sabato 18 marzo 2023

L’energia nucleare conviene? Tutti i dubbi di un ingegnere del settore.

Link: Energia nucleare secondo l’opinione di un esperto dubbioso

     

Fiorenzo Fraioli
Il dibattito sull'energia nucleare dura da decenni, ma esso è talmente inquinato dalla faziosità dei favorevoli ad ogni costo, e dei contrari a prescindere, da scoraggiare ogni persona intellettualmente onesta dall'affrontarlo. Questa è la ragione per cui, pur essendo titolato ad affrontarlo - sono infatti ingegnere nucleare - raramente l'ho fatto. Se oggi scrivo questo articolo è perché mi è stato chiesto da una persona che segue da anni i miei scritti e video e dunque, per un sentimento di reciprocità verso chi mi ha dedicato tempo e attenzione, mi sono deciso ad affrontare l'improbo compito.

Credo che convenga suddividere l'articolo in due parti, la prima dedicata alle tecnologie attualmente disponibili, la seconda a quelle promesse ma ancora nella fase di studio o, al più, di sviluppo prototipale, tra cui le centrali a fusione. La prima parte è quella più attuale perché la scelta dell'uso dell'energia nucleare per la produzione di energia elettrica è una questione estremamente seria e non può essere subordinata alle aspettative di future soluzioni tecnologiche che potrebbero non esserci. Inoltre, qualsiasi progetto di realizzazione di una centrale nucleare rappresenta una sfida ingegneristica e logistica di così ampie dimensioni che, anche nel caso in cui durante la costruzione emergesse la disponibilità di nuove soluzioni tecnologiche, risulterebbe molto difficile, e comunque oneroso, introdurre significative variazioni al progetto iniziale. Infine, l'uso dell'energia nucleare è una scelta strategica che contempla la realizzazione di più centrali, ognuna delle quali può eventualmente ospitare più reattori, al fine di sfruttare a fondo le economie di scala sia in fase di costruzione che in termini di operatività. L'adozione di un piano nucleare per un paese, ad esempio l'Italia, implica pertanto una scelta preventiva del modello di filiera da adottare, che può essere fatta solo sulla base della tecnologia disponibile. Chiunque, nel dibattito sulla scelta del nucleare da fissione, si avventurasse a parlare di reattori di IV generazione, dovrebbe essere immediatamente messo a tacere e invitato a partecipare a convegni di natura esclusivamente tecnico-scientifica, non a una discussione su una scelta strategica così importante che ha, dulcis in fundo, anche importanti implicazioni politiche e geopolitiche.

I parte: le centrali a fissione già in esercizio

Una centrale nucleare a fissione di tipo tradizionale utilizza un combustibile costituito da atomi pesanti, tipicamente Uranio o Plutonio, per innescare e mantenere sotto controllo un processo di fissione nucleare che produce grandi quantità di energia. Al livello concettuale più semplice essa opera come la combustione, ad esempio, della legna, per cui a partire da un innesco iniziale si produce energia in quantità tale da mantenerla attiva finché vi è sufficiente combustibile. Il calore prodotto viene rimosso da un refrigerante, tipicamente ma non necessariamente l'acqua, che viene portato ad alta temperatura e pressione e usato per azionare una turbina accoppiata a un alternatore - sostanzialmente una grossa dinamo - che infine produce energia elettrica.

La quasi totalità delle centrali nucleare attualmente in funzione, qualunque sia la specifica soluzione costruttiva utilizzata, sono di II generazione, e solo alcune di esse sono di III generazione. Tutte le centrali di IV generazione sono ancora nello stadio prototipale con impianti di piccola taglia. Questo significa che, al 2023, qualsiasi proposta di realizzare una nuova centrale nucleare non può che basarsi su progetti di II o III generazione. 

Si fa presto a dire "III generazione"

Le differenze tra i reattori di II generazione e quelli di III generazione non sono così fondamentali come alcuni sostengono, fatta salva l'implementazione del concetto di sicurezza passiva. In sostanza le centrali di III generazione incorporano nel progetto soluzioni tecnologiche e costruttive che diminuiscono la complessità del sistema nel suo insieme, semplificano la manutenzione ordinaria, riducono la massa di prodotti di fissione per unità di energia prodotta sebbene al prezzo di una loro maggiore radioattività e tossicità, la cui entità dichiarata dai costruttori è però contestata da alcune organizzazioni ambientaliste, ad esempio Greenpeace. A causa dei maggiori costi determinati dai miglioramenti alla sicurezza, l'economicità dei reattori di III generazione è minore di quella degli impianti di II generazione di uguale potenza, per cui tutti i progetti proposti prevedono un aumento della taglia in termini di potenza di circa il 20% per sfruttare le economie di scala.

