martedì 30 settembre 2014

L'euro ha ucciso la democrazia, o la morte della democrazia ha generato l'euro?

Saranno, quelli che ci hanno portato nell'euro, gli stessi che ci faranno uscire?

Sarà il PD di Renzi, quello stesso partito che ha voluto il MES, il pareggio di bilancio in Costituzione, il Fiscal Compact e, a breve l'ERF?

Saranno i militanti del PD, quelli che non li sveglia nemmeno il rombo dei cannoni alla frontiera Russa, che apriranno gli occhi, riconosceranno i loro errori e daranno ascolto alla razionalità economica?

Saranno le migliaia di piccoli imprenditori e bottegai d'Italia, gli stesi che hanno adorato Berlusconi e oggi Renzi, ma plaudono anche a Brunetta quando questi invoca il loro diritto di licenziare a piacimento?

Saranno i grandi boiardi d'Italia, quelli stessi che vollero, fortissimamente vollero, lo SME credibile e l'adozione dell'euro?

Saranno i giovani disoccupati, precari, ignoranti e distratti, gli stessi che fanno la fila per l'ultimo giocattolo della Apple?

Saranno i pensionati, quelli che si fanno i conti con gli anni che gli restano e non vogliono tentare l'avventura, anche perché non è che stiano poi tanto male?

Saranno i milioni di possessori di piccoli patrimoni accumulati raccogliendo le briciole della grande speculazione finanziaria?

Saranno i professori di scuola, quelli che quando gli fai notare che le LIM non funzionano, quando ci sono, ma intanto non ci sono più le lavagne tradizionali, ti guardano come fossi un mARSiano e continuano a dire che gli studenti sono indisciplinati?

Ecco, la situazione è questa. Resta la domanda: è l'euro che ha ucciso la democrazia, o la morte della democrazia ha generato l'euro?

La resilienza dell'€uro (10)

Il secondo shock petrolifero


Reza Pahlevi
Il rovesciamento del regime dello scià Reza Pahlavi nella seconda parte del 1979 bloccò la produzione petrolifera dell’Iran, innescando forti movimenti speculativi. Il prezzo del petrolio raddoppiò (con massimi pari al triplo rispetto ai valori ante crisi). Le conseguenze per l’Italia furono un aggravio sensibile della bilancia commerciale e il riaccendersi dell’inflazione che, dal 12.43% del 1978, risalì al 21.8% del 1980.

Questa volta, però, la risposta alle difficoltà avrebbe avuto un segno diametralmente opposto a quanto si era fatto nel corso degli anni settanta. Sul piano internazionale si impose una visione monetarista, ispirata alle teorie dell’economista Milton Friedman, mentre l’adesione allo SME comportò, per il nostro paese, una politica di tassi reali positivi sui titoli di stato che avrebbe causato l’esplosione del debito pubblico: infatti, non potendo più svalutare la lira nella misura necessaria, per sostenerne il cambio era necessario attirare capitali dall’estero offrendo rendimenti via via più alti, e sempre superiori all’inflazione!

Per quanto riguarda le conseguenze della svolta monetarista praticata dalla FED americana guidata da Paul Vocker occorre ricordare che, secondo questa teoria, l’inflazione dipende dalla quantità di moneta in circolazione, ragion per cui effettuando una stretta creditizia alzando i tassi di interesse sui prestiti bancari, scoraggiando quindi gli operatori economici dall’indebitarsi con le banche, l’inflazione scende. Quello che accadde fu che i capitali cominciarono ad affluire verso gli Stati Uniti, attirati dagli alti tassi di interesse, e il dollaro cominciò ad apprezzarsi trascinandosi dietro le monete europee. 

Luigi Spaventa
Come già detto, l’aggancio allo SME costringeva l’Italia a seguire il trend. Scrive Luigi Spaventa in un articolo su Repubblica del 22 agosto 1990: “Il disavanzo petrolifero dell' Italia triplicò fra il 1979 e il 1985, quando sfiorò i 30 mila miliardi… Fra '79 e ' 85 le importazioni nette in quantità diminuirono di oltre il 18%; l'indice del prezzo unitario delle importazioni nette espresso in lire aumentò da 100 lire nel 1979 a 368 nel 1985! Ma questo aumento del prezzo in lire non fu tutta colpa del petrolio. Se lo scomponiamo nelle due determinanti del prezzo in dollari e del cambio, troviamo che esso è dovuto: nei primi due anni ad un raddoppio del costo del greggio in dollari e ad una svalutazione del cambio lira-dollaro del 37%; negli altri quattro anni ad una riduzione del costo in dollari del 20% e ad una svalutazione della lira del 67%. Sull' intero periodo, l'apprezzamento del dollaro sulla lira fu causa più importante della triplicazione del nostro disavanzo che non l' aumento della quotazione del greggio.”.


Gli alti tassi di interesse causarono una dura stretta creditizia con una drastica caduta della crescita del PIL e un aumento della disoccupazione. Fu la caduta del PIL mondiale, causata dalla stretta creditizia imposta dalla FED, a stroncare l’inflazione in tutto il mondo, mentre l’Italia, agganciandosi allo SME, inaugurava una linea di politica economica che esigeva una costante compressione dei salari reali per mantenere la competitività di prezzo delle nostre esportazioni. 

domenica 28 settembre 2014

Verrà il job's-act e avrà i suoi occhi

Definizione: Il NAIRU (Not Accelerating Inflation Rate of Unemployment) è, grosso modo, il tasso di disoccupazione che non provoca un aumento dell'inflazione.

Per essere più precisi: il valore del NAIRU di un sistema economico è calcolato in riferimento al PIL potenziale, ovvero quel livello di PIL ottenibile in presenza di un livello di disoccupazione tale da non provocare un aumento dell'inflazione. Per l'Italia l'OCSE stima oggi un valore vicino al 10%. Questo significa che, se pure il nostro paese sfruttasse in pieno il suo attuale potenziale economico, la disoccupazione dovrebbe restare maggiore del 10%, pena un aumento dell'inflazione.

Inflazione e disoccupazione


Vi è una correlazione stretta, e intuitivamente comprensibile a chiunque, tra il tasso di disoccupazione e l'inflazione:

  • Quando il tasso di disoccupazione è troppo basso i lavoratori possono facilmente chiedere aumenti salariali. Ciò provoca un aumento della velocità di crescita dei prezzi, e quindi dell'inflazione.
  • Quando il tasso di disoccupazione è troppo alto i lavoratori non possono chiedere aumenti salariali, e anzi sono costretti ad accettare paghe più basse pur di lavorare. Ciò provoca una diminuzione della velocità di crescita dei prezzi, e quindi dell'inflazione.
Si badi bene: ho usato (ed evidenziato nel testo) le locuzioni "aumento/diminuzione della velocità di crescita dei prezzi". Tali locuzioni devono essere ben comprese. L'inflazione, infatti, rappresenta la velocità con cui variano i prezzi. Dire che l'inflazione è del 2% l'anno significa dire che il livello medio dei prezzi aumenta del 2% in un anno. L'inflazione, dunque, è una velocità: variazione di qualcosa (i prezzi) diviso il tempo. A sua volta, una variazione di velocità è un'accelerazione, e il NAIRU misura il tasso di disoccupazione che non produce un'accelerazione dell'inflazione.

Normalmente un certo livello di inflazione è ritenuto indispensabile per il buon funzionamento di un sistema economico. La determinazione di tale livello, per così dire "ottimale", è spesso oggetto di lotta politica poiché per alcuni "interessi" conviene che sia più alto, per altri più basso. In questo articolo non ci occuperemo di ciò, focalizzando invece la nostra attenzione su un altro aspetto del problema, altrettanto importante.


L'inflazione nell'eurozona


Quando paesi diversi adottano una moneta unica in assenza di meccanismi fiscali di aggiustamento, cioè trasferimenti fiscali dai paesi in surplus ai paesi in deficit (che nella zona euro mancano del tutto), è necessario, per evitare squilibri, che in essi l'inflazione sia molto simile, e sostanzialmente identica nel medio periodo. I tassi di inflazione, cioè, devono "convergere" verso un livello comune.

Come ci ha spiegato molto bene l'innominabile cavajere dal suo blog, e come è stato poi riconosciuto dalle maggiori istituzioni economiche mondiali (dal FMI alla stessa BCE), dall'introduzione dell'euro si è assistito al permanere di differenziali di inflazione tra i paesi dell'eurozona. Si veda, ad esempio, questo eloquente grafico interattivo del FMI. che mostra i tassi di inflazione della Germania e dei paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna, Grecia).


Zoomando sul grafico si nota un particolare: la Germania, che fino allo scoppio della crisi era il paese con inflazione più bassa, è oggi quello con l'inflazione più alta, sebbene con un misero 1,4%. Tutti gli altri hanno un tasso di inflazione inferiore e, nel caso della Grecia, addirittura negativo (-0,4%).

