L’articolo 1 della Costituzione “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” esplicita chiaramente che dal lavoro devono dipendere le politiche economiche e l’economia, non viceversa. Assodato ciò si rende necessario riequilibrare la debolezza   del lavoratore rispetto alla forza contrattuale del detentore dei mezzi di produzione. A ciò dopo decenni di lotte  si era giunti con l’approvazione della legge 20 del 1970 (lo statuto dei lavoratori). Tale normativa agiva sulla tutela della variabili che, se non legislativamente protette, avrebbero determinato la completa subordinazione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Cioè, un salario dignitoso, vincoli al licenziamento ingiustificato, rispetto delle prerogative professionali del lavoratore. Su queste macroaree si concentravano gli effetti della legge 20. Lo Statuto dei lavoratori era lungi dal definire un inamovibile posto di lavoro durevole  fino alla pensione. Disporre di  un lavoro stabile significava semplicemente avere la certezza di poter contare su  un rimedio efficace contro eventuali soprusi e angherie del datore di lavoro, significava  poter rivendicare, nella concretezza dei rapporti di lavoro, il diritto a una retribuzione equa o alla tutela della professionalità, della salute o della sicurezza sul lavoro. Significava potersi organizzare collettivamente senza temere che ciò potesse  costituire un biglietto di sola andata dentro una lista di nomi coinvolti in una pro­cedura di riduzione di personale o in un trasferimento di ramo d’azienda.  Tutto ciò per garantire pari dignità sociale ai cittadini attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la libertà e l’eguaglianza, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica così come sancito dall’art. 3 della Costituzione. Le conseguenze di queste politiche in termini economici avevano stabilito un equa distribuzione del reddito fra quota salariale e quota derivante dal profitto.  Dalla metà degli anni ’80 è iniziata la decisa controffensiva capitalista, tesa a distruggere questo equilibrio e a spostare una parte sempre più significativa del reddito dal salario al profitto. Capovolgendo completamente il compito del legislatore così come definito nella costituzione. E attivando processi legislativi atti non più a difendere il debole, ma il forte nel rapporto capitale lavoro. Le linee su cui si sono sviluppate queste politiche hanno camminato sui binari per cui la libertà sindacale e il controllo giudiziario, garanzia di uguaglianza e democrazia, dovevano essere ridotti se non eliminati perché fastidiosi ostacoli  alle discrezionalità imprenditoriali, alla loro libertà di disporre a piacimento della mano d’opera . Si è stravolto   il concetto di lavoro,  passato, da elemento distintivo della propria cittadinanza e appartenenza alla comunità, a variabile sui costi di produzione, a fattore di mercato. In pratica la legislazione sul lavoro si è trasformata, da strumento di garanzia di diritti delle persone,  in strumento di garanzia della flessibilità del processo produttivo.

LE LEGISLAZIONI
A partire dagli anni ’90 Italia tutti i governi, di centro destra e centro sinistra succedutesi al potere, con la scusa di sconfiggere la disoccupazione giovanile, hanno introdotto notevoli cambiamenti nella legislazione del lavoro tali da soddisfare la visione neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Alcuni esempi: la riforma del sistema pensionistico nel 1995 (legge 355/95) in relazione al metodo di calcolo da retributivo a contributivo. La legge Treu del 1997  che introduce le prime forme di flessibilità in entrata legittimando il lavoro interinale fino ad allora proibito. Nel 2003, a seguito della pubblicazione del libro bianco sul mercato e le politiche del lavoro del 2001, viene approvata la legge 30 detta anche legge Biagi che introduce ancora più flessibilità nel mercato moltiplicando le modalità di lavoro atipico. Nel 2012 e nel 2014 si consumano gli ultimi due atti per trasformare il lavoro in merce: la legge Fornero e il Jobs Act, le quali rendono  maggiore la flessibilità in uscita. La prima depotenziando gli effetti dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori la seconda abolendolo del tutto. Ma con quali risultati?  Le posizioni lavorative nel 1990 erano 21 milioni e mezzo nel 2014, dopo 24 anni  di politiche lesive dei diritti dei lavoratori,  le posizioni sono aumentate a 22 milioni e seicento mila, un aumento del 5% che dimostra come il risultato dichiarato dai governi teso a liberalizzare il lavoro per ottenere aumenti significativi di occupazione sia fallito. Inoltre nella dinamica di modesta crescita i contratti a tempo determinato aumentano rispetto al 1990 del 56% mentre quelli a tempo indeterminati solo dell’8%. 
CAUSE  DEL FALLIMENTO
C’è da notare un altro  aspetto particolare di   tale involuzione sopravvenuto negli ultimi dieci anni e aggravatosi a partire dal 2008 anno d’inizio della crisi: L’enorme contrazione dei lavoratori intermedi rispetto a quelli molto e poco qualificati. Considerando la composizione in percentuale dell’occupazione nell’ultimo anno disponibile (2013) l’Italia si colloca al di sotto della media europea per percentuali di occupati nelle professioni più qualificate e pagate (manager), assieme  Spagna Portogallo e Grecia,  presenta oltre il 30%  in più di lavoratori occupati in mansioni poco qualificate e poco pagate.  Perché dunque insistere in politiche che non raggiungono l’obbiettivo di creare occupazione e in più il lavoro che creano è sempre Più  precario?  La risposta ovvia   la motivazione sull’aumento dell’occupazione è falsa. In realtà gli scopi  che si vogliono raggiungere sono uno di tipo prettamente ideologico  ultraliberista, la sempre maggiore marginalizzazione del lavoro nella formazione del reddito,  l’altro inerente alla  svalutazione competitiva del costo del lavoro, in sostituzione della svalutazione monetaria, non più possibile in regime di moneta unica. Vediamoli meglio entrambi.
IL LAVORATORE AI TEMPI DELL’ULTRALIBERISMO
L’idea ultraliberista, prefigura un lavoratore imprenditore di se stesso. Un uomo che concepisce le proprie risorse come capitale umano da valorizzare. Secondo Pierre Dardot e Christian Lavalle autori del libro La nuova ragione del mondo, critica della razionalità neoliberista, è in gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività  quella che chiamiamo oggettivazione contabile e finanziaria che altro non è che la forma più compiuta dell’oggettivazione capitalistica. In altre parole si tratta di produrre nel soggetto individuale un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale. Il soggetto è abituato a vedere in se stesso un capitale umano da valorizzare, un valore da aumentare sempre più. Una nuova ragione sociale del mondo e della vita individuale  al quale anche lo Stato nelle sue pratiche e nei suoi principi è tenuto ad adeguarsi. L’economista arriva a tipizzare un disoccupato “bohemien”  che sceglie di vendere le proprie abilità o le proprie competenze solo per ristretti periodi della propria vita provvedendo da solo alla propria formazione e alla continua promozione di se stesso per rispondere meglio alle esigenze del mercato. Tutto quanto è nelle disponibilità del soggetto si mette a valore anche le capacità economiche sottoutilzzate: da una stanza in più messa in affitto, o il noleggio della propria macchina  e delle proprie capacità lavorative, spesso si mette a diposizione l’intera propria privacy omologando il tempo di vita a quello del lavoro. Ciò su cui gli analisti liberisti sono concordi è che nel futuro, se questo nuovo modello si affermerà, il contratto dipendente, stabile, a tempo indeterminato fino alla pensione, andrà a poco a poco a estinguersi. Il mon­do nuovo che viene tratteggiato è dominato da forze anonime e individui singoli, con una forza lavoro estremamente parcellizzata, dove anche i diritti sociali sanci­ti nelle Costituzioni nate nell’immediato dopoguerra sono considerate d’intralcio, da abolire o modificare significativamente, come nelle indicazioni di importanti società di rating internazionale. La JP Morgan scrive infatti in un documento mol­to citato del 28 maggio 2013 che le Costituzioni nate dopo la fine delle dittature in Europa tutelano “troppo” i diritti dei lavoratori. The Economist, auspica che auspica che i governi europei mettano in piedi un sistema universalisti­co di sostegno al reddito che consenta la sussistenza del lavoratore intermittente nei periodi di magra. Un modo per utilizzare lo Stato come supplente anziché co­me soggetto regolatore.

