venerdì 31 ottobre 2014

Fabio Frati - chi ci farà uscire dall'€uro?

Il gioco degli "anti" (di Truman)

Valentina Nappi
Un magnifico commento di Truman alla vicenda Nappi-Fusaro.

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Il gioco degli "anti"

Mi sembra di assistere ad un talk show, dove tutte le opinioni sono difendibili e alla fine il pubblico (il genere di pubblico che riesce a seguirli) se ne esce divertito e con le idee più confuse di prima. In alternativa se ne esce più convinto che mai delle "proprie" idee.
Fusaro gioca a fare l'anticapitalista e Nappi gioca a fare l'antifascista. Se dovessi ragionare come il pubblico dei talk show, sarei dalla parte di Fusaro, pur ammettendo che Nappi si difende bene. Ma non è mio interesse schierarmi e fare il tifo. Potrebbe anche essere divertente, ma il tempo a nostra disposizione comincia ad essere limitato. Il gioco degli antifascisti e degli anticapitalisti mi ricorda troppo la trappola delle contrapposizione destra-sinistra, che Fusaro espone, pur non chiamandola trappola. Una trappola è un meccanismo ne quale è facile entrare ma dal quale è difficile uscire, solitamente costruita per gli interessi di qualcuno. Non è necessario che la trappola sia materiale, anzi le trappole immateriali funzionano meglio.
Personalmente sono interessato a capire concetti e meccanismi, ma per capire il gioco degli "anti" funziona male, troppi possono essere gli opposti di qualcosa, un esempio dalla vecchia URSS:
Domanda: Cos'è il capitalismo?
Risposta: Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Domanda: E cos'è il comunismo?
Risposta: il contrario.
Nelle infinite possibilità dei contrari di un concetto, si aprono spazi per discussioni interminabili.
Preferisco tentare di partire da definizioni in positivo. Per il capitalismo, dopo innumerevoli definizioni estremamente complicate, mi è rimasta una frase di Peter Hoeg (Il senso di Smilla per la neve): "quella mistura tipicamente occidentale di cupidigia e ingenuità."
Essa rende l'idea di un fondamento estremamente semplice, che riesce ad avere impatto sulle masse. Poi può essere ricoperto con concetti più complessi, ad esempio il cosiddetto mercato. Su questo concetto preferisco Federico Caffè: « Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio.» Insomma il mercato è una creazione dello Stato più che il suo nemico. Un mercato che non sia regolato non è più un mercato, è un business mafioso.
E allora se si vuole combattere il "fondamentalismo del mercato" bisogna osservare che ciò che viene chiamato mercato di solito è solo un business ben distante dal mercato, perchè minore è la regolazione e maggiore è il profitto. Si dice mercato e si intende profitto (con la minore fatica possibile). In quest'ottica bisogna scardinare i legami tra gli individui, perchè maggiore è il legame tra gli individui e meno li si può sfruttare. La famiglia fa male al profitto.
Ma ciò che più fa male al profitto (mafioso) è il nomos, la legge, o meglio l'ordinamento giuridico. Da Hammurabi a Kelsen c'è una continua ricerca di combattere il profitto ingiusto tramite la legge, una legge che sia scolpita su pietra, resistente agli insulti, nota a tutti, interiorizzata, capita ed accettata. Nel continuo affinamento di una legge fondamentale (una Grundnorm) si esplica il combattimento tra i popoli e le elites parassite. E lo Stato è un'entità fondamentale per tenere saldo il nomos contro i parassiti.
Non sarà l'Europa a combattere questa battaglia per conto dei popoli, l'Europa di oggi è un consorzio di banche.
Nel frattempo la crescita del sentimento costituzionale all'interno delle popolazioni negli ultimi decenni è un grande progresso che pochi hanno trovato utile notare, perchè va contro il profitto. Ma la crescita c'è stata, e non è casuale che i continui sforzi dei ducetti e vicerè attuali puntino a demolire la nostra Costituzione.
Circa un anno fa hanno tentato di demolirla a partire dall'art. 138. Si sono inceppati e ci stanno riprovando in altra forma. Adesso il Parlamento si è inceppato nell'elezione dei giudici della Corte Costituzionale. Il loro nemico è la Costituzione. E la Costituzione è la nostra bandiera. Fin dai tempi di Hammurabi.

giovedì 30 ottobre 2014

A baby story

Nota di disambiguazione: A/Symetrix

Questo paese, dalla storia millenaria, merita di meglio di un bamboccio che finge di opporsi a un altro bamboccio speculando sulla vicenda dell'euro.

Il bamboccio in questione, per altro, è in ottima compagnia. La semplificazione sottesa, avallata dai cattivi maestri, è quella secondo cui "per salvare il mio paese sono disposto ad allearmi con Belzebù". Dimenticano, i cattivi maestri, che il Diavolo presenta sempre il conto!

E allora? Come riconoscere il Diavolo? Che ne dite di usare l'acqua santa della Costituzione italiana del 1948?


mercoledì 29 ottobre 2014

La guerra di secessione europea

Links correlati:
  1. 9 MAGGIO, SAN BEATO-2 / Due euro sono meglio di uno? [Luigi Zingales - Sole24ore 9 maggio 2010 ]
  2. Stiglitz: Germania fuori dall’euro o il continente sprofonda [Joseph Stiglitz - FQ 4 ottobre 2010]
  3. “Alla fine sarà Berlino a uscire dall’euro” [Luigi Zingales e altri - Foglio.it 28 ottobre 2014]


Los Calimeros discettano sulla soluzione che le élites stanno valutando per risolvere la crisi dell'eurozona: la sua divisione in due aree valutarie, una a guida tedesca e l'altra riservata ai paesi della periferia.

Questa ipotesi presenta due grossi problemi:
  1. La Francia non può far parte dell'euro del nord (north €uro, o n€uro) perché la forza della sua economia non glielo consente, e non vuole stare nell'euro del sud per ragioni di ruolo geopolitico
  2. La difficoltà, per le élites, di smontare la zona euro salvaguardando i principi di indipendenza della banca centrale e di libera circolazione di capitali/merci/servizi/persone

I sovranisti sono contrari sia all'indipendenza delle banche centrali, sia al principio di libera circolazione di capitali/merci/servizi/persone.


Per i sovranisti valgono due principi opposti alla visione liberista:
  1. L'emissione monetaria deve essere sottoposta al potere politico
  2. La circolazione di capitali/merci/servizi/persone deve essere controllata dagli Stati nazionali
Last but not least: gli Stati nazionali sono tali in virtù di un processo costituente che ha origine dalla volontà e capacità dei popoli di costituire entità statuali, e non possono essere sacrificati in nome di una pretesa maggiore efficienza dei processi economici, anche qualora questa fosse reale. Prima viene la salute della Patria, poi il mercato. 

lunedì 27 ottobre 2014

La leopòlda

Ma lo sapete, voi piddini entusiasti di Von Renzeyk, cos'è la leopòlda? Ah certo, è una stazione dismessa di Firenze. Dismessa quando? Nel 1860.

Si chiama "leopòlda" in onore di Leopòldo II granduca di Toscana che la fece costruire. Un brav'uomo Leopòldo, tutto sommato. Certo, non proprio un illuminista, ma nemmeno un reazionario: Leopòldo aveva un'anima riformatrice, e credeva nel progresso sotto la guida dei ceti privilegiati.

Quando si trattò di scegliere tra gli ideali di giustizia e uguaglianza e i privilegi della nobiltà, scelse, ovviamente, di difendere questi ultimi.

Perché ve ne parlo? Semplice, per far sapere ai piddini da dove viene il mitico nome "leopolda". Ci siete stati alla leopòlda, avete battuto le mani, vi siete entusiasmati? Bravi!

Voi che cambierete verso all'Europa (mo' penscia tu!),,, voi che siete il nuovo che avanza, voi che non vi farete fermare da chi vuole tornare indietro, voi dico, proprio voi, lo sapevate che Leopoldo II granduca di Toscana era un Asburgo, un Borbone e un Lorena?

'Nzomma, famigliuole dei quartieri bassi... diGiamo.

Alla leopòlda vi siete incontrati e contati, mica nel quartiere Stalingrado! Sarà pure un caso, ma i simboli contano. O no?