Come detto i differenziali di inflazione, in assenza di aggiustamenti fiscali, innescano squilibri. In una prima fase, dal 1999 al 2008, essi hanno avuto un verso opposto a quello instauratosi dopo il 2008 per effetto delle politiche di austerità. Tuttavia, per correggere più rapidamente gli squilibri accumulatisi nella prima fase della vita dell'euro, sarebbe opportuno che la Germania aumentasse la sua inflazione ben oltre il misero 1,4% attuale, che è addirittura inferiore al tasso di inflazione previsto dal trattato di Maastricht!

Gli altri paesi, i PIIGS, dovrebbero ovviamente e contestualmente mantenere i loro bassi tassi di inflazione. Quello che è importante, sic stantibus rebus nell'eurozona, è infatti il differenziale di inflazione tra i paesi che hanno accumulato surplus e quelli che hanno accumulato deficit, non il livello assoluto. Ed è qui che entra in gioco il NAIRU.

La Germania, infatti, è disposta ad aumentare di qualche decimale il suo tasso di inflazione (sempre nel limite del 2%), attraverso la concessione di modesti aumenti salariali, solo e soltanto a condizione che i paesi che hanno accumulato deficit mantengano gli attuali bassi livelli di inflazione. Anche l'implementazione del piano Junker, che contempla modesti investimenti per la crescita (300 mld spalmati nell'arco di dieci anni suddivisi tra i paesi dell'eurozona), è subordinata alla richiesta che i paesi che hanno accumulato deficit non aumentino la loro inflazione. Ovvero che mantengano il loro tasso di disoccupazione ad un livello tale da non farla crescere. Come? Flessibilizzando il mercato del lavoro così da far scendere i salari, condizione necessaria affinché la disoccupazione possa diminuire. Il NAIRU, appunto!

Il job's act


Il grafico a lato (tratto da questo articolo) mostra il NAIRU e il tasso di disoccupazione effettivo per l'Italia e altri paesi. Nel caso dell'Italia, il gap tra la curva del NAIRU (in rosso) che si attesta da qualche anno al 10%, e la disoccupazione effettiva (blu scuro), è un indizio chiaro della caduta del nostro PIL al di sotto del suo livello potenziale. Il problema è che il nostro NAIRU è ormai troppo alto: se pure recuperassimo in parte il gap produttivo causato dalla crisi, e la disoccupazione cominciasse a scendere, non appena questa si avvicinasse al 10% ripartirebbe l'inflazione!

Al contrario la Germania ha un tasso di disoccupazione inferiore al suo NAIRU. Ciò significa che, sebbene la Germania produca un PIL superiore a quello potenziale, il suo mercato del lavoro non manifesta tensioni: i crucchi sono contenti di lavorare per meno di quanto potrebbero pretendere!

In definitiva, la questione delle tutele dei diritti dei lavoratori è cruciale. Il modello al quale siamo obbligati ad uniformarci, stanti gli attuali rapporti di forza, è quello tedesco. Ne segue che battersi contro il job's act significa opporsi all'Unione Europea, o quanto meno all'interpretazione teutonica di questa Europa. Questa è dunque una battaglia che può unire sia coloro che sono contrari tout-court all'Unione Europea e all'euro, sia coloro che sognano «un'altra Europa».

Ci sono due ulteriori riflessioni che è opportuno fare. Se osserviamo i grafici notiamo il più basso livello del NAIRU sia dei paesi anglosassoni che della Germania rispetto alla Francia e all'Italia. Notevole è anche il fatto che la Germania, nel 2005, avesse un valore simile a quello della Francia e dell'Italia, e che in seguito questo sia diminuito nettamente.

Relativamente alla prima osservazione, a mio parere ciò è in parte un indice della diversa struttura sociale dei paesi latini, nei quali le protezioni assicurate dal nucleo familiare assegnano ai lavoratori un maggior potere contrattuale, ovvero una maggiore capacità di resistere ai ricatti del mercato. Per la seconda, basta ricordare le famigerate riforme Hartz IV, che hanno avuto l'effetto di abbattere il salario reale dei lavoratori tedeschi del 10% in pochi anni.

Il caso particolare dell'Italia


Il grafico che riguarda l'Italia mostra un'anomalia. A partire dal 2008 il nostro NAIRU si impenna, passando rapidamente dall'8% al 10%. Ciò significa che che il mercato del lavoro italiano è diventato più rigido proprio con l'esplodere della crisi? La risposta sta nella definizione stessa di NAIRU: questo è il tasso di disoccupazione che non provoca un aumento dell'inflazione quando l'economia "gira" al massimo del suo potenziale produttivo. Ebbene, il nostro potenziale produttivo è drasticamente diminuito in conseguenza della crisi, ragion per cui l'anomalia in questione segnala non già un aumento delle rigidità del mercato del lavoro, quanto il fatto che la crisi ha colpito una struttura economica di per sé fragile per la cronica assenza di una seria politica industriale. In definitiva una responsabilità delle classi dirigenti, non dei lavoratori, sui quali però si intende scaricare i costi della crisi.

venerdì 26 settembre 2014

La nuova sede di eco/ego-dellarete

Los Calimeros inaugurano la nuova sede e spettegolano un po' di politica ciociara.

giovedì 25 settembre 2014

Pensierino della buona notte

Per come la vedo io, la Storia, come la vita di ognuno di noi, è governata da tre forze: la razionalità, la volontà e l'imponderabilità.


Addendum:
mi è venuta in mente, non so perché, la canzone più emozionante della mia gioventù (Gianfranco Manfredi "Ma chi ha detto che non c'è"):



Addendum bis:
Paolo Savona, in questo articolo su formiche.net, parlando dei ripensamenti di Luigi Zingales sull'euro, cita Guido Carli e Francesco Cossiga: «Nel suo scritto Zingales afferma, citando Keynes, che ha cambiato idea perché le cose sono cambiate. Io non sono d’accordo. Gli sbocchi negativi sono la risultante della governance europea sbagliata: res ipsa loquitur. Ho subito segnalato il fatto ai miei maestri Guido Carli e Francesco Cossiga nella mia memoria “L’Europa dai piedi di argilla”. Carli e Carlo Azeglio Ciampi convinsero Cossiga che l’Italia ce l’avrebbe fatta nonostante i difetti della propria architettura e di quella sovrapposta europea.»

Mentre noi sognavamo la palingenesi sociale, altrove si faceva una scommessa sbagliata sul nostro futuro. Che ciò non accada mai più. Augh!

lunedì 22 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (9)

Le “lievi anomalie” dello SME


L’introduzione dello SME diede luogo a lunghe discussioni sul modello da utilizzare per la sua realizzazione, il cui riflesso è rintracciabile nella stessa denominazione adottata, qualche anno più tardi nel trattato di Maastricht, per indicare la nuova realtà politica in costruzione. Il punto d’incontro tra la posizione federalista di Helmut Kohl, e quella francese che, orientata verso un assetto più centralistico, proponeva l’adozione del termine “Stati Uniti d’Europa”,  fu infine la scelta della denominazione “Unione Europea”.

Il problema era costituito dalla definizione dei meccanismi attraverso i quali “agganciare” i cambi reciproci delle diverse monete nazionali. La soluzione verteva sull’introduzione di una moneta, chiamata ECU, il cui valore fosse una media pesata in proporzione alle dimensioni delle economie dei paesi partecipanti. I francesi avrebbero voluto che questa moneta fosse reale, seppure non circolante, e che tale media fosse determinata variando, nel tempo, il peso delle monete partecipanti in base a quello delle economie sottostanti. Ad esempio, se l’economia dell’Italia fosse diminuita rispetto agli altri paesi, il peso della lira avrebbe dovuto diminuire proporzionalmente.  I tedeschi erano invece favorevoli ad un meccanismo in base al quale, una volta determinato il valore dell’ECU sulla base di un paniere pesato sulle dimensioni di ogni economia, le parità rispetto all’ECU sarebbero servite solo a determinare una griglia di parità bilaterali, in base alle quali determinare margini di intervento (bilaterali) coordinati dalle Banche Centrali dei paesi partecipanti, presi due a due. La soluzione che venne alfine adottata fu un compromesso tra le due visioni, che avrebbe favorito, negli anni successivi,  il persistere dell’ambiguità rispetto agli esiti finali del processo di integrazione: la Germania avrebbe continuato a guardare all’ECU (e successivamente all’euro) come ad una moneta al cui valore ogni economia avrebbe dovuto “adattarsi”, inizialmente attraverso svalutazioni/rivalutazioni esterne concordate, cioè attraverso variazioni dei rapporti di cambio bilaterali; successivamente, una volta introdotto l’euro, attraverso le svalutazioni interne (cioè compressioni del costo del lavoro).

