sabato 15 marzo 2014

La domanda angosciosa

L'articolo 1 della Costituzione, che recita "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" ci dice due cose:
  1. Il lavoro è un diritto
  2. La sovranità appartiene al popolo
Il lavoro è un diritto, dunque, e non una merce. Se c'è un diritto, ciò significa che esiste un dovere, che è quello di promuoverne l'effettiva disponibilità, e tale dovere ricade sulle Istituzioni, sui partiti politici e, a cascata, su tutti i cittadini.

Per la Costituzione è il lavoro ad essere un diritto, non il reddito! Con buona pace del peracottaro.

Sappiamo anche che, per assicurare il diritto al lavoro, è necessario mettere in campo politiche attive, perché esso è un bene scarso o può diventarlo in alcune circostanze.

Dobbiamo anche domandarci perché ciò possa accadere (e accade) perfino quando il reddito complessivo è grande. Addirittura non in condizioni di scarsità di mezzi e risorse, ma di sovrapproduzione.

I fatti dimostrano quello che lo stesso Adam Smith aveva capito, cioè che la libera iniziativa degli agenti economici, ognuno proteso alla massimizzazione del proprio profitto, non è sufficiente per garantire prosperità e inclusione. E' necessaria l'azione di un soggetto che possa operare al di fuori dei meccanismi economici, svincolato cioè dalla necessità contabile di generare profitti. Questo soggetto è lo Stato

Lo Stato deve essere democratico, non perché così vogliono le "anime belle", ma per necessità insita nell'obiettivo di perseguire l'abbondanza del lavoro. L'azione riequilibratice dello Stato, infatti, è di natura redistributiva. Ribadisco ancora, tuttavia, che non è opportuno che ciò avvenga agendo direttamente sul reddito, ad esempio con strumenti come il "reddito di cittadinanza", perché ciò avrebbe, come inevitabile conseguenza, la cristallizzazione dei rapporti economici, sociali e, in ultima analisi, di potere politico. 

La scarsità del lavoro dipende sia dal fatto che chi possiede molti capitali ha una propensione al risparmio maggiore di chi ne ha meno, sia e soprattutto perché è disposto a investirli solo se può trarne un profitto che giudica conveniente. Quando così non è, i possessori di capitali tendono a tesaurizzarli in attesa di tempi migliori.

Lo Stato italiano, prima della controriforma liberista, disponeva di quattro efficaci strumenti per contrastare questa naturale dinamica del mercato: la leva fiscale, il debito pubblico, la monetizzazione, la leva del cambio.

  1. Un'imposizione fiscale molto più progressiva dell'attuale raccoglieva una frazione del reddito nazionale per destinarla ad opere e servizi pubblici, la cui implementazione contribuiva al sostegno della domanda aggregata. Ovvero, se non investiva il capitale privato ci pensava lo Stato. Ciò implicava una continua e crescente presenza dello Stato in numerosi settori economici che venivano, così, sottratti all'iniziativa e al profitto privato.
  2. Il debito pubblico, emesso con tassi di interesse reale di limitata entità, quando non addirittura negativi, intercettava una parte del risparmio nazionale, che lo Stato italiano utilizzava per sostenere la domanda aggregata attraverso l'erogazione di servizi di natura sociale. Anche questa circostanza non suscitava l'entusiasmo dei capitalisti, i quali lamentavano la distorsione (a sentir loro) del mercato finanziario.
  3. La monetizzazione consisteva nella semplice emissione di nuova moneta (il click del mouse) da parte della Banca d'Italia, senza che lo Stato dovesse preoccuparsi di pagare interessi.
  4. La leva del cambio permetteva alle autorità monetarie di favorire le esportazioni e scoraggiare o rendere meno onerose le importazioni, ad esempio giocando al rialzo nei confronti del dollaro (con cui pagavamo le importazioni, soprattutto materie prime) e al ribasso nei confronti dei nostri concorrenti commerciali, in primis la Germania.
Il quadro era completato dal fatto che la Banca Centrale Nazionale (la Banca d'Italia) "eseguiva" gli ordini del "Tesoro", cioè dell'autorità politica, nonché da severe restrizioni ai movimenti di capitali, merci (ad esempio dazi), servizi e persone

A vigilare su tutto ciò i Padri Costituenti avevano posto un potere indipendente, la Magistratura, dotata di un organo di autocontrollo e presieduta dal Presidente della Repubblica. Il quale aveva poteri molto inferiori a quelli che, nel tempo, gli sono stati concessi, in spregio alla lettera e allo spirito della nostra Carta Costituzionale.