LA SVALUTAZIONE COMPETITIVA.
La competitività di prezzo di un Paese è misurata dall’indice del costo del lavoro per unità di prodotto.  Tale indice è il rapporto fra retribuzione nominale per occupato e la produttività reale del lavoro.  Quest’ultima invece è data dal rapporto fra il valore aggiunto e il numero di occupati, od ore di lavoro necessarie per raggiungere quel valore. In linea teorica, minore è il costo del lavoro per unità di prodotto,  maggiore dovrebbe essere la competitività del sistema economico. Per ottenere una riduzione significativa si può agire o sulla riduzione della retribuzione nominale dell’occupato, oppure  aumentando la produttività reale del lavoro. Nel primo caso, il risultato è immediato. Ma tutto ciò provoca l’aumento di   solo nel breve periodo e solo a condizione che le imprese diminuiscano i prezzi anziché aumentare il profitto o investire  sulla speculazione finanziaria il surplus ottenuto. La seconda strada, ovvero il rafforzamento della produttività,  è di più difficile realizzazione, richiede investimenti in ricerca, sviluppo  per il miglioramento delle qualità di processi e di prodotto. Le politiche adottate in Italia per ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, si sono concentrate quasi esclusivamente sulla moderazione salariale, una scelta che può produrre vantaggi sulle esportazioni, ma genera  un impatto negativo sulla domanda aggregata interna attraverso la riduzione dei redditi da lavoro.  In assenza di investimenti che aumentano la produttività, e con la contemporanea compressione salariale,   in condizioni macroeconomiche critiche caratterizzate da deflazione e depressione persistente,  si alimenta la spirale negativa tra perdita di lavoro e bassa produttività. 
Jobs Act
Il jobs act renziano,  insieme gli altri letali provvedimenti quali i  contratti a tempo determinato a 36 mesi senza causale, sono un inarrivabile paradigma, sia dell’esaltazione dell’ideologia neo liberista, sia della svalutazione competitiva. E le conseguenze non potranno che esser disastrose soprattutto per i lavoratori. Vediamone alcuni aspetti: Tanto per essere chiari il Jobs Act, o contratto a tutele crescenti, non è né un contratto né  prevede tutele crescenti per i lavoratori. Si tratta sic et simpliciter di un’abolizione camuffata dell’art.18. Per la prima volta dal 1970 la tutela contro il licenziamento illegittimo (consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso) non si applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unico fattore che cresce, dunque, sono i lavoratori privi della tutela dell’art.18. Ma  la definizione tutele crescenti è corretta se applicata al datore di lavoro. I casi in cui è prevista la reintegra (licenziamento orale o discriminatorio) non ricorreranno mai,  perché sarà impossibile darne prova in giudizio. Per tutti gli altri casi si  avrà diritto ad un indennizzo che non avrà carattere risarcitorio perché non legato al danno subito dal lavoratore ma alla sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro ed un massimo di 24 mensilità. Se si considera che oggi la buona uscita minima concordata è di 36 mensilità ben si capisce come l’importo che l’azienda dovrà corrispondere ad  un dipendente licenziato ingiustamente non costituisce affatto deterrente. Per raggiungere il massimo delle 24 mensilità, come stabilito nel jobs act,  un lavoratore dovrà aver raggiunto un’anzianità di servizio pari a 12 anni, un fatto che contrasta notevolmente con la tendenza ad assumere per breve tempo. Inoltra licenziare sarà veramente facile,  infatti basta imputare al lavoratore una qualsiasi manchevolezza, ad esempio un ritardo nel raggiungere il posto di lavoro,  anche non   grave per provocare il licenziamento.  La riforma infatti preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità dell’infrazione  commessa  dal lavoratore e il licenziamento.  Altra novità è il venir meno della reintegra in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio. Ciò  senza che venga rispettato il tempo di comporto. Per ogni tipo di mansione, a seguito di infortunio o malattia, il lavoratore non può essere licenziato prima che sia trascorso  il tempo necessario per rimettersi (tempo di comporto), con il jobs act questa grave vessazione procurerà  al lavoratore il semplice indennizzo delle due mensilità per anno di servizio. A questo vanno aggiunti i devastanti effetti del decreto Poletti (legge 34 del 2014) sui contratti a tempo determinato  senza causale. Con la legge Fornero era possibile ricorrere alle prestazioni di un dipendente a tempo determinato, senza giustificarne l’impiego, una sola volta. Per un  periodo di un anno. Il decreto Poletti, amplia questa possibilità a tre anni e prevede che possa essere effettuato il rinnovo per 5 volte, cioè ogni 6 mesi. Ciò significa tenere sotto scacco il dipendente che, nella speranza della proroga o di un rinnovo, sarà disposto ad accettare  ogni sopruso, anche una compressione salariale.  Ad una lavoratrice che  si sposa o entra in gravidanza, sarà facile non rinnovare il contratto. Ancora nel jobs act, si prevede la possibilità, qualora le condizioni oggettive dell’impresa lo richiedano, di demansionare un dipendente, senza il suo assenso, ad incarichi inferiori rispetto a quelli che aveva al momento dell’assunzione. Con questa norma si va a modificare l’art.2013 del codice civile che vieta i patti di demansionamento del lavoratore.  Ci sarebbe molto altro da dire, per esempio sul mini jobs  e i buoni lavoro, ma concludo questa parte facendo notare come il vero obbiettivo del jobs act sia perseguire l’ideologia liberista che mette l’intera vita del lavoratore a disposizione dell’impresa e inasprire le modalità di compressione salariale al fine di ottenere svalutazione competitiva. Le finalità dichiarate dal Governo, inerenti la funzionalità del jobs act nella lotta alla disoccupazione sono false. L’articolo 18 c’è dal 1970, e la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi 6 anni (dal 6% del 2008 al 13% del 2014). Dopo 10 anni dall’entrata in vigore della legge Biagi, che ha introdotto la flessibilità in entrata a favore dei giovani, la disoccupazione giovanile è arrivata al 43%.  Sono 20  anni che in materia contrattuale si continua a puntare sulla flessibilità in entrata (contratti a termine) e in uscita (modifica dell’art.18 2012 e sua abrogazione 2014) eppure è del tutto evidente come tutto ciò non abbia diminuito la disoccupazione ne aumentato l’occupazione.