La soluzione adottata stabilì che l’ECU fosse una moneta puramente scritturale, nella quale cioè non si potessero detenere riserve, definita sulla base di un paniere al quale concorrevano le monete nazionali in proporzione al peso delle economie sottostanti, e con soglie di intervento bilaterale determinate in funzione del peso di ogni economia. Alla prova dei fatti, tutti gli stati partecipanti adottarono soglie di oscillazioni rispetto alla parità centrale del ±2,25%, ad eccezione dell’Italia, alla quale fu accordata una soglia di oscillazione più ampia del ±6%.

Mitterrand e Kohl a Verdun nel 1984
La discussione sul modello da adottare per lo SME rifletteva da un lato l’entusiasmo della Francia, i cui obiettivi erano essenzialmente finalizzati alla costruzione di un’entità politica attraverso la quale contrastare gli Stati Uniti; dall’altro la diffidenza tedesca nel lasciarsi coinvolgere in un’iniziativa che, oltre a condizionarne la politica economica, rischiava di allontanare la prospettiva della riunificazione con la Germania Est. Sarebbe stato il crollo dell’URSS, un decennio più tardi, a convincere Kohl ad aderire al progetto della moneta unica, proprio in cambio dell’appoggio francese alla riunificazione. Ottenuta questa, la Germania ha potuto giocare la sua partita per l’egemonia in Europa. Con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti.

domenica 21 settembre 2014

Il "Grande Padulo" sarà una "Passera"?

Link correlato: Padulo (nociclopedia)

Video correlato



Ho letto con grande interesse un post di Claudio Martini sul blog Il Main-Stream dal titolo "Matteo Renzi farà la fine di Berlusconi?". Talvolta sono in disaccordo con Martini, ma in questo caso no. La sua analisi, secondo la quale il compito di Renzi è quello di attirare su di sé l'esecrazione generale (come fece Berlusconi nel 2011), per essere poi sostituito da qualcuno peggiore di lui (Monti, nel 2011, sostituì Berlusconi) mi appare del tutto plausibile.

Scrive Martini: «Nel 2011, con il pieno accordo delle istituzioni europee, Berlusconi tentò un attacco in grande stile nei confronti del lavoro italiano (vedi "Lettera della BCE"). Fallì, e fu sostituito (non che lui non fosse d'accordo). Al suo posto venne Monti, e riuscì a sferrare colpi durissimi a quanto rimaneva del welfare state di questo paese. Fu una specie di Trojka fatta in casa.».

La domanda che mi pongo è: chi, in questo replay, interpreterà il ruolo di Mario Monti?


Siccome passo il mio tempo a farmi i quartini a Castro dei Volsci (non è una fissa, è che la battuta mi diverte - n.d.r. link diretto al commento non disponibile) però, ciò nonostante, qualche volta ci azzecco (link 1 e 2), azzardo una previsione:

Il Grande Padulo sarà una Passera!
E che ce volete scommette? Tutti si aspettano un Padulo lungo e appuntito e invece... arriva una bella Passera! La quale, mi dicono, si sta già dando da fare.

Voci di corridoio mi informano che la Passera, proprio per far contenti tutti (è la sua vocazione) si presenterà anche come "sovranista". Una bella Passera "sovranista" che, per abbindolare (o tentare di) gli italiani farà appello alla Patria, al sentimento nazionale, all'orgoglio di un popolo. Peccato che, come sempre esigono le passere, bisognerà pagarla...

400 miliardi... mi dicono!

Imprenditori e operai uniti nella lotta

Non è forse vero che anche gli imprenditori, come gli operai, sono dei lavoratori? Cosa li distingue? La risposta è semplice: sono lavoratori che siedono su "postazioni" diverse. Va da sé che la "postazione" dell'imprenditore assicura un reddito, un ruolo e, in fin dei conti, un potere maggiore di quella dell'operaio o dell'impiegato.

In circostanze ordinarie le classi degli imprenditori e degli operai sono in conflitto.


Sappiamo anche che l'esito di questo conflitto è altalenante, per cui si alternano fasi nelle quali il ruolo e il reddito degli imprenditori cresce più di quello degli operai, e viceversa. Qualcuno potrà obiettare che gli imprenditori vincono quasi sempre, ma qualcun altro potrà asserire l'opposto. E' sempre una questione di punti di vista.

Sia gli imprenditori che gli operai hanno però un interesse comune: assicurare l'esistenza delle rispettive "postazioni". Chi ha i mezzi e le capacità (o la fortuna) per essere imprenditore sa che non può tirare troppo la corda, e addirittura ci sono stati casi in cui alcuni imprenditori particolarmente visionari hanno concesso più di quanto gli operai potessero conquistare. Ma anche chi deve (o vuole) accontentarsi del ruolo di operaio, sa di non poter tirare troppo la corda: il posto di lavoro deve essere conservato, accettando i vincoli che assicurano la vita dell'impresa.

Tutto ciò accade in circostanze ordinarie.

Ma sono, quelle che stiamo vivendo, circostanze ordinarie?


No, quelle che stiamo vivendo non sono circostanze ordinarie. Un nuovo attore, per altro sempre presente, ha occupato la scena crescendo in modo ipertrofico: la rendita. La rendita si è data sue istituzioni, le ha rese via via più potenti e influenti fino al punto di minacciare l'esistenza delle istituzioni democratiche che sovrintendono al tradizionale conflitto di classe tra imprenditori e operai.

Ora entrambe le classi, fieramente avversarie nel corso dei secoli, hanno un nemico comune. Non è solo la "postazione" dell'operaio ad essere minacciata, ma anche quella dell'imprenditore. Con l'aggravante, per quest'ultimo, che egli ha molto di più da perdere in termini di reddito, ruolo e potere. La caduta dell'imprenditore, nel momento in cui cessa di essere tale, è doppiamente grave. Non solo egli rischia di diventare in breve tempo un operaio, ma la situazione in cui si ritroverà potrà essere addirittura peggiore, e di molto, rispetto a quella che egli ha assicurato ai suoi dipendenti quando era ancora un imprenditore.

Gli interessi degli imprenditori e degli operai stanno dunque convergendo. Sta all'intelligenza delle forze politiche, quelle emergenti e non quelle che si sono vendute agli interessi della rendita, trovare il modo di costruire un'alleanza politica tra queste due classi storicamente avversarie. Se ciò avverrà la rendita sarà sconfitta. In caso contrario, prepariamoci al medio evo prossimo venturo.

venerdì 19 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (8)

L’adesione allo SME


Il 13 ottobre 1978, otto mesi dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, e cinque dopo le elezioni amministrative, il parlamento italiano discuteva dell’adesione allo SME.  Si fronteggiavano due posizioni: coloro che volevano entrare immediatamente nello SME, tra essi La Malfa (PRI), Malagodi (PLI), Pannella (Radicali), Romualdi (MSI), e altri, tra i quali Pietro Longo (PSDI), Lucio Magri (PdUP), Luciana Castellina (Democrazia Proletaria), Fabrizio Cicchitto (PSI), Giorgio Napolitano (PCI), Massimo Gorla (Democrazia Proletaria), i quali, in misura maggiore o minore, manifestarono le loro perplessità e i loro timori, quando non l’aperta ostilità. I gruppi della sinistra, insomma, erano tutti, chi più chi meno, contrari o dubbiosi, mentre l’adesione immediata allo SME era sostenuta in modo compatto dallo schieramento conservatore. Occorre precisare, però, che aldilà delle dichiarazioni rese, il PSI finì con l’astenersi, mentre il PCI chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l'impegno per l'adesione immediata dell'Italia allo SME), astenendosi sulla prima e sulla terza parte.

L’intervento più favorevole all’ingresso immediato dell’Italia nello SME fu quello di Giovanni Malagodi, segretario del PLI. Vale la pena riportarne uno stralcio, che risulta illuminante.
Noi pensiamo che gli investimenti dipendano anche dalla mobilità e dal costo del lavoro. Abbiamo preso atto a suo tempo della cosiddetta svolta sindacale dell’EUR, però fino ad oggi non abbiamo ottenuto alcun risultato pratico. Ci auguriamo vivamente che esso venga, e non nascondiamo che vediamo, nella nostra appartenenza allo SME, una specie di metro concreto con il quale misurare la fedeltà dei sindacati a questa loro proclamata nuova politica. Non è che il vincolo esterno possa in qualche modo forzarci (questa è una illusione!): la verità è - diciamocelo chiaro - che o noi facciamo questa politica interna finanziaria, del lavoro e degli investimenti in modo giusto e coerente con lo SME, oppure quello che potrà succedere al nostro paese sarà così grave che anche il fatto di uscire dallo SME non avrà più alcuna importanza; vi sarà un disastro nazionale, del quale l’uscita dallo SME sarebbe soltanto un dettaglio”.