Ogni sincero democratico dovrebbe riflettere a fondo su questi punti. A titolo esemplificativo osserviamo come, a partire da una Banca Centrale Nazionale sottoposta al controllo politico e da una Magistratura indipendente, siamo oggi nella situazione di una Banca Centrale indipendente con una Magistratura di fatto controllata dal potere politico. Abbiamo inoltre una Banca Centrale Europea (ovviamente "indipendente") rispetto alla quale la Banca d'Italia è ridotta al rango di una filiale.

Il processo di stravolgimento del modello di società sancito nella Costituzione si è svolto nell'arco di un ventennio. Le principali tappe sono state:

  1. L'adesione al Sistema Monetario Europeo (SME) nel 1979
  2. Il divorzio Tesoro-Banca d'Italia nel 1981
  3. La revisione della normativa sulla circolazione dei capitali, culminata nel 1993 con la ratifica del trattato di Maastricht
  4. L'adozione della moneta unica, preceduta da rivalutazione della lira operata a partire dal maggio 1996 (2285,75 £/ECU) fino al rapporto con cui entrammo nell'euro (1936,27 £/€) il 1 gennaio 1999. Una rivalutazione del 15% in due anni e mezzo che avrebbe avuto, fin da subito, severe conseguenze per il nostro paese.

Lo SME


Con l'adesione allo SME si inaugurava la stagione dei tentativi di adottare un cambio fisso con le principali monete europee. La logica era quella secondo cui le nostre imprese, non potendo più svalutare per restare competitive, sarebbero state costrette a diventare "virtuose". Insomma un "vincolo esterno", il solo capace, secondo il tafazzanismo propalato a piene mani da giornali ultraliberisti come "Repubblica", di disciplinare gli italiani. Lo SME aveva, almeno, il pregio di essere un accordo di cambi fissi ma aggiustabili, nel senso che le diverse monete potevano non solo fluttuare entro un intervallo predeterminato, ma, quando era necessario, le parità relative venivano aggiustate per adattarle alle differenti dinamiche di crescita dei paesi aderenti. Cosa che in effetti avvenne numerose volte. Nel settembre del 1992, meno di due anni dopo che l'Italia era entrata nella banda di oscillazione "stretta" al 2,25% (prima avevamo adottato una banda "larga" del 6%), l'insostenibilità per l'economia italiana di mantenere un cambio sopravvalutato rispetto alle sue esigenze costrinse le autorità monetarie a uscire dallo SME, svalutando la lira (cioè riallinenando il cambio della lira agli effettivi valori di mercato) del 18%. Ciò nonostante, come abbiano già visto, poco più di tre anni dopo le autorità monetarie iniziarono una politica attiva di rivalutazione della lira, al fine di entrare nell'euro con una moneta forte.

Prima di procedere ad una valutazione politica delle ragioni che hanno spinto il fronte moderato italiano, nel quale possiamo, a ben diritto, iscrivere soprattutto il PD con tutte le sue diverse sigle, come pure il partito di Berlusconi, la Lega e tutti gli altri, con la sola iniziale eccezione di Rifondazione Comunista e del Movimento Sociale Italiano, è necessario fornire alcune informazioni aggiuntive.

Il tasso di cambio di una moneta (ad esempio quante lire servivano per acquistare un marco) è fortemente legato all'inflazione, cioè all'aumento dei prezzi nominali interni. Quando i prezzi nominali, in un paese, crescono più che in un altro paese, ad esempio a causa delle richieste di aumenti salariali, anche i costi nominali di produzione aumentano. Questo fatto causa una diminuzione delle esportazioni, che si riflette in una svalutazione della moneta. In parole povere, la svalutazione della moneta equivale a una redistribuzione dei costi da pagare, per una perdita di competitività, tra tutte le classi sociali: gli imprenditori, i salariati, i detentori di capitali. Ora una perdita di competitività può dipendere sia dalle crescenti richieste salariali, sia da altri fattori: incapacità delle classi dirigenti di fare una buona politica industriale, limiti della classe imprenditoriale, litigiosità politica e altro. Nell'un caso come nell'altro, la partita si gioca sul "chi paga". In definitiva, la flessibilità del cambio consente le rivendicazioni salariali (non c'è un "vincolo esterno" che imbriglia i sindacati) e costringe le classi dirigenti e imprenditoriali a pagare in prima persona gli errori da esse commessi.