PROPOSTE
L’assunto principale che anima le proposte che seguono, sancisce che non è possibile delegare al mercato le regolamentazioni del lavoro. E’ necessario che lo Stato si riappropri delle prerogative di regolazione dei rapporti di produzione per riaffermare  che le politiche economiche devono dipendere dal lavoro e non viceversa. Serve una politica  pubblica per il lavoro completamente diversa. E’ necessario:
a)    Rafforzare anziché indebolire i diritti e le tutele dei lavoratori dipendenti favorendo la loro effettiva stabilizzazione.
b)    Investire nella creazione diretta di occupazione pubblica
c)     Redistribuire il lavoro grazie ad una riduzione sussidiata dell’orario di lavoro
d)    Investire nella gestione pubblica dei beni comuni
e)     Investire nella gestione pubblica del lavoro riproduttivo finalizzato alla erogazione di servizi sociali.
Soprattutto in quest’ultimo settore le possibilità sono enormi. E le grandi lobby già stanno investendo in questi comparti. Sanità, scuola, assistenza agli anziani, messa a profitto dei beni comuni come l’acqua devono prevedere il rilancio dell’azione pubblica nella loro gestione. E qui la nostra città è maestra su cosa non si debba fare per creare posti di lavoro.  I soldi della cassa depositi e prestiti destinati  allo stadio,   potrebbero essere indirizzati  ad un fondo per i piani di occupazione. Fondo  implementato da altre entrate, provenienti da altre linee di finanziamento ,  i  fondi sociali europei ad esempio.  Mi pare che ci sia l’assessore preposto, quando non dorme. Tale fondo potrebbe finanziare progetti finalizzati al recupero e valorizzazione degli edifici già esistenti, (scuole, asili)  la bonifica e la riqualificazione del territorio, volta a prevenire il dissesto idrogeologico. Altra occupazione si potrebbe ottenere finanziando progetti che impiegassero addetti nella valorizzazione del patrimonio storico culturale ed archeologico. Insieme ai piani per il lavoro, il Comune potrebbe reinternalizzare i servizi alla città,  che ad oggi vengono affidate a privati secondo una logica per altro economicamente svantaggiosa,  ma che richiama i concetti di ideologizzazione del lavoro in senso neoliberista già illustrati. Per allargare lo sguardo bisognerebbe produrre buona occupazione nella gestione della sanità, della cura agli anziani,  un fattore importantissimo in una società che tende ad invecchiare. Ripeto, non lascare che le attività di riproduzione diventino business per le lobby assicurative, ma usarle per generare buona occupazione attraverso il finanziamento pubblico. Per tornare alle attività produttive, è necessario reindirizzare i piani industriali, rivoluzionare cosa produrre e come produrlo. E’ necessario l’intervento dello Stato per finanziare aziende orientate alla produzione di energie rinnovabili. Oppure agevolare la filiera della conversione a freddo  e del riuso dei rifiuti. E’ necessario,   inoltre, che  la pubblica amministrazione, oltre a cofinanziare tali progetti ne segua i piani industriali, magari anche con il coinvolgimento dei lavoratori, per verificare che soldi pubblici stiano producendo buona economia e buona occupazione.
REDISTRIBUZIONE DEL LAVORO
Affianco alla definizione di nuovi modelli produttivi bisognerà  porre  mano ad una seria redistribuzione del lavoro.  In una fase in cui gli straordinari sono detassati, pur in un contesto di limitata offerta di lavoro,  si produce l’incoerente fenomeno per cui  pochi lavoratori   operano secondo orari di  impossibili e molti lavoratori   rimangono a casa. La tassazione agevolata degli straordinari produce disoccupazione per 500mila addetti l’anno. Inoltre l’utilizzo del contratto par time  spesso viene imposto dall’azienda e subito dal lavoratore. “Lavorare meno lavorare tutti” si diceva una volta. L’ideale sarebbe una riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario. Ma non credo che le imprese, a meno che non si faccia una rivoluzione, siano disposte  ad accettarlo. Né sarebbe conveniente per i lavoratori subire la diminuzione salariale in funzione di un tempo di lavoro ridotto. La soluzione è calibrare il carico fiscale  e contributivo sul salario in base all’orario di lavoro, alleggerendolo per gli orari ridotti e aggravandolo per quelli a lunga durata. Più specificatamente va  prevista una fascia oraria e il reddito monetario corrispondente  esente da tassazione, tanto per il lavoratore che per l’impresa. Per orari di lavoro più lunghi gli oneri contributivi aumenteranno  fino a corrispondere a quelli attuali per le 40 ore settimanali. Per orari superiori l’incidenza fiscale s’incrementerà  per ogni ora di lavoro in più prestata. In questo modo le aziende saranno  indotte a riorganizzare il loro processo produttivo in modo da distribuire i  lavoratori per le diverse durate di lavoro  per sfruttare, o il vantaggio fiscale degli orari più brevi, o la migliore produttività dei lavoratori con orari più lunghi. La struttura degli orari riacquista quella funzione necessaria per rispondere flessibilmente alle necessità produttive.  Per quanto riguarda i lavoratori. Il reddito sarà in questo caso una combinazione fra salario privato (remunerazione dell’attività lavorativa)  e salario pubblico ( derivante dell’esenzione fiscale contributiva . Nel caso di un orario ridotto la remunerazione privata sarà inferiore, ma aumenterà la remunerazione pubblica in termini di esenzione fiscale,  per orari più lunghi aumenterà la remunerazione privata, e diminuirà quella pubblica per l’effetto dell’aumentata imposizione fiscale. Per concludere questa lunga trattazione, come ho dimostrato è possibile fermare il declino del lavoro e del reddito, ma bisogna innanzitutto che il reddito derivi per la maggior parte dal lavoro e non dal profitto come avviene oggi. “Più lavoro, meno profitto questa" è la formula. Il lavoro come elemento di promozione della dignità umana e non variabile del costo di produzione.