C’è, in queste parole, il nocciolo degli interessi concreti, di bottega domestica, del capitalismo italiano: disciplinare (dopo la delusione della “svolta dell’EUR) le richieste di aumenti salariali e miglioramenti contrattuali con il ricorso a un “vincolo esterno”: lo SME all’epoca, successivamente la moneta unica. Ma c’è un altro passaggio sul quale è utile concentrare la nostra attenzione, allorché, all’inizio del suo intervento, Malagodi accenna al problema della “simmetria”:
Sugli aspetti monetari, vorrei formulare un’osservazione relativamente alla famosa simmetria. La simmetria, prima di tutto, va riveduta e messa a punto entro sei mesi e, quindi, non è una cosa già tagliata ed asciutta, come dicono gli inglesi, anzi, senza forse, lasciare alquanto elastica. Ci si può domandare se si possa veramente, nella realtà delle cose, paragonare, per esempio, il passaggio della soglia di divergenza da parte di un paese il quale pratichi una politica di contenimento rigoroso dell’inflazione, e quello di un paese che, ad esempio, si abbandoni a trascorsi inflazionistici sul tipo di quelli cui noi ci siamo abbandonati, e la stessa Inghilterra si è abbandonata qualche tempo fa, anzi non molto tempo fa, quando abbiamo raggiunto, entrambi, un’inflazione di circa il 2 per cento al mese, cioè il 24 per cento all’anno. E’ chiaro che siamo in presenza di casi diversi. E’ chiaro che il principio della simmetria è importante perché, in sostanza, significa la solidarietà fra i più forti ed i più, deboli, ma non è neppure un principio che possa essere applicato in modo astratto”.

Malagodi fa chiaramente riferimento al problema del coordinamento delle politiche economiche, ma ne critica “l’applicazione astratta”, perché vi sarebbero comportamenti per loro natura “virtuosi” ed altri che tali non sono. Va da sé che i comportamenti “virtuosi” siano quelli dei paesi che mantengono bassa l’inflazione, vale a dire quelli che meglio sanno “disciplinare i lavoratori”, dal che discende che, in caso di divergenza tra le inflazioni dei paesi aderenti, il peso dell’aggiustamento debba essere a carico di quelli con un’inflazione maggiore. Come? Comprimendo i salari, ovviamente. Non va bene il contrario, cioè che a ristabilire l’equilibrio sia un aumento dei salari nei paesi “virtuosi”. Viene spontaneo domandarsi perché, ai lavoratori di questi paesi, non debba essere riconosciuto il diritto a godere di aumenti salariali, ma la risposta, ne sono certo, è già dentro di voi: il vero obiettivo dello SME era quello di imporre una disciplina salariale, attraverso un vincolo esterno costituito, per il momento, solo dall’imposizione di cambi fissi tra le monete. Il vincolo esterno sarebbe stato rinforzato, e di molto, dai successivi provvedimenti: il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia e la completa trasformazione del Mercato Comune Europeo nel Mercato Unico.

Tra gli interventi favorevoli all’entrata nello SME è opportuno ricordare quello di Pino Romualdi del MSI.
"Il nostro è un documento semplice, di puro impegno al Governo di entrare immediatamente nel sistema monetario europeo, nello spirito e nella lettera di quei trattati di Roma del 1957 che noi abbiamo votato, mentre non sono stati votati dal partito comunista e nemmeno dal partito socialista, che oggi si trovano allineati in questa posizione... aggiungo che voteremo nello stesso spirito e nella stessa logica, dopo aver respinto i cappelli più o meno ridicoli e fumosi dell’antifascismo, a favore anche di quei punti delle risoluzioni che convalidano la nostra posizione positiva nei confronti dell’immediato ingresso dell’Italia nello SME, così come deve essere nelle speranze di ciascuno di noi, perché questa è la strada per il Governo per realizzare concretamente, e non a parole, l’Europa unita, capace di difendere i suoi popoli e i suoi interessi (Applausi dei deputati del gruppo del Movimento sociale italiano-destra nazionale - Congratulazioni)".

E con ciò possiamo definitivamente mettere a tacere quelle voci della destra contemporanea che tentano di accreditare una lettura dei fatti che ascrive alla sola sinistra la responsabilità della partecipazione italiana al processo di integrazione europea, così come è stato concepito e condotto dall’adozione dello SME in poi. La realtà è ben diversa: tutte le forze politiche, ad eccezione di Democrazia Proletaria che si oppose con estrema decisione, sostennero in modo più o meno convinto l’adozione di un regime di cambi fissi frettolosa e senza le necessarie garanzie per i ceti popolari, sia dei paesi più deboli che di quelli più forti. Questa realtà non può essere celata nemmeno dal fatto che, in sede di votazione, il PCI si espresse parzialmente contro, ma solo sulla seconda delle tre mozioni in cui aveva chiesto, e ottenuto, che il documento fosse diviso: quella relativa all’entrata immediata a partire dal primo gennaio 1979. Il PSI, pilatescamente, si astenne. Tuttavia le dichiarazioni a verbale dai relatori dei partiti della sinistra (tra i quali, “perfidamente”, ricordiamo Giorgio Napolitano) dimostrano come fossero ben presenti, ai dirigenti dell’epoca, le conseguenze per gli interessi del lavoro di quella scelta. Ecco altri stralci tratti da quella importante seduta:
Lucio Magri (Democrazia Proletaria): "Una prima considerazione da fare, di buon senso ma non ovvia, è questa: negli ultimi anni il deprezzamento della moneta e l’elevato tasso di inflazione non sono stati per l’economia italiana solo una manifestazione di crisi, sono stati anche il principale strumento di difesa rispetto alla crisi stessa. E' il deprezzamento della lira, infatti, che ha consentito una rapida espansione delle esportazioni senza grandi investimenti, senza nuovi settori trainanti e dunque con un contenuto tecnologico relativamente in declino; è il deprezzamento della lira che ha consentito anche una ristrutturazione industriale fondata prevalentemente sul decentramento produttivo, sulla piccola e medita impresa, sul lavoro precario. Ed è, infine, l’inflazione permanente che ha consentito, pur senza grandi trasformazioni strutturali, una poco appariscente ma sostanziosa redistribuzione del reddito interno e la compressione delle rendite, soprattutto bancarie ed edilizie. Che si trattasse di una soluzione illusoria, e comunque efficace solo nel breve periodo, è fuori di dubbio, e noi più di altri lo abbiamo sempre sostenuto. Quanto può reggere un equilibrio fondato sul fatto che si esporta sempre più per ottenerne in cambio, in termini reali, sempre meno, o sul fatto che un settore crescente dell’economia sopravvive a bassa produttività soprattutto grazie all’evasione fiscale e previdenziale o sul fatto che si comprime il reddito di certe zone o strati della società ma senza modificarne la fisionomia produttiva e proporre loro una nuova prospettiva di sviluppo?"

La posizione di Magri è improntata, oltre che all’ovvia considerazione che l’inflazione tende a favorire “una poco appariscente ma sostanziosa redistribuzione del reddito interno”, anche ad un sano realismo. Magri è consapevole che la svalutazione non risolve le debolezze intrinseche del sistema economico, limitandosi a svolgere una funzione difensiva, ma ribadisce che il superamento di questi limiti non può venire che da una sana politica interna, giammai dall’imposizione di un vincolo esterno, il cui vero scopo è quello di smantellare i rapporti politici e di classe costituitisi nel corso degli anni settanta.  Ancora Lucio Magri:
Anche coloro, insomma, che come l’onorevole Ugo La Malfa, al contrario di noi, ritengono possibile ed auspicabile un risanamento in termini capitalistici del nostro sistema produttivo, difficilmente possono negare il fatto che anteporre oggi l’unificazione monetaria ad uno sforzo politico economico di riconversione, che sarà certo lungo e complesso, vuol dire essere subito costretti a operazioni più drastiche, come l’attacco alla scala mobiIe, il fallimento delle imprese marginali, la riduzione secca della spesa pubblica;  operazioni ,che separano, quindi, nettamente il problema della stabilizzazione da quello della programmazione di un nuovo tipo. di sviluppo;  costituiscono un’ulteriore svolta moderata nel programma di Governo e, dunque, scontano uno scontro sociale durissimo e, dati i rapporti di forza reali, una soluzione politica al limite, e forse oltre il limite, dell’autoritarismo. E, infatti, almeno una parte di coloro che sollecitano questa scelta non nascondono affatto la valenza che essa ha; scelgono l’adesione allo SME non perché confidino in un vantaggio economico, ma perché la considerano un deterrente necessario per imporre, attraverso uno scontro, una svolta che smantelli i rapporti di forza politici e di classe costituitisi in questi dieci anni, e per la quale sanno di non avere una forza sufficiente all’interno del paese. Già questa sarebbe una ragione più che sufficiente perché la sinistra ed il movimento sindacale apponessero un rifiuto netto all’adesione allo SME ed avessero il coraggio di sostenerlo con una lotta politica generale, anziché con piccole scaramucce di retroguardia”.