Con l'adesione allo SME è come se le classi dirigenti e imprenditoriali italiane si fossero dette: "leghiamoci le mani con il cambio fisso, così gli operai dovranno star buoni (non si può svalutare, per cui se chiedi troppo devo licenziarti, e magari chiudere), e inoltre costringiamo noi stessi ad essere migliori, perché non possiamo più salvarci con la svalutazione". Due piccioni con una fava: tener buoni i lavoratori e adottare in un meccanismo coercitivo che avrebbe dovuto selezionare meglio la classe dirigente e imprenditoriale domestica.

Poteva funzionare? Ai posteri l'ardua sentenza... ma i "posteri" siamo noi, e sappiamo che non ha funzionato. Eppure questa visione fu condivisa da tutte le forze politiche. Non ci inganni il fatto che, nella discussione sull'entrata nello SME (dicembre 1978), i socialisti si astennero e i comunisti chiesero e ottennero lo scorporo in tre parti del provvedimento, votando contro solo relativamente all'entrata immediata nello SME. Nei fatti l'opposizione delle forze di sinistra divenne, negli anni successivi, sempre più evanescente (esempio: l'abolizione della scala mobile a metà degli anni ottanta). La verità è che la sinistra italiana, mentre a parole continuava una polemica di facciata con le forze manifestamente moderate, nei fatti aveva sposato la cosiddetta "cultura della stabilità".

Il divorzio Tesoro-Banca d'Italia


Se l'adesione allo SME può essere considerato un tentativo fallimentare di modificare gli indirizzi di politica economica, sia pur giocato sulla pelle dei lavoratori e con la compiacente complicità delle forze della sinistra italiana, il divorzio Tesoro-Banca d'Italia fu un vero golpe. Passato quasi sotto silenzio (una tecnica che, negli anni successivi, è diventata usuale) e senza nemmeno una discussione parlamentare, il divorzio modificò radicalmente la natura del debito pubblico, trasformandolo da strumento di tesaurizzazione del risparmio degli italiani in un infernale meccanismo di redistribuzione dei redditi, dal lavoro alla rendita. Prima del divorzio lo Stato raccoglieva il risparmio nazionale offrendo da un lato interessi reali molto bassi, se non addirittura negativi, dall'altro uno strumento sicuro per "spostarlo al futuro". Sicuro perché, di tutti gli strumenti disponibili per tutelare il risparmio, i titoli di Stato erano quelli a più basso rischio. Anzi, erano considerati del tutto privi di rischio. Ciò era possibile perché il tasso di interesse veniva fissato d'autorità dal Tesoro e, quando la raccolta non era sufficiente, la Banca d'Italia era costretta ad acquistare i titoli invenduti stampando moneta. Un'evenienza, quest'ultima, che si era verificata in pochissime occasioni e per importi limitati. Il divorzio consistette in un accordo privato tra il ministro del tesoro Andreatta e il governatore della Banca d'Italia Ciampi, avvenuto per tramite di uno scambio epistolare, in virtù del quale la Banca d'Italia veniva esentata, a partire dal luglio 1981, dall'obbligo di acquisto dei titoli di Stato invenduti. La notizia passò del tutto inosservata, e se ne sarebbe riparlato solo dieci anni dopo, nel luglio del 1991, allorché Andreatta scrisse una lettera pubblica nella quale tentava di giustificare quella decisione. Lo faceva perché, nel frattempo, il debito pubblico era lievitato enormemente, proprio a causa degli interessi crescenti che il tesoro doveva offrire per vendere i suoi titoli. Senza la "minaccia" di riacquisto alle condizioni stabilite dal venditore (il tesoro), erano i compratori a fare il prezzo. La situazione si era vieppiù complicata perché, nel corso degli anni ottanta, si era messo in moto il processo di revisione normativo sulla circolazione dei capitali. Era ormai il mercato ormai, e non solo quello nazionale, che "faceva il prezzo"! La conseguenza era stata l'esplosione del rapporto debito/PIL che, in soli dieci anni, era raddoppiato.