Frosinone - Resa dei Conti a Sinistra (RdC/S) - preview

Il video che vi presento è solo una preview del dibattito che si è svolto ieri 25 giugno 2015 a Frosinone, presso la sede dell'associazione Oltre l'Occidente. Relatori Luciano Granieri, il sottoscritto, Aniello Prisco (m5s), Ivano Alteri (unoetre.it), Daniela Bianchi (PD), Francesco Notarcola.

Le riprese video integrali degli interventi sono in corso di montaggio. In questo post una breve anteprima del confronto, che mi piace rinominare "Resa dei Conti a Sinistra" alias RdC/S. I successivi post nei quali inserirò, nei prossimi giorni, gli interventi dei relatori e degli ospiti, avranno tutti per titolo questo acronimo seguito dal nome della persona che parla.

Credo che una dura e aspra Resa dei Conti a Sinistra sia ormai improcrastinabile, che ciò piaccia o meno. Il PD si avvia alla scissione e potrà partire da una base minima di almeno 600mila voti, quanti sono gli insegnanti, per non contare i familiari e i congiunti; Il Grexit, o in alternativa l'umiliazione dei greci, costringerà tutti quelli che si definiscono "di sinistra" a confrontarsi e a misurarsi sui problemi reali, al netto di chiacchiere e distintivo.

«Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l'Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.» [John Donne]

giovedì 25 giugno 2015

Un sistema di autorità per la competitività per la zona euro

12 occorrenze del termine "competitività" in poche righe!


Dalla relazione di: Jean-Claude Juncker, in stretta collaborazione con Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz. [Pagina 9]

La governance della zona euro è ben solida in materia di coordinamento e sorveglianza delle politiche di bilancio. Deve essere migliorata nel più ampio settore della “competitività”, che sta acquisendo una crescente centralità. Il semestre europeo e la creazione della procedura per gli squilibri macroeconomici sono un primo passo per colmare questa lacuna, ma  occorre fare molto di più per garantire che tutti gli Stati membri migliorino la loro competitività nel quadro dello stesso slancio.

Si raccomanda la creazione da parte di ciascuno Stato membro della zona euro di un organismo nazionale incaricato di monitorare i risultati e le politiche in materia di competitività. Un tale organismo contribuirebbe a prevenire divergenze economiche e accrescerebbe la titolarità delle riforme necessarie a livello nazionale. Queste autorità per la competitività dovrebbero essere soggetti indipendenti con il compito di “stabilire se l’evoluzione delle retribuzioni sia in linea con quella della produttività [...] [e] raffronta[rla] con l’evoluzione in altri paesi della zona euro e  nei principali partner commerciali con economie simili”, come già convenuto da un’ampia maggioranza di Stati membri con il Patto euro plus. Inoltre, questi organismi potrebbero essere incaricati di valutare i progressi delle riforme economiche miranti ad accrescere più in generale la competitività. In definitiva un’economia competitiva è un’economia in cui le istituzioni e le politiche consentono alle imprese produttive di prosperare. A sua volta, lo sviluppo di queste imprese favorisce l’espansione dell’occupazione, degli investimenti e degli scambi.