Con la doppia premessa che...

  1. dire che Gaio Sempronio Gracco voleva fare una patrimoniale è una boiata pazzesca
  2. affermare che due anni fa queste cose le dicevano solo lui e Claudio Borghi è una lieve imprecisione.
Quann'a'r resto c'ha raggione! (Ma molte delle cose che dice le ha imparate dall'ARS e da MPL, anche se lo nega)


Da wikipedia: "Durante la sua carica, oltre a confermare la legge agraria del fratello, Gaio Gracco fece approvare tramite plebisciti diverse leggi Sempronie: Lex de viis muniendis -piano di costruzioni di via per agevolare i commerci e dare lavoro alla plebe -de tribunis reficiendis, con cui si stabiliva la rieleggibilità dei tribuni della plebe; de abactis, con cui si toglieva l'elettorato passivo al tribuno destituito dal popolo, de capite civis che ribadiva il divieto di giudicare iniussu populiiudiciaria che stabiliva alcune regole per la formazione delle giurie nei processi per quaestiones e de suffragiorum confusione con la quale si prescriveva che la centuria prerogativa sarebbe dovuta essere estratta a sorte tra le 193 centurie dei comizi centuriati e non scelta invece soltanto tra le 80 centurie della prima classe (questa riforma verrà poi abrogata da Lucio Cornelio Silla). In seguito all'introduzione dei comizi tributi (rappresentanti del popolo) ed all'assegnazione delle province, Gracco propose nel maggio del 122 a.C. la concessione della cittadinanza romana ai latini e di quella latina agli italici. Fece inoltre passare la legge frumentaria che prevedeva la distribuzione di frumento a prezzo ridotto alla plebe urbana e si fece promotore della ripresa economica dell'area Cartaginese attraverso la fondazione di tre colonie. Importante, nel suo quadro di riforme fu anche la Legge Giudiziaria."

Quanto a Claudio Borghi, fulminato sulla via di Damasco dall'incontro con il vate dei Parioli, segnalo questa ricostruzione.

Ahò, Illo non fa politica! Una lieve contraddizione con i fatti, che non posso non perdonargli in quanto anch'io sostengo: NON LOQUI DE ILLO!

Addendum: una cosa di Illo mi gusta: va con la destra e gli fa discorsi di sinistra. Mi domando se questi se ne rendano conto. Me sa dde no...

venerdì 24 ottobre 2014

Mistero a 5 Stelle

Il M5S, per bocca di Beppe Grillo, ha ufficializzato la sua posizione sull'euro: occorre uscirne al più presto.

Chi scrive è stato un grillino della prima ora. Ma sono anche stato lesto nell'allontanarmene allorché, a dispetto del suo crescente successo , ho misurato una distanza incolmabile tra i miei convincimenti e la prassi e gli obiettivi politici del M5S.

Ne ho dato comunicazione pubblica con un certo ritardo (almeno un paio d'anni) con questo video. In particolare, muovevo al M5S due critiche: 1) il non avere una struttura né democratica né trasparente; 2) non aver preso posizione sul tema dell'euro e dell'UE.

A distanza di due anni da quel video (e almeno cinque dal mio volontario allontanamento dal M5S) la sortita di Grillo in occasione della kermesse romana del 12 ottobre 2014 mi ha colto di sorpresa.

La mia prima reazione è stata, ed è ancora, di diffidenza. Per una ragione semplicissima:

Ma come! Dopo anni di discussioni su Economia 5 Stelle (E5S) e altri forum, durante i quali in tanti ci siamo confrontati con miriadi di attivisti grillini convinti che non l'euro, bensì la castacriccacorruzione, fosse il vero nemico da combattere, adesso all'improvviso cambia tutto?


Uno straccio di spiegazione no? Un qualche resoconto di come si è passati da una posizione a quella opposta non è disponibile? Cioè scusate ragazzi, ma ci dobbiamo fidare a scatola chiusa? Cos'è, una scena tratta da 1984?

Il movimento cinque stelle è forse... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...  un mistero a cinque stelle?

giovedì 23 ottobre 2014

Dal "memorandum degli economisti europei (1997)" ai movimenti sovranisti.

L'anno era il 1997. Un gruppo di economisti europei, tra i quali alcuni italiani, scrisse un memorandum (Memorandum degli economisti europei - 1997) del quale ho tradotto l'introduzione. L'elenco dei firmatari è qui.

Sei anni dopo, nel 2003, un altro economista italiano (illo), che non figura tra i firmatari del suddetto memorandum, scriveva questo paper (Dynamic paths of the European economy: simulations with an aggregate model of the EMU as a part of the world economy) nel quale costruiva un modello matematico "(to) compare the dynamic paths of the European economy in the next five years (2003-2007) under a set of alternative scenarios".

Passano altri 11 anni ed oggi le posizioni (almeno quelle degli economisti italiani) sono lievemente mutate. Mentre i firmatari del memorandum del 1997, che pure possono toccare con mano come le loro previsioni si siano puntualmente avverate, continuano (chi più chi meno) ad auspicare politiche economiche a livello europeo meno restrittive nella speranza di salvare l'euro, proprio colui che, ancora nel 2003, appariva più possibilista, si è posto in una prospettiva radicale di abbandono della moneta unica.

Nel frattempo sono scesi in campo studiosi di altre discipline, prevalentemente giuridiche, i quali hanno integrato le analisi degli economisti dimostrando la completa incostituzionalità dell'intero processo di integrazione europea.

Dalla sintesi delle riflessioni degli economisti e dei giuristi sta nascendo un vasto movimento politico che, accogliendo una scelta terminologica proposta dall'Associazione Riconquistare la Sovranità (ARS), si definisce "sovranista".

La lettura del Memorandum del 1997, come del lavoro di illo del 2003, costituisce uno spunto interessante. Purtroppo entrambi i documenti sono in inglese, ragion per cui ho ritenuto di fare opera benemerita di divulgazione traducendo (almeno) l'introduzione del memorandum del 1997. Ci libereremo!


Memorandum degli economisti europei (1997): pieno impiego, coesione e giustizia sociale per l'Europa - Alternative all'austerità competitiva.


1. Introduzione: disoccupazione di massa persistente - La sfida del declino dell'Europa

Siamo preoccupati per la situazione sociale, economica e politica in Europa. Come economisti che lavorano in gran parte dei paesi membri dell'Unione Europea (UE) constatiamo con profonda costernazione come la disoccupazione nei nostri paesi sia cresciuta, e continui a crescere, a livelli intollerabili e senza precedenti, e come la politica economica non stia adottando misure energiche per contrastare questo sviluppo. In assenza di una reale politica dell'occupazione, la povertà e l'esclusione sociale nell'UE stanno ulteriormente crescendo, esacerbando le divisioni economiche e sociali, accrescendo le polarizzazioni, conducendo a una situazione di maggiore ingiustizia e disuguaglianza nella società. Questo sentiero di sviluppo minaccia la stabilità politica e le strutture democratiche e lascia spazio alla crescita di sentimenti xenofobi ed euroscettici. In questo momento l'UE sembra prigioniera di un circolo vizioso: una serie di giochi a somma negativa che si rafforzano mutuamente producendo crescenti e dannose conseguenze. A nostro avviso è necessario invertire questa tendenza e ristabilire un percorso a somma positiva, basato sulla cooperazione, da cui tutte le parti troverebbero giovamento.

Noi consideriamo l'attuale situazione come la conseguenza di una strategia economica che viene presentata al pubblico come l'unica valida, mentre riteniamo che essa poggia su basi teoriche molto controverse e, in misura sostanziale, assolutamente infondate. La si è spesso collegata al processo di integrazione europeo, e in particolare al trattato di Maastricht che domina la fase attuale
dell'integrazione europea, anche se, a nostro avviso, ci sono altri e migliori percorsi per l'unità europea.