Che la scelta di aderire allo SME non obbedisse a valutazioni razionali di politica economica, ma avesse altre motivazioni, è confermato da un passaggio dell’intervento di Ugo La Malfa, il quale candidamente afferma: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, come uomo al quale si attribuisce una qualche competenza tecnica, devo dare ai miei colleghi giustificazione per il fatto di aver dato prevalente importanza al fatto politico rispetto al fatto tecnico”.

Anche Fabrizio Cicchittodisse la verità”, sebbene oggi egli sia in ben altre faccende affaccendato: “Il dollaro in tutti questi anni ha manovrato e manovrato fortemente, si è deprezzato rispetto al marco almeno del 40 per cento, ha aumentato i suoi livelli di competitività in modo molto notevole e noi e la sterlina gli siamo andati dietro, fruendo dei livelli di competitività che in questo modo venivano conquistati. La tendenza attuale del marco è quella di arrestare la sua rivalutazione rispetto al dollaro zavorrandosi con le monete deboli e nello stesso tempo rivalutando abbastanza queste monete, in modo da diminuire la competitività della loro economia rispetto a quella tedesca. Noi dobbiamo misurarci con questo problema e con questo nodo e nello stesso tempo dobbiamo misurarci con i nodi di politica economica interna che abbiamo davanti. Cioè, dobbiamo misurarci con le differenze dei tassi di inflazione, di strutture e di produttività, di squilibri sociali”.

Che uomo intelligente Fabrizio Cicchitto! Non solo aveva capito la grande strategia tedesca (arrestare la rivalutazione del marco rispetto al dollaro zavorrandosi con le monete deboli e nello stesso tempo rivalutando abbastanza queste monete, in modo da diminuire la competitività della loro economia rispetto a quella tedesca), ma aveva ben presente il fatto che, in regime di cambi fissi (SME o euro) il vero problema da affrontare sarebbe stato quello dei diversi tassi di inflazione, e quindi di produttività. Altro che debito pubblico!

Ma il più chiaro di tutti fu Giorgio Napolitano. Ecco uno stralcio del suo intervento:
Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui l'euro avrebbe potuto nascere come strumento valido e vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fin dall’inizio. Quello delle garanzie da conseguire affinché l'euro possa avere successo, favorire un sostanziale riequilibrio all’interno dell'Unione europea (e non sortire un effetto contrario), è un rilevante problema politico. Le esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto - cito parole e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia: “Un suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema monetario internazionale e sulle possibilità di avanzamento della costruzione economica europea”. Ma dal vertice è venuta solo la conferma di una sostanziale resistenza dei Paesi più forti, della Germania, e in particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi e sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle economie di paesi della Comunità. E' così venuto alla luce un equivoco di fondo: se cioè il nuovo sistema debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, o debba servire a garantire il Paese più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania, spingendosi un Paese come l’Italia alla deflazione”.

Era il 13 dicembre 1978! Essi sapevano!

mercoledì 17 settembre 2014

Riparte la propaganda. E noi cosa facciamo? Clicchiamo “Mi piace”?

E’ il pomeriggio di domenica 14 Settembre 2014 quando, in pieno centro storico a Perugia, due iniziative, purtroppo destinate a sicuro successo, offrono, al pubblico che ignora, parole ed immagini provenienti da schieramenti politici solo apparentemente contrastanti, ma tendenti ad un solo scopo.
A dieci metri l’una dall’altra due fazioni solo formalmente opposte si schierano, sotto la sede del PD, per rassicurare i propri sostenitori, pur avendo intenzioni lontane dai loro interessi.

Da un lato il quotidiano Repubblica che deturpa la visuale dello splendido Corso Vannucci con innumerevoli pannelli 70x100 dei suoi quasi quarant’anni di prime pagine piene di retorica e menzogne liberiste mascherate col più becero progressismo.



Dall’altro, un po’ più nascosto e per pochi intimi all’interno del teatro Pavone, l’attuale paladino del liberismo, l’erede compassato di Berlusconi, il Dr Corrado Passera si autocandida a premier al grido “fuori lo Stato dall’economia” di fronte ad una platea dimentica e disinformata ed a quattro inutili giornalisti adoranti.

Entrambe le iniziative, ai meno avveduti, potrebbero apparire semplici operazioni pubblicitarie; la prima: un pacchiano sfoggio di immagine; la seconda: la presentazione  di un libro (con tanto di banchetto all’ingresso).
Ai più informati invece tutto ciò dà motivo di allarme; non è un mistero che Repubblica sta sostenendo l’intervento della troika in Italia finalizzato allo smembramento dello Stato, come non è un mistero che il Dr Passera faccia parte di quella èlite che sbava al pensiero di impossessarsi delle aziende di Stato che rappresentano una indiscutibile ricchezza per tutti noi.
Non è questo il post adatto a dare una attenta definizione di Sovranisti e di Globalisti, ma noi “sovranisti”, che ben sappiamo che la sovranità non si esaurisce con la semplice partecipazione al voto dei cittadini, siamo più preparati a leggere tra le righe e risulta quantomeno difficoltoso prenderci per i fondelli. Sta quindi a noi contrastare quelli che da più parti vengono definiti “globalisti”.
Oggi ed in futuro il confronto è e sarà sempre più evidente e aspro tra queste due forze contrapposte e rimandando ad altri articoli la trattazione di ciò che significa per i diritti dei cittadini avere uno Stato forte e quanto questo attualmente risulti esautorato per effetto della vittoria della globalizzazione e del liberismo di cui la massima espressione sono i trattati europei (con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti), vorrei soffermarmi sull’aspetto dell’azione politica.

Come possiamo facilmente constatare, ogni giorno le forze liberiste dalle loro tv e giornali, stanno compiendo un vero e proprio assalto alle pigre menti dei cittadini; non c’è notiziario o talk, quotidiano o periodico, che non ci dica quanto siamo incapaci e quanto abbiamo bisogno di un vincolo esterno che ci conduca lungo la “retta via” invisibilmente tracciata dai loro padroni a discapito di famiglie e lavoratori.
Gli unici che tentano a fatica e con scarsità di mezzi di ricordare agli Italiani che sono un grande popolo in grado di uscire (distrutto) da una guerra mondiale ed in trenta anni divenire la quarta/quinta potenza economica mondiale, che tentano di spiegare agli Italiani che la soluzione a questa terribile situazione è già stata scritta e praticata con successo e si chiama “Costituzione della Repubblica Italiana”, che tentano di mettere in evidenza che quella che stiamo subendo è una vera e propria guerra combattuta con le armi dell’economia piuttosto che con quelle tradizionali (ma con gli stessi effetti) siamo noi sovranisti.

Ora, di quali forze disponiamo? Quali mezzi abbiamo per fare la nostra parte? Come pensiamo di ottenere i numeri necessari a darci la meritata visibilità? Questo è il punto in questione di questo mio pezzo.
Per alcuni di noi, il mezzo principale di diffusione delle idee e di ricerca di nuovi sostenitori a nostra disposizione è quello offerto dai “social”, che però hanno un piccolo difetto: sono posseduti proprio dal grande capitale che tentiamo di arginare e proprio per questo, a me personalmente, appaiono come un’”arma di distrazione di massa”.
Pensateci bene, chi è presente, per esempio, su Facebook?
A parte una piccola minoranza di donne e uomini coscienti e desiderosi di sapere (che tra l’altro già si conoscono più o meno tutti tra di loro – siamo sempre gli stessi da anni), il sopracitato social è frequentato soprattutto da: frustrati e non con voglia di protagonismo, “bimbiminkia” che cazzeggiano pur di non leggere qualche libro, insoddisfatti che cercano avventure,  malati di dipendenza dal computer e, quando va bene, da gente normale che vuol restare in contatto con parenti ed amici lontani.
Secondo voi quanti di questi pseudo “amici” (odio questo modo ingannevole di appellare le conoscenze che si fanno su FB) possono essere interessati alle battaglie che giornalmente affrontiamo spesso sottraendo tempo e risorse alla nostra vita familiare ed al nostro lavoro?
Secondo voi quanto sono efficaci i “mi piace” (esprimo anche in questo caso il mio odio per questo insulso modo di esprimersi in FB) e le interminabili polemiche con sconosciuti di cui non sappiamo nulla?
Secondo voi quante volte si accendono tali perniciose polemiche su quella piattaforma (frutto tra l’altro della peggior cultura americana) solamente perché è avvenuto una travisamento che non avrebbe potuto aver luogo in caso di colloquio de visu? L’esempio estremo di ciò è offerto dall’altro social che va per la maggiore: Twitter, che affida all’utente 140 caratteri per esprimersi entro i quali, capacità di sintesi o no, si devono contenere concetti più o meno complessi!
Nel proporvi tali quesiti esprimo tutto il mio timore riguardante la reale possibilità che molti (in buona fede, armati di volontà e magari con spirito di sacrificio) si stiano impegnando in una azione quotidiana che sottrae loro risorse e tempo utilizzabili con maggiore efficacia.
Nulla avendo contro chi usa Facebook o Twitter in generale o per esprimere la propria militanza, sostengo che tali mezzi dovrebbero servire principalmente per pubblicizzare iniziative e documenti prodotti durante un confronto diretto tra le persone.