Il sistema di autorità per la competitività della zona euro, che dovrebbe riunire questi organismi nazionali e la Commissione, coordinerebbe le azioni delle autorità nazionali per la competitività su base annuale. La Commissione dovrebbe poi tener conto dell’esito del coordinamento quando decide in merito alle azioni nell’ambito del semestre europeo, in particolare per la sua analisi annuale della crescita e per le decisioni da adottare nell’ambito della procedura per gli squilibri macroeconomici, nonché per decidere se raccomandare l’avvio della procedura per gli squilibri eccessivi.

Le autorità per la competitività 

La finalità delle autorità per la competitività non dovrebbe essere l’armonizzazione transfrontaliera delle pratiche e delle istituzioni incaricate della formazione dei salari. Si tratta di processi che variano notevolmente all’interno dell’UE e che giustamente riflettono le preferenze e le tradizioni giuridiche nazionali. Sulla base di un modello comune ciascuno Stato membro dovrebbe decidere l’esatta composizione della sua autorità nazionale per la competitività, che dovrebbe essere soggetta al controllo democratico ed essere indipendente nel suo operato. Gli attori nazionali, come le parti sociali, dovrebbero continuare a svolgere il loro ruolo secondo le procedure in vigore in ogni Stato membro, ma dovrebbero considerare il parere dell’autorità come guida nel corso della contrattazione salariale. Alcuni Stati membri, come i Paesi Bassi e il Belgio, già dispongono di una tale autorità. 

Una procedura per gli squilibri macroeconomici più forte

La procedura per gli squilibri macroeconomici, creata nel pieno della crisi, è parte del semestre europeo, il ciclo annuale di comunicazione e sorveglianza delle politiche economiche dell’UE e nazionali. Essa serve da strumento di prevenzione e correzione degli squilibri prima che sfuggano al controllo. È diventata un  meccanismo vitale per la sorveglianza europea, ad esempio per prevenire bolle immobiliari o per individuare la perdita di competitività, l’aumento dei livelli del debito pubblico e privato e la mancanza di investimenti. Occorre sfruttarne tutto il potenziale. È necessario intervenire, in particolare su due fronti:
  • dovrebbe essere utilizzata non solo per individuare gli squilibri ma anche per incoraggiare le riforme strutturali mediante il semestre europeo. Il suo braccio correttivo dovrebbe essere utilizzato con incisività. Dovrebbe essere avviata appena vengono individuati squilibri eccessivi e dovrebbe essere utilizzata per monitorare l’attuazione delle riforme;
  • la procedura dovrebbe inoltre individuare meglio gli squilibri della zona euro nel suo complesso e non solo quelli di ogni singolo paese. A tal fine, è necessario continuare a concentrarsi sulla correzione di disavanzi esterni deleteri, dato il rischio che essi comportano per il corretto funzionamento della zona euro (ad esempio, sotto forma di “arresto improvviso” dei flussi di capitale). Allo stesso tempo la procedura per gli squilibri macroeconomici dovrebbe anche promuovere riforme adeguate nei paesi che accumulano in modo persistente consistenti avanzi delle partite correnti, se detti avanzi sono dovuti, ad esempio, all’insufficienza della domanda interna e/o ad un basso potenziale di crescita, in quanto anche ciò è importante per assicurare il riequilibrio efficace nell’ambito dell’Unione monetaria.

mercoledì 24 giugno 2015

OCCUPAZIONE E REDDITO, LE UNICHE COSE CHE NON AUMENTANO

Annunciazione annunciazione

FROSINONE: PER UNA CITTA' DA SERIE A - presso la Società Operaia Giovedì 25 giugno 2015 ore 20.30: OCCUPAZIONE E REDDITO, LE UNICHE COSE CHE NON AUMENTANO

Introduce Luciano Granieri

Come difendersi dai diktat delle politiche di austerità, rilanciando la gestione delle risorse e delle ricchezze locali con servizi pubblici e occupazione e reddito per tutti, in luogo della competizione tra poveri e discriminazione ai migranti.

Intervengono Fiorenzo Fraioli, Aniello Prisco, Ivano Alteri
Modera Ivan Di Santo

Mie brevi note


Vi avviso subito che non credo affatto che sia possibile uscire dalla crisi "rilanciando la gestione delle risorse e delle ricchezze locali con servizi pubblici e occupazione e reddito per tutti, in luogo della competizione tra poveri e discriminazione ai migranti" per la semplice ragione che il comune di Frosinone non batte moneta e non ha una Banca Centrale. Insomma, le politiche che si possono fare qui sono quelle già decise a livello nazionale su indicazione europea. Punto.

Nemmeno credo che la corruzione e il malaffare, che comunque sono notevoli, siano un aspetto rilevante del problema. Cercherò di spiegare perché, a mio avviso, se non distruggeremo l'Unione Europea, l'Unione Europea distruggerà noi. 
Fiorenzo Fraioli

martedì 23 giugno 2015

Il mondo di Alice e lo sputo di Planck

L'esperimento Alice (A Large Ion Collider Experiment) al CERN di Ginevra è ricominciato da qualche mese. Il suo obiettivo è quello di investigare le condizioni dell'universo nei primi istanti dopo il big-bang, circa 10-5 secondi.