Per molti governi i criteri di convergenza del Trattato di Maastricht sono oggi la fonte esclusiva degli
obiettivi di politica economica, e sono presentati come l'unica opzione politica in un contesto di globalizzazione. I bilanci nazionali sono limitati dal disavanzo e da rigorose restrizioni all'indebitamento; d'altra parte non c'è alcun segnale di un'adeguata corrispondente espansione del bilancio dell'Unione europea per compensare gli effetti di contrazione dell'attività economica e le conseguente distorsioni all'interno della Comunità. Nella prevista unione monetaria monetaria il controllo sarà affidato a una banca centrale indipendente cui sarà vietato finanziare qualsiasi programma di spesa pubblica e che ha, come obiettivo esclusivo, il controllo dell'inflazione. Certamente consideriamo il contenimento dell'inflazione come un obiettivo di politica economica, ma respingiamo l'idea che la stabilità economica altro non significhi che la stabilità dei prezzi e che la politica economica possa essere ridotta a misure deflazionistiche.

La disoccupazione, d'altra parte, viene considerata come il risultato di eccessive rigidità
nel mercato del lavoro e la responsabilità della disoccupazione è posta in capo ai lavoratori disoccupati, agli impiegati e ai sindacati. Il Consiglio economico e finanziario della Commissione europea sistematicamente ribadisce le sue raccomandazioni per una maggiore flessibilità sia dei salari che del mercato del lavoro.

Questi principi, che alcuni considerano come una politica transitoria per il raggiungimento della convergenza tra economie diverse entro il 1999, saranno perpetuati dopo tale data, secondo le disposizioni del Trattato di Maastricht rinforzate dal "patto di stabilità", firmato a Dublino nel dicembre 1996, che ribadisce che le restrizioni di bilancio e il controllo dell'inflazione sono l'essenza stessa di un'equilibrata politica economica.

Questa politica è coerente con una visione fondamentalista del libero mercato in quanto i suoi principali postulati sono: diminuzione del ruolo dello Stato e della società nell'economia, ristrutturazione fiscale a favore delle imprese e dei gruppi di reddito più elevati, continui aumenti della quota profitti sul reddito nazionale, abbandono di tutte le restrizioni alla libera circolazione internazionale dei capitali, un'ulteriore deregolamentazione dei mercati del lavoro. Queste sono le politiche neoliberiste che sono già state praticate per più di quindici anni nella maggior parte dei paesi dell'UE, che hanno ridistribuito i redditi nazionali in favore dei profitti, rafforzato e ampliato la presenza degli investitori privati ​​nello sviluppo dell'economia, e limitato la gamma delle scelte di politica economica a quelle approvate dai mercati finanziari. Hanno, allo stesso tempo, dimostrato di essere incapaci di controllare la crescita della disoccupazione, della povertà, della disuguaglianza e dell'esclusione sociale. Da una prospettiva radicale di mercato, tuttavia, la disoccupazione e
l'insicurezza non sono mali da combattere con la massima priorità; essi sono considerati effetti collaterali da trattare, nel migliore dei casi, con strumenti di politica sociale o, peggio ancora, come leve per scoraggiare ogni idea di resistenza da parte dei lavoratori dipendenti.

Questa strategia, oggi imposta a tutti i paesi che desiderano aderire all'Unione Monetaria nel 1999, sta creando il più grave rischio di deflazione dalla seconda guerra mondiale. Il deficit pubblico cresce a causa della caduta delle entrate fiscali; a ciò fanno seguito aumenti fiscali e/o ulteriori tagli alla spesa pubblica con un conseguente calo della domanda effettiva, occupazione più bassa, minor reddito e ulteriore diminuzione delle entrate fiscali, maggior deficit ecc, perpetrando così un circolo vizioso. La maggior parte dei paesi non riuscirà a soddisfare i criteri di convergenza ma, nel tentativo di riuscirci, i governi applicano misure di austerità che favoriranno ulteriormente la disoccupazione,
aumentando i deficit e le tensioni sociali. Inoltre la progettazione di un Europa a due velocità, in cui la principale enfasi di politica economica è posta sulla necessità di controllare l'inflazione, non promuove l'unificazione dell'Europa; salvo aggravare le disuguaglianze sociali e gli squilibri all'interno dei paesi membri, creare nuove divisioni e polarizzazioni, favorire l'insorgere di nuove barriere tra di essi e paesi terzi.

La disoccupazione è molto spesso una catastrofe individuale per coloro che ne sono vittime. E' una perdita economica e un onere per i bilanci pubblici; è anche un pericolo politico in quanto conduce a tensioni sociali, a strutture più autoritarie e, allo stesso tempo, a maggiore instabilità. Perciò noi consideriamo la disoccupazione come il problema sociale più urgente nella UE. Siamo particolarmente preoccupati che, allo stesso tempo, anche le modeste proposte per migliorare l'occupazione, che la Commissione ha fatto nel suo Libro bianco al vertice del 1993, sono in pratica state eliminate dall'agenda della politica economica europea.

Siamo contrari a questi sviluppi. La nostra critica, tuttavia, non è affatto anti-europea, come
viene talvolta rappresentata all'opinione pubblica. Non abbiamo nulla in comune con quei partiti e politici che rifiutano Maastricht per motivi nazionalisti - o perché il progetto dell'UEM non è abbastanza neoliberista. Respingiamo con forza tali atteggiamenti. Per noi, ogni strategia economica di successo deve avere una dimensione europea: a nostro parere la politica economica prevalente contribuisce più a un'ulteriore polarizzazione in Europa che non all'unificazione europea. Essa poggia su fondamenti teorici sbagliati e funzionali agli interessi di una minoranza, mentre sono dannosi per la maggioranza delle persone. Proponiamo pertanto una strategia economica alternativa per l'Europa che, attraverso il recupero dei livelli di occupazione, sicurezza sociale ed equità, costituiscano una base stabile per l'unità tra i popoli europei.

Siamo incoraggiati nel nostro approccio dal fatto che negli ultimi anni sono cresciuti, in diversi paesi, i movimenti che oppongono resistenza ai tagli sociali. Sosteniamo questa resistenza nella speranza di contribuire ad essa con le nostre capacità professionali. Come economisti europei sentiamo la responsabilità di criticare la ristretta visione economica che ha portato alle attuali errate e dannose politiche, e intendiamo dimostrare che - nonostante le tendenze alla globalizzazione - ci sono alternative a tali politiche. La argomentazioni in difesa della presunta  scientificità della visione radicale del libero mercato sono di fatto una caricatura dell'economia come scienza. Vi è infatti un dibattito tra gli economisti. Mentre il mainstream che domina l'ortodossia è ben lungi dal fornire un fondamento veramente scientifico per le politiche economiche degli ultimi dieci anni, ci rendiamo conto che anche gli approcci eterodossi della nostra disciplina hanno i loro limiti, e sono ben lontani dal presentare soluzioni per tutti i problemi. D'altra parte, elaborando alternative alle attuali strategie, gli approcci eterodossi contribuiscono ad ampliare il campo delle possibili opzioni politiche. Confidiamo nel fatto che, proponendo alternative, si possa sfidare il "pensiero unico" dominante nel pensiero economico tradizionale e contribuire ad un dibattito pubblico più ampio sulle modalità per la piena occupazione, il benessere e l'equità in Europa.

In questo memorandum intendiamo:

- Presentare una critica delle attuali strategie economiche, concentrandoci prima di tutto sui loro fondamenti teorici generali, e successivamente sulle loro applicazioni e conseguenze specifiche nel contesto europeo.

- Formulare obiettivi e proposte per una strategia alternativa in Europa che abbia, come le priorità politiche centrali, la piena occupazione, la tutela dell'ambiente, la sicurezza sociale e l'equità.

Con queste proposte - che si concentrano sugli aspetti monetari, fiscali, di politica del mercato del lavoro e sulla riduzione dell'orario di lavoro - non pretendiamo di coprire l'intera gamma delle necessarie opzioni politiche praticabili, né pensiamo che le nostre proposte abbiano raggiunto uno stato di completa consistenza. Laddove proponiamo misure politiche concrete, queste spesso servono come esempi per illustrare la direzione della nuova politica. Esse possono, naturalmente, essere sostituite da misure equivalenti, e devono essere integrate da altre;

- Concludiamo sottolineando che il cambiamento di strategia economica che proponiamo costituisce una sfida molto ambiziosa; esso richiede una progettualità politica profonda e differenziata; la sua attuazione su diversi livelli politici è un compito complesso che coinvolge sia lo sforzo intellettuale che l'energia politica e la mobilitazione necessaria per superare la resistenza dalle potenti forze che traggono vantaggio dalle strategie oggi prevalenti.