Consapevole del fatto che i percorsi di ciascuno possono prendere vie dissimili, voglio comunque testimoniare che il mio ingresso nell’ARS ha seguito le seguenti tappe: per primo sono venuto a conoscenza dell’Associazione perché circolavano in internet - e non FB – principalmente video ed anche post scritti dei suoi soci; dopo aver comunicato per e-mail con uno dei suoi dirigenti, mi sono informato presso il sito ufficiale ed ho letto, e fatto mio, il documento di analisi e proposte (cosa che dovrebbe essere richiesta ad ogni nuovo iscritto quale conferma della completa adesione), infine mi sono iscritto unicamente dopo aver conosciuto il suo “genitore”.
Racconto questo perché mi sembra che l’azione di “proselitismo” condotta tramite i social e non conoscendo di persona i nuovi arrivati – un po’ alla maniera del M5S (!) – potrebbe potenzialmente portare al nostro interno “di tutto e di più”: spostati, finti sovranisti che vogliono spaccare il nostro fronte e quant’altro, mentre sono necessarie buone doti di attore per poter ingannare durante un franco ed aperto colloquio di persona con i responsabili locali.
Quindi, affrontate le problematiche riguardanti i social, provo a “buttare là” alcuni spunti a chi volesse tentare una strada diversa, a mio avviso più efficace, più umanizzante e che, per tutto ciò, finirà anche di rendere piacevole la propria militanza che, non dimentichiamo, è in favore di tutti noi.
Premettendo che, a mio avviso, ogni azione di diffusione delle idee che si intende intraprendere dovrà necessariamente essere comunque commisurata alle capacità e disponibilità di ciascuno di noi – un attivista disinformato, frettoloso, sgarbato o che usi un linguaggio lontano dal suo interlocutore, rischia di fare danni allontanandolo e indisponendolo – passo a descrivere quelle che, io personalmente, individuo come le azioni più efficaci che ciascun sovranista potrebbe (arriverei a dire dovrebbe) compiere appunto in base alle proprie peculiarità ed al proprio ruolo.
Prima fra tutte le azioni è quella giornaliera, fatta di dialogo all’interno delle proprie famiglie, nei luoghi di lavoro, nei bar, negli spogliatoi, ecc., in ogni luogo pubblico ed in ogni momento della giornata; a costo di apparire monotematici, ma con garbo, dovremmo far si che chiunque ci frequenti riceva regolarmente argomenti ed input che smascherino la potente e menzognera  opera massmediatica.
La seconda azione, dovrebbe vederci impegnati ad organizzare gazebo e volantinaggi nelle nostre città – con meno frequenza della prima considerato l’impegno anche economico necessario; ciò aiuterebbe alla diffusione delle idee nei confronti di chi magari è già stato sensibilizzato in altro modo, ma che “non si fida” al 100%, di chi lo ha introdotto al tema; questo, inoltre, porterebbe il pubblico a conoscere e successivamente a riconoscere il simbolo dell’associazione a cui apparteniamo.
La terza azione, ancor più impegnativa, ma di sicura presa, è quella di organizzare nei capoluoghi eventi o semplici occasioni di confronto con conoscenti ed amici, possibilmente ospitando membri autorevoli della propria organizzazione e (volendo e potendo) esperti in materia macroeconomica e costituzionale; l’impiego di telecamere e la successiva pubblicazione dei video saranno di sicuro immediato effetto nei confronti di chi ha trovato in internet un modo alternativo di informarsi.
La quarta, è quella di scrivere in un blog o come ospiti o come titolari del proprio; questa azione, da intraprendere in funzione della propria disponibilità di tempo e delle proprie capacità, oltre a contribuire alla diffusione delle idee, da modo a ciascuno di “fermare” dei concetti appresi o intuizioni venute a seguito di una notizia ed a verificarne la validità col passare del tempo.
La quinta la riservo agli “ideologi” ed ai “leader” che meritino tale appellativo, che hanno autorevolezza, conoscenze e capacità espressive appunto da leader: la pubblicazione di saggi o libri; una iniziativa del genere darebbe sicura rilevanza nazionale alla propria organizzazione ed a tutto il movimento sovranista.
La sesta è altrettanto importante ed è finalizzata all’avere ottimi e proficui rapporti con altre organizzazioni sovraniste, anche di matrice diversa dalla propria, con le quali ci si deve necessariamente confrontare per avere una qualche possibilità di successo; questa azione dovrebbe essere coordinata dai leader e dai dirigenti di tutte le associazioni o movimenti sovranisti, presenziando ed intervenendo agli eventi altrui, tessendo legami ed amicizie con i leader e dirigenti organizzatori; isolarsi, arroccarsi, è deleterio e dà una pessima immagine di sé e di conseguenza della propria organizzazione.
Sono consapevole che ciò che propongo non è nelle corde e nelle possibilità di tutti, ma siamo sotto attacco e tutti dovremmo sentire il dovere di agire, sia pur con la scarsità di mezzi a nostra disposizione, secondo le nostre massime possibilità, per il bene delle nostre famiglie, per mantenere o riottenere la dignità derivante dal lavoro, per riconquistare la sovranità che spetta al Popolo Italiano.
Tutto ciò, con pazienza e tenacia, fino a quando i media non saranno costretti dagli eventi ad occuparsi di noi!

P.S. (a proposito del Dr Passera):
Attenzione: corre voce che tra i suoi principali sostenitori ci sia qualcuno che intende usare fraudolentemente il termine “sovranità” come argomento elettorale nonostante la propria supina rassegnazione alle logiche globaliste. Occhio noi ... ma anche loro!

La resilienza dell'€uro (7)

Svalutazione, inflazione e lotta di classe

Facciamo ora un esempio di quello che accadeva normalmente prima dello SME. Supponiamo che in un paese, ad esempio l’Italia, in seguito ad agitazioni sindacali il costo del lavoro aumentasse. Di conseguenza il saldo commerciale sarebbe peggiorato, ovvero sarebbero aumentate le importazioni (quando la gente ha soldi compra di più, anche dall’estero) e sarebbero diminuite le esportazioni (perché i prezzi dei prodotti italiani sarebbero aumentati). Molto rapidamente, tuttavia, la moneta si sarebbe svalutata, sia per effetto dell’eccesso di offerta di lire sui mercati valutari, necessarie per reperire  le valute straniere che servivano all’acquisto di beni esteri, sia per la diminuzione della richiesta di lire necessarie per l’acquisto di prodotti italiani da parte dei compratori esteri.  Senza l’obbligo di mantenere il valore nominale della moneta ancorato a quello degli altri paesi europei, il riallineamento del valore della moneta (svalutazione della lira) avrebbe compensato, agli occhi dei compratori esteri, l’aumento dei prezzi interni. Il risultato sarebbe stato un aumento della quota di reddito a favore del lavoro, e una perdita per il capitale. Quest’ultimo avrebbe pagato un duplice prezzo: oltre a subire le richieste di aumenti salariali, si sarebbe ritrovato tra le mani una moneta che manifestava una tendenza alla svalutazione tanto più pronunciata quanto più basso fosse stato il livello di disoccupazione. Questo perché, quando la disoccupazione è bassa, è più facile per i lavoratori ottenere aumenti. Inoltre, questo è un punto importantissimo,  essendo in vigore rigide restrizioni alla circolazione dei capitali, sia in uscita che in ingresso, questi non potevano andare in cerca di migliori opportunità di guadagno, ma erano costretti a trovarle sul mercato domestico. Quando il meccanismo testé descritto rischiava di eccedere i limiti, il governo poteva intervenire alzando i tassi di interesse sui prestiti bancari (tirava la corda). Questo intervento “raffreddava” l’economia creando un po’ di disoccupazione, e riequilibrava il conflitto distributivo. Un ulteriore strumento a disposizione del governo era la spesa pubblica. Grazie al fatto che la banca d’Italia poteva intercettare, pagando tassi di interesse molto bassi (quando non negativi) una parte rilevante del risparmio degli italiani, il governo disponeva delle risorse necessarie per vasti programmi di opere infrastrutturali, che avevano il duplice effetto di sostenere l’economia e di realizzare opere importanti sia per il benessere collettivo che per lo stesso sistema produttivo. Si pensi, per fare qualche esempio, alla realizzazione dell’estesa rete autostradale, poi privatizzata, o alla nazionalizzazione dell’industria elettrica e delle telecomunicazioni, anch’esse oggi privatizzate!