Un momento! Ho detto "primi istanti dopo il big bang", ad un tempo pari a 10-5 secondi? E chi ha detto che 10-5 secondi sono veramente i primi istanti dopo il big bang? A dirla così, uno potrebbe pensare che manchi poco per arrivare all'istante zero, proprio quando il botto ebbe inizio, ma è davvero questo lo stato delle cose? Vi mostrerò che, al contrario, la fratta è ancora longa, molto longa, anche se 5 centomilesimi di secondo ci sembrano, a noi umani, un'inezia.

Cominciamo con il dire che il "secondo" è un'unità di misura il cui valore è stabilito da noi in modo arbitrario, ragion per cui il suo uso, in fisica fondamentale, ci costringe a usare dei multipli o dei sottomultipli. Ma possiamo domandarci: esiste un'unità di misura del tempo che possa essere considerata, in un certo senso, non arbitraria, in quanto "cablata" nelle leggi fisiche dell'universo fisico? Esiste cioè un "quanto temporale" la cui scelta come unità di misura sia coerente con le leggi fisiche fondamentali, e non semplicemente una scelta umana arbitraria?

La risposta è affermativa, si chiama il tempo di Planck. Il tempo di Planck è il tempo che impiega un fotone che viaggia alla velocità della luce per percorrere una distanza pari alla lunghezza di Planck.

Dice: me stai a cojona'? Che è 'sta lunghezza de Plank? Facciamo così: se siete proprio curiosi guardatevi quest'altro magnifico filmato:


Avete capito cos'è il tempo di Planck? No? Vabbè, non fa gnente. Sapevatelo, però, che è espresso nei termini di tre costanti universali: la costante di gravitazione universale di Newton (g), la costante di Planck (h) e la velocità della luce (c). Pace.

Posto che il tempo di Planck è il ticchettio naturale che segna il tempo dell'universo fisico, proviamo a metterlo in rapporto con il secondo, che è il ticchettio convenzionale con cui noi misuriamo il tempo. Certo, usiamo anche la settimana, il mese, l'anno, ma il "secondo" è una buona media con intervalli di tempo più piccoli che pure ci servono: il millisecondo, il nanosecondo (con questo ci misuriamo il ticchettio delle CPU dei nostri computer). Se il "secondo" è l'unità di misura del tempo naturale per le esigenze pratiche della nostra vita, quanto dura la vita media di un essere umano in secondi? Facciamo 85 anni? Abbiamo:

85 anni = 2.680.560.000 (2 miliardi 680 milioni 560 mila secondi)

Ora domandiamoci: se un tempo pari a quello di Planck fosse come un secondo, quanto sarebbe vecchio l'universo dopo 5 centomilesimi di secondo? Che è un tempo pari a quello per cui viene condotto l'esperimento di Alice, teniamolo a mente.

Il conto è facile: Per fare 5 centomilesimi di secondo servono 1,85E38 ticchettii di Plank e, se ognuno di essi fosse pari a un secondo, poiché in un anno ci sono 31.536.000 secondi, il risultato è...

2.19E+21 anni

Dunque se l'universo fosse un essere vivente che adotta il tempo di Planck come unità di misura del tempo (così come noi usiamo il secondo) allora un tempo dell'universo pari a 5 centomilesimi di secondo sarebbe l'equivalente, per noi, di 2.19E+21 anni!

Che è come dire che già dopo 5 centomilesimi di secondo l'universo era abbastanza cresciutello, non proprio una cosetta senza una storia. 

Insomma, siamo meno di uno sputo di Planck.

Dice: ma che te sei bevuto? Tranquilli, del normale vermentino.

p.s. dice: ma e la polemica politica? Quella, in questo periodo, mi diverto di più a farla qui.

Uhm uhm

Scusate, ma se la Grecia volesse uscire dall'euro, cosa farebbe nei giorni precedenti? Farebbe trasparire la notizia, o credere che l'accordo è vicino?

Vabbè, mi sono visto questo bel video dell'INFN - Laboratori nazionali di Frascati, e adesso vado sul cantiere della mia casa di campagna.

sabato 20 giugno 2015

Considerazioni di uno scapestrato

Io non sono un economista, quindi non sono tenuto a dare spiegazioni economiche: al massimo posso sub-divulgare. Però, per sub-divulgare, uno deve avere delle convinzioni, magari formatesi spigolando qua e là tra le opinioni di esperti, qualificati ma anche no.

Una fonte che, secondo la mia modesta opinione, è molto attendibile, è quella di Alberto Bagnai, alle cui spiegazioni cerco di attenermi quando sub-divulgo in pubblico. Ad esempio, quando giovedì prossimo (25-06-2015) parlerò in pubblico a Frosinone, la lettura dei fatti che esporrò sarà sostanzialmente quella offerta da Bagnai.

Sulla Grecia però comincio ad avere qualche perplessità, il che è un vero peccato perché mi toccherà parlare in pubblico davanti ai miei concittadini senza avere una solida convinzione proprio nei giorni in cui la crisi greca attraversa una fase acutissima. Scrivo questo articolo nella speranza che qualcuno, leggendolo, possa aiutarmi a schiarirmi le idee.

Il punto di partenza è il noto articolo di Bagnai I “salvataggi” che non ci salveranno, del 16 novembre 2011, nel quale ci veniva mostrato come il meccanismo fondamentale della crisi dei paesi periferici non fosse da ricercarsi in un eccesso di debito pubblico, bensì di debito privato. Questo è il grafico più esplicativo:


Concentriamoci solo sulla Grecia. Come si vede, mentre il debito pubblico, sebbene già alto, cresce in otto anni molto poco (qualche punto di pil), il debito privato esplode. Davanti a questi dati non si possono avere dubbi: la crisi greca, così come quella di tutti gli altri paesi periferici, deve essere in qualche modo correlata con l'esplosione del debito privato estero!