L'elenco dei firmatari è qui.

martedì 21 ottobre 2014

La resilienza dell'€uro (14)

L’Italia rampante (e note personali)


Il nuovo indirizzo di politica economica iniziò subito a dare i suoi frutti. Superata la fase più acuta della crisi mondiale, il PIL tornò a crescere, ma a tassi strutturalmente più bassi rispetto al decennio precedente. Il debito pubblico, invece, salì vertiginosamente, trascinato verso l’alto non da un aumento della spesa pubblica, sebbene la stampa dell’epoca (Repubblica in testa) grondasse di continui e disperati richiami alla necessità di operare tagli alla spesa pubblica, ma dagli interessi. La figura a sinistra è più che eloquente.

Se concentriamo la nostra attenzione sulla curva degli interessi, notiamo che questa presenta, negli anni che vanno dal 1980 al 1994, due fasi di rapida salita (1980-1983 e 1987-1993) inframmezzate da un periodo in cui si mantiene più o meno stabile. Entrambe le fasi di crescita sono strettamente correlate al quadro internazionale. Dal 1980 al 1983 la crescita degli interessi fu trainata dalla politica restrittiva americana, in risposta alla fiammata inflazionistica prodotta dal secondo shock petrolifero. Tuttavia, alla rapida discesa dell’inflazione (dal 21.2% nel 1980 al 4.7% nel 1987) non fece seguito, per l’Italia, una proporzionale riduzione degli interessi pagati sui titoli di stato, per l’esigenza di mantenere la lira entro i parametri dello SME: i riallineamenti delle parità del giugno 1982 (7% rispetto al marco) e del marzo 1983 (8% rispetto al marco) ebbero il solo effetto di arrestarne la crescita. Tuttavia, grazie alla ripresa dell’economia mondiale, anche quella italiana tornò a crescere. Dal minimo nel decennio dello 0.41% nel 1982, si ebbero una serie di annate positive (1983 1.17%, 1984 3.23%, 1985 2.8%, 1986 2.86%, 1987 3.19%, 1988 4.19%). Erano gli anni del primo e secondo governo Craxi, della barca che andava, del sorpasso dell’Inghilterra, del made in Italy, dei “capitani coraggiosi” (De Benedetti, Gardini, Benetton, Berlusconi), della cultura dell’effimero e della disco music.

Erano anche gli anni della mia gioventù. Nel 1985 ero stato assunto in Ansaldo, a Genova, insieme a centinaia di giovani ingegneri provenienti da tutta Italia, nell’ambito del piano Energetico Nazionale (PEN) che prevedeva la costruzione di sei centrali nucleari. Fui inquadrato in uno dei due dipartimenti che dovevano occuparsi dei sistemi di controllo e sicurezza della prima centrale da realizzare, quella di Trino Vercellese 2.  Ho un’infinità di ricordi di quel periodo, per me denso di nuove esperienze sia lavorative che personali, ma due di esse mi sono rimaste impresse nella memoria. La prima risale alla mattina del 26 aprile 1986. Ero in bagno intento a farmi la barba, nel difficile tentativo di recuperare un aspetto presentabile che nascondesse gli stravizi della sera prima, quando la musica della radiolina a pile si interruppe per un’edizione speciale del giornale radio. C’era stato un grave incidente nucleare a Černobyl', in Ucraina. Quando udii che il reattore era di tipo RBMK moderato a grafite la mia ansia raggiunse il colmo. Quel tipo di reattore, che è intrinsecamente instabile, era usato in Unione Sovietica per la produzione di plutonio per scopi militari. Chiamai subito mia madre e, dopo averle spiegato l’accaduto, le ingiunsi di barricarsi in casa, possibilmente tappando ogni possibile spiffero con stracci umidi. Mia madre, ovviamente, mi prese per pazzo e, per calmarmi, mi disse “la Russia è lontana”, al che io risposi “Mi avete fatto studiare? Adesso fate come vi dico io!”. Non vi tedierò con il racconto di come sarebbero potute andare le cose nel peggiore dei casi! Vi basti sapere che i venti soffiarono, in quei giorni, nella direzione di spingere la nube radioattiva verso le immense e quasi disabitate regioni della Russia centrale, e che solo una piccola parte della grafite prese fuoco. L’incidente ebbe l’effetto di indurmi a una profonda riflessione sulla scelta professionale che avevo fatto, il cui esito furono le mie dimissioni da Ansaldo, un anno e mezzo dopo.

Qualche mese prima che le mie dimissioni diventassero effettive tutti noi eravamo impegnati nel consolidamento degli stadi progettuali, come misura cautelare in vista del referendum sul nucleare il cui esito, si prevedeva, avrebbe posto fine al tentativo di costruire nuove centrali nucleari. Il carico di lavoro, ovviamente, andava scemando, ragion per cui avevamo più tempo per chiacchierare. Dall’inizio del 1987 i mercati azionari europei e americani erano in piena effervescenza e più di qualcuno dei miei colleghi si era dato al gioco di borsa. Tutte le mattine i fortunati che, avendo qualche risparmio, si erano lanciati nell’avventura, ci aggiornavano sugli andamenti azionari, mentre  io, che mi mangiavo lo stipendio fino all’ultima lira e dunque non potevo “giocare”, li ascoltavo rosicando un po’.  Smisi di farlo un giorno di ottobre del 1987, quando vidi la faccia di un giovane collega, che seguiva gli indici di borsa sul terminale, diventare bianca come un lenzuolo. Non so che azioni avesse acquistato, ma per il resto del tempo che passai in Ansaldo lo vidi sempre lavorare in silenzio, a testa china e senza l’ombra di un sorriso sul giovane volto.

All’inizio del 1988 ero tornato a Roma, questa volta in un’azienda di medie dimensioni che produceva componentistica elettronica e sistemi di telecontrollo. Pieno di entusiasmo e di energia sognavo di far carriera crescendo insieme all’azienda, al cui successo volevo contribuire. Non immaginavo che, meno di quindici mesi più tardi, l’azienda avrebbe chiuso e mi sarei ritrovato disoccupato.

domenica 19 ottobre 2014

ANCORA SUL DEBITO PUBBLICO

Ripubblico un articolo scritto per il blog Frosinone in vetrina.