Tutto ciò, sebbene il paese crescesse, non rappresentava una situazione ideale per i possessori di capitali. Tuttavia l’equilibrio aveva retto a lungo, sia perché l’economia cresceva a ritmi molto sostenuti, sia perché il dollaro, prima della decisione di Nixon, forniva uno strumento di tesaurizzazione abbastanza affidabile.  La fine della convertibilità del dollaro con l’oro, e ancor di più i due shock petroliferi, ebbero l’effetto di spostare l’equilibrio di classe eccessivamente, e troppo rapidamente, in favore del lavoro. Non solo era venuta a mancare la funzione tesaurizzatrice svolta dal dollaro, fino a quel momento moneta sicura per eccellenza, ma gran parte del costo dell’aggiustamento necessario a fronteggiare gli aumenti del prezzo del petrolio si stava scaricando sugli utili del capitale. L’inflazione, come abbiamo già ricordato, salì alle stelle, mentre, per sostenere l’economia, i governi aumentavano la spesa offrendo una messe di titoli di stato che gli italiani si affrettarono a sottoscrivere. 

martedì 16 settembre 2014

A che punto è la notte?

Ahò, e questo è un blog no? E allora ci posso scrivere quello che mi pare no? Pure quando la mia mente sovreccitata genera penZierini confusi, o no? E allora daje, che la bottiglia è ancora mezza piena e non ho voglia di andare a dormire.

PenZierino n°1
Corrado Passera
Girano falsi sovranisti? Non molti, ma se ne comincia a vedere qualcuno. La solita vecchia solfa di infiltrare i movimenti che sgorgano dal basso. Ne vedremo di Passere proclamarsi sovraniste nei prossimi mesi!



PenZierino n°2
Si ritroverà un orsù nel muro, o sarà ministro dell'economia? #DAR per gli happy few, gli altri se pijassero un orsù nel muro. Se non capiscono non meritano di capire.

PenZierino n°3
Ai marxisti dell'Illinois: "Io, memmeta e tu... / passiammo pe' Tuledo, / nuje annanze e memmeta arreto... / Io memmeta e tu..."

PenZierino n°4
Ce stanno puro li massoni democratici... oh my GOD!

PenZierino n°5
Salmond agli scozzesi: "lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più"

PenZierino n°6
Uno spettro si aggira per l'europa: lo spettro del sovranismo

PenZierino n°7
Una sera di vent'anni fa tornavo tardi a casa in sella alla mia moto rombante; adesso sto al computer a scrive cazzate. Sono in deflazione?

domenica 14 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (6)

Il conflitto tra capitale e lavoro, e la mandrakata del vincolo esterno


Il problema era costituito dal fatto che, nel conflitto tra capitale e lavoro, quest’ultimo stava prendendo il sopravvento. Le conquiste dell’autunno caldo, la scala mobile, un clima generale caratterizzato da continue e crescenti rivendicazioni, tutto ciò suggeriva l’idea che gli equilibri di classe della società italiana potessero essere scossi dalle fondamenta.  Era possibile che il capitale accettasse l’idea che chi estraeva il suo reddito dal lavoro vedesse il suo benessere crescere, mentre chi lo estraeva dal possesso di capitali vedesse la sua ricchezza diminuire, quanto meno in termini relativi? La risposta è dentro di voi, ed è quella giusta.

Le bombe e il terrorismo, che pure stavano svolgendo l’importante funzione di contenere la fase culminante dell’avanzata del mondo del lavoro, non potevano bastare; se non al prezzo di accettare le conseguenze implicite in  una soluzione basata sulla sola forza militare: la costruzione di una società chiusa, fondata sul principio della repressione.  Serviva, dunque, una strategia alternativa, tale da consentire un esito della lotta di classe favorevole alle ragioni del capitale senza la necessità di una soluzione autoritaria.  
Il primo numero di "la Repubblica"

La controffensiva fu di natura culturale, prima ancora che politica. Nel 1976 Eugenio Scalfari fondò il quotidiano “La Repubblica”, destinato a svolgere un ruolo di fondamentale importanza nella politica italiana. Scalfari introdusse un innovativo modello di informazione politica che avrebbe, nei decenni successivi, contribuito in modo determinante a generare una scorretta percezione degli interessi di classe da parte dell'elettorato. Abbandonando lo stile conservatore degli altri giornali controllati dal grande capitale, il quotidiano adottava un modo di fare informazione giocato su due piani: da una parte si poneva su posizioni laiche e libertarie in tema di diritti civili e di modernizzazione dei costumi, dall'altra iniziava a propalare una visione dell'economia sottilmente fuorviante, che avrebbe spalancato le porte, di lì a qualche anno, all'ideologia liberista. Nei primi due anni di vita il quotidiano strizzò l’occhio ai gruppi della sinistra extraparlamentare, accaparrandosi le simpatie di una generazione di giovani che, sebbene contestasse “da sinistra” il PCI, era in effetti guidata da una élite di estrazione medio borghese. In apparente contraddizione con questa linea, il quotidiano appoggiò il “compromesso storico”, cioè l’idea, assolutamente interclassista, che fosse necessario superare la fase dello scontro di classe aspro, attraverso una conciliazione implicante il reciproco riconoscimento tra le due forze maggiori, la DC e il PCI.
 
Rino Formica, Bettino Craxi e Fabrizio Cicchitto al
40° congresso del PSI nel 1976

Il PSI di Craxi, eletto segretario nel 1976, si oppose a questa strategia, che tendeva a marginalizzarlo,  proponendosi come campione delle forze sociali emergenti della piccola e media imprenditoria e delle nuove professioni. Ne nacque uno scontro tra il PCI e il PSI che si sarebbe prolungato ben oltre la fine della prima repubblica, sebbene sotto bandiere diverse. La prospettiva di entrare nell’area delle forze politiche legittimate ad esercitare il governo, in un’epoca in cui il confronto  tra le due superpotenze (USA e URSS) restava acuto nonostante alcuni segnali di distensione (l’avvio della ostpolitik di Willy Brandt, l’attivismo di Henry Kissinger, il riavvicinamento tra USA e Cina), determinò una corsa delle due maggiori rappresentanze politiche degli interessi del mondo del lavoro a chi fosse più “affidabile”. Giocando abilmente sulla rivalità tra il PCI e il PSI, Repubblica riuscì a portare a compimento una missione che, appena qualche anno prima, sarebbe apparsa impossibile: inoculare, nella mente degli italiani, una concezione interclassista del conflitto sociale.


Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro aggiunsero confusione a confusione. Aldo Moro era il campione, insieme a Berlinguer, del compromesso storico, eppure fu il PSI a premere per la trattativa, mentre sia la DC che il PCI scelsero la linea della fermezza, appoggiati dal quotidiano Repubblica. L’idea era che “lo Stato non può scendere a compromesso con il terrorismo”, e questo fu il dibattito che venne dato in pasto agli italiani.

Sul piano geopolitico si era ad un tornante fondamentale. Il processo di unificazione europea languiva, con gli stati nazionali impegnati, ognuno per conto suo, nel fare i conti con le turbolenze valutarie e gli aumenti del prezzo del petrolio. Ne approfittarono gli Stati Uniti per rilanciare la loro strategia. Avviata la fase di distensione con l’URSS (accordi di Vladivostock – autunno 1974) e usciti dalla trappola del Vietnam (aprile 1975), gli americani avevano le mani libere per occuparsi dello scenario medio orientale, che era diventato il loro quadrante strategico fondamentale.   Il loro timore era il ritorno a politiche protezionistiche simili a quelle che l’Europa aveva adottato negli anni ’50 e ’60 per difendere il suo settore agricolo. Occorreva superare la crisi economica senza che il principio della libera circolazione delle merci (non ancora dei capitali) fosse incrinato.
Il vertice di Rambouillet del 1975

Il vertice di Rambouillet del 1975 (Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone) poneva momentaneamente in secondo piano il processo di integrazione europea, sia economica che politica, promuovendo una strategia trilaterale mirante a coordinare le politiche delle aree industrializzate (USA, Europa e Giappone). La partecipazione dell’Italia (che inizialmente era stata esclusa) rappresentata da Aldo Moro, fu infine accolta perché il nostro Paese aveva, in quel momento, la Presidenza di turno della Comunità Europea, e anche per volontà degli Stati Uniti, ben al corrente del sostanziale disinteresse della DC dell’epoca, e in particolare proprio di Moro, per un’accelerazione del processo di integrazione europea. Ciò nonostante, per volontà della Francia e della Germania, il progetto non venne abbandonato.  Le ragioni furono di natura sia politica che economica. L’interesse politico era soprattutto dalla Francia, un paese che non si rassegnava al ruolo subalterno assunto dopo la fine della guerra mondiale, mentre la Germania coltivava un interesse soprattutto economico. 