A conferma di ciò due anni dopo, in un discorso tenuto proprio ad Atene nell'aprile 2013, il vicepresidente della BCE Vítor Constâncio confermò la lettura dei fatti di Bagnai. Questi furono i dati forniti dalla BCE:



 Attenzione: la differenza quantitativa tra i numeri di Bagnai e quelli della BCE è nel diverso modo di presentare i dati. Non vi annoio con questo.

Tutto chiaro allora? Devo dirvi la verità: per me era, ed è, tutto chiaro per tutti i paesi considerati con... l'eccezione della Grecia, per la quale qualcosa non mi ha mai convinto. Attenzione, non sto dicendo che il problema greco non sia il debito privato estero, né che i greci siano dei fannulloni che sono stati causa del loro male, giammai! Sto solo dicendo che qualcosa non mi ha mai convinto, e aggiungo che ho sempre sospettato che questo "qualcosa" avesse a che fare con altro che non la sola econometria.

Tra ieri e oggi mi sono arrivate due segnalazioni da parte di due lettori del blog. La prima è un articolo di Alessandro Guerani (segnalato da Fabio Campedelli) in cui c'è questo grafico relativo all'import/export greco:


Come potete osservare la differenza tra export e import è deficitaria fin dagli anni sessanta, e inoltre dal 1999 al 2007 non sembra tale da giustificare un incremento del debito estero di quasi 70 punti di pil!

Una spiegazione, ovvia, è che, pur restando sostanzialmente costante lo scarto tra export e import, tuttavia i greci, avendo ormai l'eurone, erano diventati "credibili", ragion per cui i prestatori privati si sono precipitati ad offrire soldi con poche garanzie, contando sul fatto che qualcuno avrebbe pagato. Come in effetti è avvenuto. Resta però una domanda: chi ha finanziato per decenni, e perché, lo squilibrio strutturale della Grecia? Ossia, posto che ai greci, nei primi anni dell'euro, sono arrivati molti più soldi che in passato (che essi avrebbero speso male - e probabilmente hanno speso male!), chi ha continuato a finanziare il gap tra export e import? Per esempio: dal grafico si vede che nel 1990 questo gap era di ben 10 punti di pil - un'enormità - e nel 2008 (il momento peggiore) è stato di 15 punti di pil, ma solo per un anno, mentre in media anche negli anni dell'euro si è mantenuto sempre nell'ordine di 8-10 punti di pil. Dunque sempre un'enormità, e per decenni.

La risposta immediata è: l'arrivo della crisi distrugge la fiducia dei prestatori che chiedono al sistema bancario greco di rientrare. Che vi devo dire? La risposta è corretta, ma non mi ha mai convinto del fatto che spiegasse tutto, e così quando sono andato a sub-divulgare ho sempre evitato di parlare della Grecia. C'era, è vero, un'informazione che mi frullava nella testa, cioè il fatto che la Grecia ha, da quasi cento anni, la più grande flotta mercantile del mondo (lo sapevate?), ma non riuscivo a collegare i fatti.

Poi, questa mattina, l'amico Lello mi ha segnalato questo articolo: La Grecia: una superpotenza dell’export che non sa di esserlo?

Qualcosa è scattato nella mia testa. Ora è bene ricordare, ancora una volta, che io non sono un economista, che non dovete prendermi sul serio, che sono solo un sub-divulgatore... ecc. ecc. e dunque che, da questo momento in poi, se proprio insistete a seguirmi, entriamo in terreno ignoto.

Let'us take a walk on the uknown side


L'autore dell'articolo, tal Thomas Fazi, credo sia questo signore, non proprio simpatico ad Alberto Bagnai. Pazienza, noi coniughiamo il passato remoto del verbo masticare e tiriamo avanti.

Nell'articolo Fazi cita un paper di un economista svizzero, "Michael Bernegger, esperto di questioni finanziarie ed ex ufficiale della banca centrale svizzera" il quale sostiene che « i dati relativi alla bilancia commerciale e al PIL della Grecia sono completamente distorti dal fatto che le esportazioni relative all’industria della marina mercantile – dagli anni sessanta il principale settore economico del paese – sono drammaticamente sottorappresentate nelle statistiche ufficiali. Se le esportazioni del settore fossero conteggiate correttamente, sostiene Bernegger, risulterebbe che fino al 2008 la Grecia ha registrato un notevole e crescente avanzo delle partite correnti, superiore anche a quello della Germania nello stesso periodo; e che nel 2008 il PIL del paese era superiore del 15% rispetto a quello ufficiale.». Fazi cita un brano del paper: 

"La verità è che la Grecia è un paese con un’industria dell’export molto grande e competitiva. La sua flotta mercantile è da più di quarant’anni la flotta più grande ed efficiente del mondo. Il suo settore turistico è tra i più forti d’Europa. Tra il 1999 e il 2008 il paese ha registrato uno straordinario boom delle esportazioni. Nessun altro paese dell’Europa occidentale, ad eccezione della Norvegia, ha registrato un tasso di crescita delle esportazioni lontanamente comparabile a quello greco."

Credo che dobbiate leggervi l'articolo di Thomas Fazi, così mi risparmio di riassumerlo e procediamo più spediti.

Fatto? Ora diamo un'occhiata al Baltic Dry Index (indice dell'andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli): 


Notate qualcosa? E' vero o no che l'indice dal 2001 (entrata della Grecia nell'euro) cresce moltissimo, sebbene con violente oscillazioni? Secondo voi, agli armatori greci è convenuto o no entrare nell'euro proprio alla vigilia della crescita esplosiva del Baltic Dry Index? Io non sono un economista, ma suppongo di sì. Poi se sbalio mi corigerete, e non avrò problemi ad ammetterlo: tanto non sono un economista, e dunque non mi costa niente. Però la domanda ve l'ho fatta, e magari è utile.