Dopo l'ottimo articolo di Gianluigi Leone, a mia volta desidero svolgere sul blog di FIV, su invito dell'amico Giampiero Cinelli, alcune considerazioni sullo stesso argomento.
La crisi si è manifestata, in Italia come in tutta Europa, con un'imponente caduta dei corsi azionari, mentre proprio il debito pubblico raggiungeva un livello minimo del 103% del PIL per effetto di una lunga discesa iniziata nel 1994. La qual cosa dovrebbe far riflettere coloro che sostengono che la causa della crisi sia da ricercare nell'eccesso di debito pubblico. Si aggiunga a ciò che, tra i paesi cosiddetti PIIGS, nel 2007 la Spagna aveva un debito pubblico al 36% del PIL, e l'Irlanda al 25%. Anche il Portogallo aveva un rapporto debito/Pil simile a quello della "virtuosa" Germania, e comunque migliore della Francia. Solo la Grecia aveva un debito pubblico molto alto e in crescita tendenziale, ma fu ammessa ugualmente perché, secondo i dementi della moneta unica, ciò l'avrebbe aiutata a rimettere in ordine i suoi conti. Come è andata a finire lo sappiamo.
Torniamo all'imponente caduta dei corsi azionari. Un crollo di borsa è, mi pare evidente, il sintomo di una crisi del settore privato. Al quale, come storicamente è sempre accaduto, il settore pubblico finisce per rimediare. Da ciò l'improvvisa crescita dei debiti pubblici dei paesi entrati in crisi nel 2008. Che al momento sono solo i PIIGS, in attesa dell'arrivo della Francia e, udite udite, della "virtuosa" Germania. E' necessario guardare, e stamparsi bene nella memoria, i dati del crollo di borsa del 2008.
L'indice FTSE-MIB passò dal valore di 44364 del 18 maggio 2007, a 12621 il 9 marzo 2009. Una caduta del 71% in 22 mesi!
Questa è la fotografia di un clamoroso fallimento dei mercati privati! Tuttavia, poiché in Italia avevamo un numeretto, uno solo per altro, non in linea con i famigerati parametri di Maastricht, e cioè il debito pubblico, la servile stampa italiana ha cominciato a costruire la sua enorme menzogna battendo su di esso. Certo, in Spagna, Irlanda e Portogallo, i servi dell'informazione eurista hanno raccontato altre fandonie, ma da noi si sono attaccati al debito pubblico. Beppe Grillo compreso.
Ora c'è un piccolo particolare che, pur essendo tenuto nascosto, dovrebbe far risuonare un campanello d'allarme nella testa di chi ne viene a conoscenza, ma ciò non accade perché la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica non sa, semplicemente non sa, cosa sia un debito pubblico. Sto parlando del fatto che l'Italia è l'unico paese al mondo che può vantare un avanzo primario in surplus da almeno venti anni. Il surplus primario è la differenza tra entrate e spese dello Stato non considerando gli interessi sul debito pubblico pregresso.
Per spiegare l'enormità di questo dato (al quale ha accennato Leone nell'articolo precedente) occorre chiarire cosa sia il debito pubblico, e soprattutto analizzarlo nelle sue due componenti fondamentali: il debito pubblico detenuto da residenti italiani, e quello detenuto da residenti esteri.
Il debito pubblico è uno strumento finanziario che, in un paese a moneta sovrana, è classificato come risk-free, cioè privo di rischio. Un paese a moneta sovrana può emettere debito pubblico a bassi tassi di interesse reale (differenza tra tasso nominale e inflazione), quando non addirittura negativi, perché il mercato ha bisogno di ciò.
Ripeto: il mercato ha bisogno di strumenti finanziari risk-free. Ne ha bisogno per la stessa ragione per cui nessuno di voi investirebbe tutto il suo denaro in azioni, che come visto possono andare incontro a fortissime perdite. Dunque, nel portafoglio di un investitore prudente, una quota è costituita, sempre, da investimenti risk-free, cioè titoli di Stato. Lo scopo di un investimento risk-free è quello, ovvio, di "spostare al futuro, senza perdite né guadagni, il risparmio". Questo meccanismo ha funzionato in modo eccellente, in Italia, fino al famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia, messo in atto dalla coppia Ciampi-Andreatta nel 1981. Dopo quella data, a causa della rimozione dell'obbligo per la Banca d'Italia di acquistare i titoli di Stato eventualmente invenduti (evento che si era verificato raramente e per piccoli importi) gli interessi reali sulle emissioni di titoli di Stato salirono bruscamente, poiché a quel punto era il mercato, e non più lo Stato, a fissarli, a dispetto del fatto che lo Stato fornisse un servizio richiesto dal mercato.
Tuttavia quella decisione, da sola, non si sarebbe mai tramutata in un problema effettivo per il "sistema Italia", se ad essa non avessero fatto seguito ulteriori modifiche normative nella direzione di liberalizzare i movimenti di capitale. Per effetto di queste, a partire dal 1990 i titoli di Stato con interessi reali positivi (e anche di molto) furono piazzati anche all'estero, con il che il nostro paese ha visto una quota crescente del suo debito pubblico finire in mano a non residenti. Prima delle liberalizzazioni, infatti, i titoli di Stato, seppure con tassi di interesse reali positivi, non potevano essere venduti a non residenti: all'epoca lo spread era un concetto inesistente.
In sintesi: dopo il famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia si mise in moto un meccanismo di redistribuzione della ricchezza dalle tasche di chi pagava le tasse (in gran parte i salariati) in quelle dei detentori di capitali, che intascavano i rendimenti reali positivi per avere un servizio di cui avevano comunque bisogno, ovvero un investimento risk-free. In una prima fase, prima della liberalizzazione dei movimenti di capitale, questo travaso di ricchezza restò un fatto interno al paese, ma con le liberalizzazioni lo Stato italiano iniziò a retribuire risparmiatori non residenti utilizzando le tasse dei lavoratori residenti.
Eppure neanche questa evidente follia (nella quale ci sono, con tutta evidenza, un metodo e un fine) sarebbe insostenibile se l'Italia avesse una moneta sovrana. In fondo, se un paese ha la sua moneta può emetterla nella quantità che vuole e saldare così i suoi debiti! A rimetterci sarebbero i creditori, soprattutto esteri, i quali magari presterebbero con più accortezza.
La vera mascalzonata è stata la moneta unica, l'euro, concepita come una moneta senza Stato e affidata a un'entità indipendente, la BCE, i cui azionisti sono le Banche centrali dei paesi dell'eurozona, tutte a loro volta in mano a capitali privati. E così l'Italia, e tutti i paesi dell'eurozona, sono finiti in un meccanismo infernale nel quale ogni conflitto di interesse viene gestito in un luogo, il direttorio della BCE, dove quello che conta sono le quote azionarie, e non i voti dei cittadini! Una democrazia per quote azionarie, non più una testa e un voto!
Un vero colpo di Stato finanziario, non lo si può definire diversamente. Eppure è stato accettato, poiché è evidente che l'euro non ci è stato imposto con i cannoni. Perché allora? Come è stato possibile tutto ciò? E' veramente tutta e solo colpa dell'informazione cattiva, oppure c'è una qualche responsabilità anche nostra? Ne parleremo in un prossimo articolo. Per gli impazienti dirò che la colpa è stata anche nostra, ma per le argomentazioni dovrete attendere. Stay tuned.

giovedì 16 ottobre 2014

Broti a Pallarò

Zindesi goliardica dell'intervista di Romano Prodi a Ballarò del 16 settembre 2014.


Nota dell'Ego della rete: Romano, non ritirarti! Vieni a fare il sintaco a Castro dei Volsci! Saresti il migliore!

lunedì 13 ottobre 2014

L'art. 11 della Costituzione e il M5S

Articolo 11 della Costituzione:
«L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.»

Per fortuna i primi 12 articoli della Costituzione sono inemendabili. I servi di Maastricht (de destra, de centro e de sinistra, nun ce famo mancà gnente) se la devono tenere, e noi glielo possiamo sbattere in faccia. Il punto che ci interessa è il periodo in cui si stabilisce (suprema legge dello Stato, sia ben chiaro) che l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;".

C'è scritto "in condizioni di parità con gli altri Stati", e si fa riferimento a "limitazioni", non a cessioni di sovranità. Ma allora, se le condizioni devono essere di parità, com'è che la Commissione (bel termine mafioso) bacchetta l'Italia che non sfora nessun parametro, e nulla dice alla Germania che, al contrario, ha un surplus commerciale superiore al 6% del PIL, massimo limite ammesso? Come mai noi, che siamo in avanzo primario da venti anni, veniamo redarguiti e ci viene imposto di intervenire sul mercato del lavoro onde tagliare i salari reali, mentre la Germania, che ha allegramente fatto deficit superiori al 3% per tre anni consecutivi onde finanziare, a spese della fiscalità generale (tasse dei lavoratori), le riforme Hartz-IV allo scopo di tagliare i salari reali, non viene redarguita?

Perché la Commissione (bel termine mafioso) non impone alla Germania di alzare i salari dei suoi lavoratori, al fine di alzare la sua inflazione e ridurre, in tal modo, il suo spaventoso surplus commerciale?

Siamo in presenza di limitazioni di sovranità in condizioni di parità con gli altri Stati? Evidentemente no!

Ma se le cose stanno così, e stanno così come dimostrabile per tabulas, che bisogno c'è di indire un referendum per uscire dall'euro, come propone il capo ortottero? Ma come: siamo in presenza di una palese violazione della Costituzione e il capo ortottero, che con la Costituzione ci si sciacqua la bocca un giorno sì e l'altro pure, propone un referendum? Anzi, per essere più precisi: propone una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che istituisca la possibilità di indire un referendum?