Lo stop and go dei governi Andreotti III e IV


Il fatto è che, seppur tra mille difficoltà, grazie alle politiche di spesa pubblica e alle ripetute svalutazioni della lira (dovute al fatto che l’inflazione italiana si manteneva costantemente superiore a quella dei principali partners europei),  l’economia italiana dava segni di straordinaria vitalità. Ciò avveniva anche per una particolare e, all’epoca, favorevole combinazione tra la svalutazione della lira sul marco e contemporanea rivalutazione sul dollaro, che preservava la competitività delle merci italiane riducendo il costo delle importazioni, soprattutto petrolifere, intermediate in dollari. Inoltre si era venuta sviluppando un’area di lavoro nero che contribuiva a mantenere basso il costo del lavoro per unità di prodotto.

Dopo le elezioni politiche del giugno 1976, che videro il rafforzamento della DC (38,7%) e il mancato sorpasso del PCI (34,4%), insieme con il ridimensionamento del PSI (9,6%), del PSDI (3,4%), e la quasi scomparsa del PLI (1,7%), non era più praticabile la formula su cui si reggevano i precedenti equilibri. La soluzione fu il governo della non sfiducia, ovvero un monocolore DC con l’appoggio esterno dei suoi tradizionali alleati, che portasse avanti un programma concordato ufficiosamente anche con il PCI.

L’inflazione, già alta, dava segnali di ulteriore accelerazione, mentre il saldo della bilancia commerciale, dopo un buon avvio nel primo trimestre del 1976, nel secondo aveva subito una preoccupante flessione. Appena insediato il presidente del consiglio Giulio Andreotti, in accordo con il PCI e con i sindacati, conquistati alla causa, inaugurava le politiche dell’austerità, imponendo il blocco della scala mobile e l’abolizione di sette giorni di festività, oltre a un sensibile aumento delle accise sui prodotti energetici. Grazie a questi provvedimenti, nell’aprile del 1977 furono ottenuti, dal FMI e dalla CEE, due prestiti di 500 miliardi l’uno, con l’impegno di limitare il deficit di bilancio per il 1977 a 16500 miliardi, e a 14.550 per il 1978. Tuttavia queste promesse non vennero rispettate, perché l’esplosione della contestazione costrinse il governo a tornare sui suoi passi. In particolare, il deficit di 14500 miliardi concordato con il FMI per il 1978 risultò, a consuntivo, quasi doppio.
La conseguenza fu che, dopo una fase di rallentamento della crescita nella prima parte del 1977 come conseguenza della politica di austerità, la ripresa economica tornò grazie all’ottimo andamento delle esportazioni e alla crescita tumultuosa delle presenze turistiche, incoraggiate dalla lira debole.  E infatti, come già detto, l’inflazione calò del 30%, passando dal 18.11% del ’77 al 12.43% nel ’78! Tutto ciò creava problemi alla Germania, un paese la cui economia dipendeva molto dalle esportazioni e soffriva per la concorrenza italiana.

La “svolta dell’EUR”


Luciano Lama - segretario della CGIL
La politica di austerità, promossa da Andreotti a partire dalla seconda parte del 1976, poggiava sull’accordo con il PCI che, ansioso di entrare nell’area di governo, accettava di esercitare pressioni sul maggiore dei sindacati, la CGIL, affinché non si opponesse. Per Cossiga, la condizione per far entrare il Pci nell’area di governo era data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica” (da la Repubblica). Ancora su la Repubblica, il 24 gennaio 1978, comparve un’intervista a Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, nella quale dichiarava: “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.

Il fatto è che la mobilitazione del 1977 restituì slancio alla contrattazione salariale, cosicché, nonostante la linea di moderazione accettata dai sindacati della triplice (svolta dell’Eur), ciascun sindacato di categoria, pressato dalla base, avrebbe cercato un recupero salariale. L’incapacità del PCI di tenere a freno le rivendicazioni salariali e di contenere la contestazione alla sua sinistra resero manifesta, agli occhi del capitale, la sterilità del tentativo di coinvolgerlo nell’area di governo. Inoltre il partito perdeva consenso, con il rischio che, alla sua sinistra, si consolidassero formazioni di opposizione più radicali.

La crisi della solidarietà nazionale


Qualche giorno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14 maggio 1978, si tennero le elezioni amministrative parziali, che diedero un responso di fondamentale importanza: al forte recupero della DC, che passava dalle dal 38.7% delle politiche del ’76 al 42.5%, fece riscontro un clamoroso crollo del PCI, che precipitò dal 34.4% al 26.5%. Il PSI del nuovo segretario Bettino Craxi recuperava, passando dal 9.6% al 13.5%. Il risultato, unitamente alla scomparsa di Aldo Moro, restituiva spazio alle correnti della DC ostili alla politica di avvicinamento al PCI e segnava la fine della cosiddetta “solidarietà nazionale”, a favore di un rinnovato rapporto con il Partito Socialista di Craxi.
Il primo segnale del nuovo corso si sarebbe avuto alla fine dell’anno, quando giunse in discussione alla Camera l’entrata dell’Italia dello SME. Si trattava di ripartire dal fallimento del serpente monetario, per tentare di costruire un sistema monetario europeo totalmente diverso da quello che aveva governato l’economia mondiale dal 1944 (conferenza di Bretton Woods) al 1971, quando Nixon aveva abolito la convertibilità del dollaro con l’oro. Al serpente monetario, nei dieci anni successivi, sarebbero stati aggiunti gli elementi di cui questo mancava. Non solo un accordo sui cambi nominali, sì da limitare la libera fluttuazione dei cambi (Repubblica parlava, capziosamente nonché  falsamente, “svalutazioni competitive”), ma anche, immediatamente dopo, una nuova disciplina nell’emissione dei titoli di stato e, infine, l’apertura alla libera circolazione dei capitali.

Il sistema di Bretton Woods, sebbene consentisse la circolazione dei capitali, lasciava tuttavia ai paesi il potere di controllarne i flussi attraverso provvedimenti di carattere amministrativo, ad esempio imponendo che, almeno in parte, gli utili prodotti da un investimento estero fossero obbligatoriamente reinvestiti nel paese. Allo stesso tempo, ogni stato poteva controllare i suoi tassi di interesse, pur lasciando le monete sostanzialmente ancorate al dollaro, e quest’ultimo all’oro. Durante il periodo di applicazione degli accordi di Bretton Woods non furono infrequenti i riallineamenti monetari (svalutazioni e rivalutazioni), senza contare il fatto che gli Stati Uniti intervennero spesso in soccorso dei paesi europei in difficoltà con prestiti a bassissimo interesse. L’obbiettivo dichiarato del sistema di Bretton Woods era il raggiungimento della piena occupazione negli stati aderenti, intento che fu in effetti raggiunto. In Italia, ad esempio, per tutti gli anni ’60 la disoccupazione si mantenne al di sotto del 4%.

Ben diversi erano gli obbiettivi, esplicitamente dichiarati, che gli stati europei, soprattutto Francia e Germania, vollero perseguire con l’introduzione dello SME: la creazione di un Mercato Unico con libera circolazione dei capitali, all’interno del quale fosse stabilito un tasso di cambio nominale fisso tra le monete. In tal modo, aumenti differenziati dei prezzi tra i paesi (diversa inflazione), causati da eccessive rivendicazioni salariali in alcuni di essi, sarebbero divenuti incompatibili con gli equilibri economici. Era una svolta di politica economica che aveva il manifesto, sfacciato e impudente fine di sterilizzare il conflitto di classe attraverso l’imposizione di un vincolo esterno alle economie nazionali. Anche una minore competitività legata a qualsivoglia altra ragione diversa dalle rivendicazioni salariali (ad esempio un nuovo shock petrolifero, che in effetti sarebbe sopravvenuto a breve), non avrebbe potuto essere scaricata sul conto dei possessori di capitali, finendo invece su quello del lavoro. L’obiettivo del pieno impiego veniva accantonato, e anzi un cronico livello di disoccupazione diventava lo strumento d’elezione per disciplinare le richieste di aumenti salariali. Un secondo tassello, che sarebbe stato aggiunto qualche anno più tardi con il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, consisteva nel sottrarre ai governi lo strumento della politica monetaria, cioè la possibilità di emettere moneta a tassi di interesse pari o inferiore all’inflazione, come pure di finanziare la spesa pubblica “stampando moneta”. Ne parleremo tra breve.