Nell'articolo Fazi argomenta che "Da quando è scoppiata la crisi finanziaria il commercio estero greco sta vivendo una dinamica deflattiva estrema. I due shock petroliferi del 2007-8 e del 2011-14 hanno rappresentato un fardello enorme per tutta l’economia greca, non solo per la sua flotta mercantile. Nessun’altra economia avanzata, infatti, è dipendente dal prezzo del petrolio quanto quella greca. Questa dipendenza riflette la natura marittima del paese: oltre ad avere la più grande flotta mercantile al mondo, la Grecia ha migliaia di isole che possono essere raggiunte solo via nave o in aereo, e questo vuol dire alti costi di trasporto. Inoltre, l’elettricità sulle isole è generata esclusivamente per mezzo di centrali a olio/gas combustibile. Da cui la pressione deflattiva estrema – e solo in parte registrata nelle statistiche ufficiali, per le anomalie di cui abbiamo parlato – esercitata sul commercio estero del paese dall’aumento del costo del petrolio."

Correttamente, a mio avviso, Bernegger a proposito della crisi greca sostiene che "Si tratta, in sostanza, di un classico shock esterno causato dal drastico aumento del prezzo del petrolio dal 2007 ad oggi. Esso non ha assolutamente niente a che vedere con le dinamiche dei prezzi e dei costi interni della Grecia". Forse l'avverbio "assolutamente" è eccessivo ma, quanto al resto, da non economista penso che ci siamo.

Fazi continua ricordando che "la troika ha formulato una risposta completamente sbagliata: ad una deflazione esterna estrema ha risposto con una politica di deflazione interna altrettanto estrema, senza pari nella storia moderna". Fin qui ci siamo: quella greca è una crisi da shock esterno in un'area valutaria non ottimale, alla quale si è risposto come prevedono i trattati europei; con la deflazione interna (In realtà Fazi non lo dice che i trattati prevedono questa, e solo questa risposta - n.d.r.).

Non ci siamo invece con le conclusioni di Bernegger, allorché scrive: «Per prosperare, queste due industrie (navale e turismo - n.d.r.) hanno bisogno di un sistema bancario capace di garantire un’offerta di credito a tassi di interesse bassi e stabili, che solo la permanenza della Grecia nell’euro può garantire. Ma perché questo sia possibile, è necessario rompere subito il braccio di ferro con i creditori per evitare una corsa agli sportelli e il collasso definitivo dell’economia greca... di per sé, continuare con le politiche di consolidamento fiscale e le ‘riforme’ della troika non farà che aggravare il processo di deflazione da debito in corso».

Insomma: un'altra Europa! Peccato, perché se i dati sono corretti la tesi di Bernegger è molto interessante, ma alla conclusione manca qualche dettaglio. Io la riscriverei così:

«Per continuare a prosperare, i capitali impiegati in queste due industrie (navale e turismo - n.d.r.) hanno bisogno di un sistema bancario capace di garantire un’offerta di credito a tassi di interesse bassi e stabili, che solo la permanenza della Grecia nell’euro può garantire. Ma perché questo sia possibile, è necessario rompere subito il braccio di ferro con i creditori per evitare una corsa agli sportelli e il collasso definitivo dell’economia greca... di per sé, continuare con le politiche di consolidamento fiscale e le ‘riforme’ della troika non farà che aggravare il processo di deflazione da debito in corso».

Come vedete una correzione molto piccola, ma non marginale. Il grande capitale (greco nel settore navale, greco ma non solo in quello del turismo) ha un solo ed evidente interesse: restare nell'euro, al più trattando per addolcire un po' l'austerità, ma di uscire proprio non ne vede la convenienza. Anche nel settore turistico, sia ciò ben chiaro! Io ci sono tornato in Grecia, qualche anno fa, a Kos per la precisione, e quello che ho visto mi ha aperto gli occhi. In Grecia ci sono due industrie turistiche: quella a gestione familiare dei piccoli appartamenti, dei ristorantini, delle "zimmer", e quella dei grandi resort. La prima ha interesse a incrementare il numero di presenze anche a basso costo, la seconda segue una logica diversa! Il turismo dei grandi resort tutto compreso è fatto di enclaves, posizionate nei posti più meravigliosi del mediterraneo, in particolare nelle isole greche, all'interno delle quali gli "ospiti" spendono la maggior parte dei loro soldi, ed è bene che questi soldi siano spesi in valuta forte, non in una nuova dracma svalutata!

Dunque chi chiede un'austerità meno austera per la Grecia, di fatto difende gli interessi dei grandi armatori e dei capitali investiti nel turismo dei resort, non quegli del popolo lavoratore.

A ciò si aggiunga che una delle ragioni per cui la Grecia ha la più grande flotta mercantile del mondo è che gli armatori greci godono di un regime fiscale di assoluto favore che li avvantaggia nella concorrenza internazionale. Una cosa, io credo, che non deve far molto piacere ai loro concorrenti! Ecco perché una delle richieste dei creditori, ma non troppo pubblicizzata, è proprio la fine di queste eccezionali facilitazioni fiscali! Siamo, insomma, in piena guerra tra capitali con il popolo, in mezzo, che non gode degli introiti fiscali che costoro dovrebbero versare nelle casse dello Stato greco, ed è chiamato all'austerità per mettere una pezza ai casini combinati.

Andrà a finire con un compromessicchio le cui clausole più importanti resteranno nell'ombra, essendo improponibile, per ragioni geopolitiche, un default con l'uscita della Grecia dall'UE! La situazione sociale in Grecia resterà esplosiva, gli equilibri politici salteranno e non è escluso il peggio. A meno che l'economia mondiale non si riprenda, il Baltic Dry Index risorga, con esso i guadagni degli armatori greci i quali, a quel punto, faranno un po' di elemosina, quel tanto che basta per tornare a sostenere lo storico gap tra export e import dell'economia greca. Come si dice "adda passa' 'a nuttata" in greco moderno?

Naturalmente se sbalio mi corigerete.