Ma un bel vaffanculo no?

venerdì 10 ottobre 2014

La resilienza dell'€uro (13)

Il cambio di struttura


Sorge spontanea la domanda su come sia stata possibile una trasformazione profonda come quella intercorsa tra il 1978 e il 1990 senza che si manifestassero nel paese forti resistenze. E’ opportuno cercare di sfuggire alla tentazione di un approccio “complottista”, per tentare di inquadrare la situazione italiana nell’orizzonte più ampio del quadro internazionale. Il 1978 e il 1979 erano stati anni particolarmente favorevoli per l’economia italiana, con incrementi del PIL rispettivamente del 5,86% e del 3,43%. Anche la bilancia dei pagamenti era risultata in attivo, di 6997 e 1824 miliardi di lire, mentre il tasso di disoccupazione si manteneva stabile intorno al 7.6%. La vitalità dell’economia italiana era il risultato, complesso e contradditorio, della politica statalista del decennio precedente e dell’arrivo, sul mercato del lavoro, di una nuova generazione di imprenditori che, soprattutto nel nord-est, davano vita a una proliferazione di piccole imprese a conduzione familiare il cui successo si basava, oltre che sullo spirito di sacrificio e una grande inventiva, anche sull’ampio ricorso al lavoro nero. Gli italiani, inoltre, erano stanchi del terrorismo e degli scandali che periodicamente investivano la politica, ragion per cui si stava sviluppando nel paese  un clima favorevole all’impegno lavorativo e al consumo individuale.  Condizioni ideali per una ripresa di slancio della crescita, tant’è che si vagheggiò di un possibile secondo miracolo italiano. La doccia gelata arrivò dunque inaspettata. Il secondo shock petrolifero, nel settembre del 1979, riaccese l’inflazione. La risposta americana, come già detto, fu una dura stretta creditizia, operata da Paul Volcker nel triennio ’80-’83, che stroncò l’inflazione americana (sarebbe scesa dal massimo del 13.5% del 1981 al 3,2% del 1983) ma provocò una caduta generalizzata del PIL mondiale. L’economia italiana ne fu investita in pieno, scontando per sovrappiù criteri di programmazione economica stabiliti in funzione della crescita del biennio precedente. La crisi, indotta dalla stretta creditizia americana, fece letteralmente “saltare i conti”. In un anno, maggio 1980-maggio 1981, la produzione industriale diminuì del 10%, mentre si consumava un radicale cambio di rotta di politica economica, al quale fu opposta una debole resistenza, come dimostra l’episodio del “divorzio” (luglio 1981), consumatosi con un semplice scambio epistolare tra il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, e senza alcuna discussione parlamentare.  

Conviene ripercorrere alcuni dei fatti del biennio 1980-81 che segnarono una svolta nella politica del nostro paese.

La marcia dei 40000

Il 18 ottobre 1980 si insediava il primo governo Forlani, pochi giorni dopo la marcia dei quarantamila a Torino (14 ottobre 1980). Nello stesso periodo scoppiava il secondo scandalo dei petroli, che rivelava un gigantesco giro di malaffare che coinvolgeva direttamente i vertici delle Fiamme Gialle, accusati di aver sottratto al fisco ben 2000 miliardi di lire. Il 23 novembre 1980, infine, un terremoto di forte intensità sconvolgeva l’Irpinia, terra natale di Ciriaco De Mita, destinato di lì a breve a diventare uno dei protagonisti della politica italiana. Ci sono, in questi tre episodi, gli elementi di fondo che caratterizzavano la società italiana di quel periodo: 1) la disponibilità, espressa da una parte della classe lavoratrice, di chiudere la stagione dei conflitti esasperati per sperimentare nuovi percorsi di concertazione 2) la crescente degenerazione della macchina statale 3) l’entusiasmo solidale di un intero popolo che si precipitò in soccorso dei compatrioti colpiti dal disastro naturale.

Il primo elemento finì con l’essere sfruttato dalle classi dominanti per indebolire il sindacato, e avrebbe avuto il suo esito dodici anni dopo con le politiche di concertazione del costo del lavoro del tutto sbilanciate a sfavore del mondo del lavoro. D’altro canto, è pur vero che non vi fu, da parte dei partiti e delle organizzazioni popolari, la chiara percezione del pericolo insito nel proliferare di alti livelli di corruzione nella macchina statale, e anzi, davanti all’avanzata dell’ideologia liberista, invece di rivendicare con decisione il valore dell’imparzialità delle istituzioni rispetto ai conflitti di classe, partiti e sindacati di sinistra scelsero la strada di una difesa cieca, e senza una visione complessiva, di piccoli privilegi di categoria o di casta. Prese così l’avvio quel processo di disincanto e sfiducia verso tutto ciò che è pubblico che avrebbe caratterizzato i decenni successivi. L’entusiasmo solidale delle migliaia di italiani che erano accorsi in Irpinia per prestare soccorso si sarebbe trasformato, nel giro di un decennio, nella rabbiosa rivendicazione autonomistica della Lega Nord.

La marcia dei quarantamila giunse in un momento di duro confronto tra il governo e gli industriali. Questi ultimi chiedevano disperatamente una svalutazione della lira, che il governo Forlani non voleva concedere per rispettare gli impegni sottoscritti con l’ingresso nello SME. La sconfitta del sindacato, e il conseguente via libera ai licenziamenti, furono il segnale che, da allora in poi, gli aggiustamenti di competitività sarebbero stati trasferiti dalla svalutazione della moneta a quella del salario. Era la definitiva affermazione del modello dell’EUR.

La svalutazione monetaria, tuttavia, ci fu lo stesso. Il 22 marzo 1981, quando i mercati non se l’aspettavano, nell’ambito di un generale riallineamento dei cambi nello SME la lira svalutò del 6%.  La decisione fu accompagnata da un’ulteriore stretta creditizia, con l’innalzamento del tasso di sconto al 19%. Nelle considerazioni finali del 31 maggio 1981 Carlo Azeglio Ciampi dichiarò “Non è più tollerabile un’inflazione, la cui componente di fondo continua ad elevarsi e ci allontana dai paesi con i quali siamo uniti per storia e per cultura. Un’inflazione da nove anni non inferiore al dieci per cento, da due intorno al venti per cento… ha alterato l’essenza stessa della moneta, svuotandola in gran parte della sua funzione di riserva di valore, per lasciarle solo un’umiliata funzione di numerario e di mezzo di pagamento… il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della Banca Centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito”.
E ancora: “Ciò impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento, l’istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di tesoreria, la pratica dell’acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei BOT non aggiudicati alle aste”.

Come si vede, un programma di stampo monetarista, sul piano economico, e con evidenti risvolti antidemocratici, che tuttavia non ebbe il necessario risalto nel dibattito politico anche perché, dieci giorni prima, era esploso lo scandalo P2 (che di lì a poco avrebbe provocato la caduta del governo Forlani). Qualche mese dopo un’ondata di vendite investì la borsa italiana, costringendo il nuovo governo, guidato da Giovanni Spadolini, a chiudere la borsa italiana per una settimana. Seguirono provvedimenti di taglio della spesa pubblica e, il 4 ottobre 1981, una svalutazione della lira del 4% nell’ambito di un generale riallineamento nello SME.