Il governatore in trincea


Un anno dopo la pubblicazione della lettera di Andreatta, il suo degno sodale dei tempi del "divorzio", Carlo Azeglio Ciampi, avrebbe dilapidato tutte le riserve in valuta della Banca d'Italia nel tentativo di mantenere un rapporto di parità della lira nello SME insostenibile per l'Italia. Una linea di condotta, quest'ultima, che ha lasciato molti dubbi, non ancora del tutto chiariti.

Riepiloghiamo brevemente i fatti. Il 1 gennaio 1990 la lira aveva abbandonato la banda di oscillazione "larga" al 6% per adottare quella "stretta" al 2,25%. La decisione, adottata contestualmente a una lieve svalutazione della nostra parità, era stata salutata con squilli di tromba: l'Italia ce l'aveva fatta! Eravamo entrati nel club esclusivo dei "paesi seri", quelli capaci di avere una moneta stabile. Le cose, però, non andarono per il verso giusto: trimestre dopo trimestre l'economia italiana cominciò a dare segni di cedimento, finché apparve a tutti evidente che la parità della lira nello SME non era sostenibile. Colui che doveva prendere la decisione era carlo Azeglio Ciampi. Ora gli scenari possibili sono due, e solo due.

Scenario 1: Carlo Azeglio Ciampi ha preso la decisione sbagliata.  Nella speranza che le tensioni al ribasso sulla lira si sarebbero placate, Ciampi impiegò tutte le riserve valutarie (marchi, dollari etc.) per acquistare lire sul mercato, così da mantenerne il tasso di cambio ancorato alla parità nello SME. Purtroppo, un brutto giorno, le riserve valutarie finirono e... l'eroico governatore dovette arrendersi: contrordine caballeros! Usciamo dallo SME e svalutiamo. Onorificenze e giusto premio per l'arzillo ed eroico governatore... che infatti divenne Presidente della Repubblica.

Scenario 2: ...ah..., questa è una cosa completamente inventata, uno sciocco esercizio di stile di un povero professore di campagna. Diciamo però che, forse, qualcuno che aveva in cassaforte un bel po' di lire fosse preoccupato per l'inevitabile imminente uscita dallo SME con conseguente svalutazione. Diciamo che questo qualcuno aveva un problema: a chi sbolognare quelle lire? Ovviamente al tasso di cambio fissato dalla parità nello SME...?

Ora, io sono un buon cittadino, e allo scenario 2 proprio "non ci posso credere". Ripeto e ribadisco: "non ci posso credere"! Letterale...

Sia come sia, una cosa è certa: le riserve valutarie, frutto del lavoro degli italiani, si volatilizzarono nell'eroica battaglia del Governatore in difesa della parità nello SME. E più non dimandate.

Maastricht


Il trattato di Maastricht è l'Unione Europea. Vale anche il contrario: l'Unione Europea è il trattato di Maastricht. Avevamo svalutato, è vero, e avremmo continuato a farlo fino al 1996, ma che importanza aveva? Tutto era stato già fatto e deciso: liberalizzazioni, privatizzazioni, indipendenza delle Banche Centrali, mancava solo di raccogliere le imponenti modifiche normative realizzatesi in Italia e in Europa in un bel trattato conclusivo, e il gioco era fatto. E naturalmente scrivere la road-map per la realizzazione dell'unione monetaria.

Questo articolo di Repubblica scritto dopo la ratifica parlamentare del 30 ottobre 1992 (sarebbe entrato in vigore il 1 novembre 1993) è illuminante. Eccone alcuni stralci:

  • Il risultato finale del voto alla Camera (403 voti favorevoli, 46 contrari e 18 astenuti) è stato giudicato "incoraggiante" dal ministro degli esteri Emilio Colombo, anche se l' esito positivo era ampiamente scontato, dopo che anche la Lega si era pronunciata a favore dell' Europa.
  • La parola ' Maastricht' , era difficile da captare nell'aria, mentre è stato possibile cogliere al volo un "ma che si vota oggi?"
  • ancora ieri, durante l' intervento di Colombo, il presidente della Camera Giorgio Napolitano ha dovuto richiamare più volte gli onorevoli per permettere al ministro di proseguire: "Colleghi, vi prego, riducete il vostro brusio"
  • Il governo ha respinto anche tutti gli ordini del giorno che comportavano emendamenti o "riserve" sul trattato che va "approvato o respinto così com'è" come ha spiegato anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano. 
  • I Verdi si sono poi astenuti nel voto finale (altrettanto ha fatto la Rete) perché chiedono un maggiore impegno sulla democratizzazione della Comunità. Contrario il Msi: "Il trattato è un mostriciattolo giuridico e costituzionale che non salvaguarda gli interessi nazionali", ha detto Mirko Tremaglia.
  • E anche Rifondazione comunista: "Nasce un' Europa autoritaria decisa dalle banche centrali e dalle stutture militari"
  • Il gruppo di Marco Pannella, in nome di Altiero Spinelli, non se l' è sentita di votare contro né di astenersi. Ma ha lasciato in aula un solo deputato a votare a favore.
  • Infine i deputati 'pacifisti' del Pds che hanno parecchie riserve sul trattato, si sono riconosciuti nella "sofferta decisione" di approvare annunciata dal capogruppo D' Alema.
Caso o disgrazia, il 7 febbraio 1992 il trattato (che doveva ancora essere ratificato dal Parlamento) era stato firmato dai negoziatori italiani. Appena dieci giorni prima che il "mariuolo" Mario Chiesa venisse pizzicato con le mani nel sacco dando così inizio alla stagione di mani pulite. Insomma, il più importante trattato dalla nascita della Repubblica Italiana, un trattato che faceva strame della Costituzione della Repubblica Italiana, veniva soppesato, discusso e approvato da una classe politica investita dal più grande scandalo della storia repubblicana. Uno scandalo che, con il senno di poi, e alla luce di ben altri saccheggi perpetrati ai danni della collettività dopo il cosiddetto repulisti, ci appare modesto sia per quanto riguarda le cifre in gioco che per i reati effettivamente contestati. Nella sostanza, i politici della cosiddetta prima Repubblica rubavano per finanziare i propri partiti, e nulla più, eppure intorno a questo reato venne montata una caciara mediatica senza precedenti.

L'Unione Europea oggi


Riassumendo: la storia della partecipazione dell'Italia alla cosiddetta unificazione europea inizia con un cambio del regime di politica economica contrario agli interessi del mondo del lavoro (lo SME); continua con un golpe (il divorzio) che introduce il concetto di Banca Centrale indipendente; passa per una radicale modifica, in senso liberista, del regime di circolazione di capitali, merci, servizi e persone; culmina nella ratifica dell'iperliberista trattato di Maastricht mentre nel nostro paese infuria uno scandalo che travolge la classe politica che aveva governato il paese per trenta anni; infine, e questa è storia di oggi, dopo soli nove anni dall'introduzione della moneta unica, l'Unione Europea viene investita dai contraccolpi della crisi dei subprime americani, che trascina l'intero continente in una crisi asimmetrica che è ormai peggiore di quella del 1929.

La domanda angosciosa


Nel pieno di questa crisi milioni di cittadini scoprono che le uniche cose che sono state "unificate" sono la moneta e i mercati, non i diritti. Questi, al contrario, vengono sacrificati senza batter ciglio. Ciò nonostante, un giovanotto greco di nome Tsipras riesce a sbarcare in questo paese e a proporsi come candidato di una lista "di sinistra" che vuole salvare l'euro. La domanda che sorge spontanea è: come è possibile ciò?

la domanda è angosciosa. Come è possibile che tante persone che ho frequentato per anni, considerandole intelligenti, colte, per bene, siano così incapaci non dico di capire quello che ho tentato di raccontare in questo post, ma almeno di avere qualche dubbio? Qualche curiosità? Come è possibile, ad esempio, che nessuno dei tanti amici di sinistra che ho frequentato per anni sia disposto a confrontarsi seriamente su questi temi? Perché non vengono agli incontri che organizziamo per spiegare queste cose? Perché non sono loro stessi a organizzarne?

Sono degli idioti completi, o sono venduti? O sono l'uno e l'altro? E in tal caso, se sono idioti e venduti, chi sono io che ho frequentato idioti e venduti per tanti anni?

Questa domanda mi riempie di angoscia, e mi fa dubitare di me stesso.

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