Era insomma entrato in azione un meccanismo macroeconomico profondamente diverso rispetto agli anni settanta. La rivalutazione del dollaro americano deprimeva la domanda mondiale, penalizzando le nostre esportazioni, ma anche aumentando i costi per l’importazione di materie prime (soprattutto petrolio); l’aggancio allo SME creava tensioni valutarie che si scaricavano all’improvviso in occasione dei frequenti riallineamenti, quasi un antipasto di quello che sarebbe accaduto dieci anni dopo, nel 1992; i tagli alla spesa pubblica entravano nel linguaggio politico, mentre, trascinati dal dollaro forte, gli interessi pagati dal tesoro sui titoli di debito pubblico cominciavano a salire.  Quest’ultimo fenomeno, in particolare, si sarebbe rivelato ben presto esplosivo, perché la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitali avrebbe messo lo Stato italiano in competizione sul mercato dei capitali privati, nella ricerca di risorse finanziarie. La Banca d’Italia non solo non finanziava più i deficit con interessi reali negativi (di fatto creando moneta in funzione delle necessità del Tesoro), ma si ritirava dal ruolo di acquirente di ultima istanza.  Si realizzava quanto auspicato da Ciampi: la creazione di moneta diventava compito di un’entità (la Banca Centrale) indipendente dalla volontà dei governi, sebbene questo indirizzo fosse, per così dire, indorato con parole rassicuranti: “V’è chi crede che l’esercizio di questa autonomia in senso inflessibilmente restrittivo sia condizione sufficiente per assicurare l’equilibrio e per contenere gli stessi disavanzi pubblici. La tesi, se poteva esser vera in presenza di mercati atomistici e di un’amministrazione pubblica con peso e funzioni assai più limitati di quelli attuali, non è vera oggi. Non c’è una mano invisibile che operi un rapido e duraturo riequilibrio della dinamica salariale e del disavanzo pubblico in risposta al controllo della moneta”. Con queste parole, pronunciate nelle considerazioni finali del maggio 1981, Ciampi introduceva il tema della concertazione tra le parti sociali. Un’interpretazione più stringente della quale era già stata fornita da Mario Monti nel 1978 coniando il termine “politica monetaria d’anticipo”, sul modello della Bundesbank tedesca. Questa consisteva nel dichiarare in anticipo la quantità di moneta che la Banca Centrale era disposta a creare annualmente, così da condizionare la contrattazione tra sindacati e imprenditori. Insomma: tutto il potere al Capitale! 

mercoledì 8 ottobre 2014

La resilienza dell'€uro (12)

Il regime di libera circolazione dei capitali 

 

 A partire dal “divorzio”, un’imponente produzione legislativa trasformò completamente il regime finanziario seguito dall’Italia, ponendo fine a una condizione alla quale possiamo riferirci con l’espressione “repressione finanziaria”. Dal documento programmatico presentato all’Assemblea nazionale dell’ARS (PESCARA 15 e 16 giugno 2013) leggiamo:
Primo presupposto del regime di repressione finanziaria è che il risparmio dei residenti, cittadini o stranieri, famiglie o imprese, non possa uscire liberamente dall’Italia: chi intenda far uscire il proprio risparmio dall’Italia deve chiedere un’autorizzazione amministrativa. Questo principio oggi stupisce e insospettisce la persona comune, la quale, generalmente, ha l’animo e la mente conquistati da (oltre) venti anni di ideologia liberoscambista. Eppure è stato un principio vigente dagli anni trenta al 1990, quando fu abolito il controllo amministrativo sulla circolazione dei capitali. In particolare in Italia sono state vigenti dal 1956 al 1990 le seguenti disposizioni normative, contenute nel D.L. 6 giugno 1956, n. 476, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1956, n. 786: “Ai residenti è fatto divieto di possedere quote di partecipazione in società aventi la sede fuori del territorio della Repubblica nonché titoli azionari e obbligazionari emessi o pagabili all’estero se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 5, I comma); “Le cessioni, gli acquisti e ogni altro atto di disposizione fra residenti e non residenti, concernenti i titoli di credito di qualsiasi specie, non possono effettuarsi se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 6, I comma); “L’esportazione dei titoli di credito menzionati al precedente comma, nonché dei biglietti di Stato e di banca “nazionali”, può effettuarsi in base ad autorizzazioni ministeriali“ (art. 6, II comma); più in generale, “Ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e non residenti, esclusi i contratti di vendita di merci per l’esportazione nonché i contratti di acquisto di merci per l’importazione, se non in base ad autorizzazioni ministeriali. Ai residenti è fatto divieto di effettuare esportazioni ed importazioni di merci se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 2, I comma)”.

Lo smantellamento del regime di repressione finanziaria vigente in Italia è avvenuto attraverso una serie di interventi succedutisi per tutti gli anni ‘80. Nel 1983 venne presa la prima e forse più importante decisione, l’accantonamento del “massimale sugli impieghi”. Questo era uno strumento della politica creditizia che autorizzava lo Stato a fissare un limite massimo alla crescita dei prestiti bancari, sia globalmente che in riferimento a particolari categorie di prestiti. L’utilizzo del “massimale sugli impieghi” poneva sotto il controllo dello Stato il flusso dei prestiti bancari al mercato, consentendo di limitare la quantità di denaro che le banche potevano prestare senza che la Banca d’Italia dovesse, per ciò, alzare il tasso di sconto; questo impediva che un aumento dei tassi si riflettesse sui costi per la remunerazione del debito pubblico, anche perché le banche in possesso di liquidità in eccesso, non potendo espandere i loro prestiti oltre i limiti prefissati, non avevano altra scelta che acquistare titoli di stato, facendone scendere gli interessi. Inoltre, poiché lo Stato poteva profilare il massimale in base alle tipologie di prestiti (mutui piuttosto che prestiti commerciali, ad esempio), esso aveva il pieno potere di intervenire sul mercato per stroncare, sul nascere, ogni accenno di bolla. Quella immobiliare, che ha devastato l’economia spagnola e ha creato serie difficoltà anche nel nostro paese,  poteva essere repressa con un semplice atto amministrativo.

In Italia il controllo del credito attraverso il massimale degli impieghi era stato attuato dalla Banca d’Italia, per la prima volta, il 26.7.1973. Nel 1978, in vista dell’entrata nello SME, la portata di tale provvedimento venne attenuata, per poi abolirlo nel 1983. Esso venne ripristinato, seppur temporaneamente, in occasione dell’esplodere di gravi crisi valutarie (dal 16.1.1985 al giugno 1986 e dal 13.9.1987 fino al 31.3.1988) causate dalle difficoltà del nostro paese di sostenere il peso dell’adesione allo SME.

Un secondo strumento era il cosiddetto “vincolo di portafoglio”, consistente nell’obbligo, imposto dallo Stato alle banche, di “accrescere la quantità di titoli di stato in portafoglio per un ammontare minimo rispetto alla consistenza od all’incremento dei depositi”. In sostanza lo Stato, attraverso il vincolo di portafoglio, obbligava le banche all’acquisto di una quota minima di titoli del Tesoro contribuendo, anche per questa via, a mantenerne bassi gli interessi. Anche il vincolo di portafoglio, introdotto nel 1973 insieme con il massimale sugli impieghi, subì un’attenuazione nel 1978, sempre in funzione dell’entrata nello SME, e fu definitivamente revocato nel triennio 1986/1988 (adeguamento alle direttive CEE 566/1986 e 61/1988).

Oltre al massimale sugli impieghi e al vincolo di portafoglio, altre modifiche al regime di repressione finanziaria riguardarono l’abolizione degli strumenti volti a limitare la fuoruscita di capitali nazionali all’estero, come l’obbligo del “deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere” (abolito nel 1987) e il “divieto di investimenti all’estero a breve termine”, abolito nel 1990 con l’adeguamento alla direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine (d.m. 27.4.1990 n. 91, entrato in vigore il 14.5.1990).

L’insieme di tali provvedimenti appare particolarmente gravi ove si consideri il fatto che, in una fase di aumento generalizzato dei tassi di interesse, durante la quale sarebbe stato opportuno incanalare il risparmio delle famiglie verso impieghi domestici, si aprivano le porte all’esportazione legale di capitali alla ricerca del massimo rendimento. Negli stessi anni, giova ricordarlo, l’Italia dovette adottare una politica volta ad importare capitali esteri, pagando tassi di interesse sempre più elevati, per compensare lo squilibrio nei movimenti delle merci (e dunque il minor afflusso di valuta) conseguenza dei cambi fissi dello SME. Ovviamente l’aumento generalizzato dei tassi di interesse a livello mondiale, al quale non era possibile sfuggire proprio in virtù delle liberalizzazioni, produsse effetti depressivi sugli investimenti. Il Governo fu costretto ad intervenire sistematicamente in favore della grande industria, moltiplicando trasferimenti e sussidi, appesantendo ulteriormente il debito pubblico. L’effetto combinato sui conti dello Stato dell’adesione allo SME e della liberalizzazione del mercato dei capitali fu impressionante. Nel 1985, per la prima volta, il tasso medio pagato sul debito pubblico divenne maggiore della crescita del PIL. Per evitare gli effetti moltiplicatori insiti in questa circostanza si cominciò a parlare di riduzione della spesa pubblica.

Alla moglie di Pisistrato

Alla moglie di Pisistrato
La moglie di Pisistrato, tiranno di Atene, sdegnata e in lacrime invoca dal marito vendetta contro il giovane che ha osato abbracciare la loro figlia. Ma il marito risponde con moderazione e benignità: «Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama è per noi condannato?». Per i diversamente dantisti: «cosa dobbiamo fare ai nostri nemici se condanniamo chi ci ama?».
Un "carlino" - molossoide di piccola taglia

Una riflessione dedicata ai carlini... (molossoidi di piccola taglia), e al loro datore di lavoro, la moglie di Pisistrato.

Link correlati:

«Se tu se’ sire de la villa 
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite, 
e onde ogni scienza disfavilla,                                  

vendica te di quelle braccia ardite 
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». 
E ‘l segnor mi parea, benigno e mite,                        

risponder lei con viso temperato: 
«Che farem noi a chi mal ne disira, 
se quei che ci ama è per noi condannato?»

domenica 5 ottobre 2014

Intervista a Giacomo Bracci






Maschera del Grande vecchio
con berretto montenegrino
Le Brigate Sovraniste per la Costituzione, organizzazione di servizio appena sorta (siamo quelli che "montano il palco" agli eventi sovranisti...) portano a termine la loro prima sortita: un'intervista a Giacomo Bracci, giovane esponente della teoria monetaria moderna appartenente al gruppo Epic (Economia per i cittadini)

Abbiamo deciso di intervistare Bracci perché ci sembra che la sua lettura della teoria monetaria moderna ne implichi una torsione in direzione sovranista. Ma questa è, ovviamente, solo l'impressione di due umili operai addetti al montaggio di un palco...

Ecco a voi la prima delle tre parti in cui l'intervista è stata suddivisa.

Nota a margine: Il lavoro di "montaggio del palco" è stato curato da Simone Boemio e dal sottoscritto. Mentre si lavorava, ogni tanto ci si fermava e ci si faceva coraggio ripetendo il nostro motto: Agito, ergo sum!

venerdì 3 ottobre 2014

Lo spin professor

Link correlato: spin doctor

Devo purtroppo trasgredire al XXVIII assioma (non loqui de Illo). Ciò in ossequio a un principio di ordine superiore: ogni volta che parlerai irrispettosamente di me io ti romperò il culo.

Premessa


Scrive Bagnai sul suo blog: «E a dimostrare che tout se tient, proprio uno di questi cialtroni traditori ieri ragliava che non avevo messo la possibilità di commentare su Facebook perché "sento che sto perdendo colpi"! Eh già... Sta per uscire un mio libro col Saggiatore, mi cerca il mondo, in televisione spacco, i lettori del blog aumentano, ma sto perdendo colpi...».

Rilevo che la sua "intelligence" è stata poco accurata, poiché io non mi riferivo al fatto che sulla sua pagina FB non si possa commentare, bensì a quello in sé di aprire una pagina FB.

La "grande strategia" di Bagnai


Dai comportamenti e dalle parole del prof. Bagnai, sia nel post segnalato che in molti altri, emerge, a mio avviso, una strategia molto chiara. Egli si appresta a dare alle stampe il suo secondo libro, e successivamente a promuoverlo attraverso interviste sui media, sia televisivi che cartacei. Coerentemente con quanto va ripetendo da anni, Bagnai asserisce di essere unicamente interessato alla divulgazione della razionalità economica e della verità sui dati. Contemporaneamente attacca furiosamente tutti coloro che si sforzano di far rinascere la partecipazione politica dal basso accusandoli, udite udite, di voler fare "er partito", come se un tale obiettivo fosse sinonimo di insulsaggine. Non pago di ciò, il vate "pescarese" sostiene che la reale e sola motivazione di quelli che egli definisce cialtroni e movimentisti sia l'intenzione, a suo dire anche ridicola, di prendere un ascensore sociale, sfruttando l'attuale congiuntura politica ed economica nonché la dabbenaggine di coloro ai quali essi si rivolgono.

Simmetricamente, il Bagnai descrive sé stesso come persona del tutto priva di ambizioni che si spende per il bene del suo paese al costo di gravi sacrifici personali e di carriera accademica. Ribadisce spesso che non vuole fare "er partito" ma, curiosamente, aggiunge "non ora".

Sostiene di avere una folla di 3000 followers e, in virtù di codesto numero, di essere il più titolato a parlare, anzi l'unico, poiché coloro che egli ha identificato come suoi nemici, e tratta come tali, possono esibire, a suo dire, numeri molto più modesti. Insomma: il followerame di Bagnai è il più grosso di tutti!

Occorre chiarire, per amore di verità, che buona parte del followerame in questione è composto da persone che appartengono all'odiata schiera di quelli che vogliono fare "er partito", e tra costoro c'ero, fino a questa mattina, anch'io. Una semplice comodità per avere memorizzati, sulla mia posta elettronica, tutti i suoi post. Questa mattina mi sono cancellato e penso che, se lo facessero tutti quelli che vorrebbero fare "er partito", il followerame si restringerebbe non poco.

Il fatto è che la voglia di fare "er partito" alligna tra i followers di Bagnai, ed egli è costretto sovente a strigliarli. Ciò non ha impedito, e non impedirà, una lenta emorragia di soggetti che, pur rimanendo iscritti, e quindi conteggiati come followers, di fatto sono ormai militanti nelle numerose organizzazioni politiche sorte dal basso come funghi. Con sommo dispetto del nostro, che appare sempre più irritato da questa circostanza.

Dobbiamo tuttavia interrogarci sulla strategia di Bagnai. Nulla impedisce ai poveri di spirito (dei quali, si sa, è il regno dei cieli) di prestar fede alle dichiarazioni di disinteresse di Bagnai. Noi brutti sporchi e cattivi, però, non crediamo più alle favole, figuriamoci alla bontà innata di Bagnai!

Bagnai "spin professor"


Ritengo che Bagnai manterrà fede al suo impegno di non fare "er partito" perché saranno altri a farlo. Ad essi Bagnai fornirà supporto, indirizzando il consenso, anche elettorale, delle vaste platee mediatiche che gli verranno offerte dopo l'uscita del suo secondo libro. Ed è proprio questa prospettiva tattica che rende necessaria l'eradicazione, innanzi tutto all'interno del suo followerame, di tutti coloro che aspirano a diventare protagonisti in prima persona del processo democratico.

Come è facilmente intuibile, si tratta di un obiettivo assolutamente funzionale agli interessi profondi delle classi dirigenti, le quali temono oltre ogni misura proprio l'irrompere della partecipazione popolare nel meccanismo del consenso elettorale. A differenza di Paolo Barnard, che di questa manipolazione è stato, a mio parere, strumento inconsapevole, ma similmente a Grillo&Casaleggio che al contrario ne sono sempre stati edotti, anche Bagnai intende prestarsi a questa operazione. Con una differenza: il professore "pescarese" ritiene, in buona fede, di essere lui stesso parte delle classi dirigenti di questo paese!

Nessuno, dunque, può accusarlo di essere un venduto, per la semplice e lapalissiana ragione che non ci si può vendere a sé stessi. Certo, ci si può domandare se ciò che Bagnai crede di sé stesso corrisponda a verità, oppure se egli non coltivi, invece, la puerile convinzione di far parte delle classi dirigenti pur essendo, a tutti gli effetti, null'altro che "un idiot savant". Ma tutto ciò fa parte dell'analisi psicologica, che esula dall'ambito della politica.

Ai fini politici Bagnai deve essere invece considerato un pericolosissimo avversario. Abile, spregiudicato, capace di infingimenti, piagnone quanto basta per accalappiare la buona fede dei semplici, e tuttavia spietato coi suoi avversari, il "pescarese" è lo spin professor ideale per arginare, ancora una volta, la spinta dal basso della partecipazione popolare al processo democratico. Sarà usato, dalle vere classi dirigenti di questo paese, e premiato se saprà stare al suo posto, ma non sarà mai un vero leader politico. I suoi limiti psicologici, e caratteriali, lo condannano ad essere uno strumento dell'altrui volontà e, in mancanza di questa, una macchietta caricaturale. In definitiva, un idiot savant.