Le innovazioni più rilevanti riguardano la cosiddetta sicurezza passiva, ovvero la capacità del reattore di reagire a eventuali incidenti senza la necessità di un apporto di energia dall'esterno, e/o con minori interventi degli operatori. L'idea è quella di utilizzare le leggi fisiche naturali affinché, in caso di incidente, la configurazione del reattore evolva naturalmente verso una condizione di spegnimento, ad esempio utilizzando i moti convettivi senza la necessità di utilizzare pompe di circolazione. Nel caso dei uno dei più quotati progetti di III generazione, l'AP1000 di Westinhouse, questo comporta l'adozione di un edificio in cemento armato, necessario al contenimento dello spesso sarcofago metallico che racchiude il nocciolo, aperto sulla sommità, incapace quindi di contenere eventuali fughe di gas o vapori radioattivi; evento tuttavia giudicato quasi impossibile grazie ai miglioramenti della sicurezza introdotti con la ridondanza dei sistemi di protezione. 

Un'alternativa progettuale, basata sulla costruzione di reattori di III generazione di piccola taglia e modulari (Small Modular Reactors - SMR), non si è dimostrata economicamente vantaggiosa, se non per la produzione di energia in località isolate. Gli SMR implicano un aumento del rischio di proliferazione nucleare, oltre che di maggiore vulnerabilità nel caso di conflitti o disordini civili: un conto è presidiare un unico sito con quattro grandi centrali da 1000 MWe, altro è assicurare analoga protezione a 4 siti che ospitano ognuno 5 SMR da 200 MWe. Ospitare in un sito numerosi SMR è sì vantaggioso dal punto di vista delle conseguenze di un incidente grave, per la minore quantità di combustibile e quindi di scorie, ma il progetto dovrebbe farsi carico della necessità di assicurare il disaccoppiamento di un SMR vittima di un incidente dagli altri presenti nel sito. Insomma, anche questa soluzione presenta vantaggi e svantaggi, in funzione delle numerose variabili al contorno, molte delle quali difficilmente prevedibili.

In definitiva sento di poter affermare che i reattori di III generazione offrono sì un miglioramento in termini di sicurezza operativa, ma non in misura decisiva. In un dibattito corretto e intellettualmente onesto si dovrebbe quindi parlare di miglioramento della sicurezza, senza altri aggettivi. Anche perché, in ogni momento dell'ormai quasi secolare storia dell'energia atomica per usi civili, molte delle rassicuranti affermazioni offerte alla pubblica opinione sono state drammaticamente smentite dalla cruda realtà dei fatti.

Le altre variabili in gioco

La sicurezza di esercizio dei reattori a fissione è una variabile importante, probabilmente decisiva, ma non è l'unica. Ve ne sono almeno altre due, oltre alla già citata questione del rischio di proliferazione nucleare: la limitata disponibilità di Uranio nel mondo e il problema del confinamento e/o trattamento delle scorie radioattive.

Quando, nelle discussioni con gli amici, cito il problema della scarsità di Uranio in natura, scorgo nei volti un'espressione di sorpresa e incredulità. Ma questa è la pura e semplice verità. Una possibile soluzione a questo problema è stata proposta dal Nobel Carlo Rubbia che ha progettato un modello di reattore al Torio, tuttora in fase prototipale per la presenza di numerose criticità irrisolte. Ne parlerò più avanti nella II parte di questo articolo. Resta il fatto che, ai consumi attuali, l'Uranio estraibile dalle miniere esistenti durerà 80 anni e, con l'avvicinarsi dell'esaurimento, ne diverrebbe sempre più antieconomico l'utilizzo. Pertanto l'uso dell'Uranio (e del Plutonio a questo associato, in quanto questo elemento non si trova in natura ma è un sottoprodotto del ciclo dell'Uranio) non è una soluzione di lungo termine per l'umanità nel suo insieme. Mi si potrebbe obiettare che, a dispetto di ciò, l'elenco dei paesi che hanno annunciato l'intenzione di costruire nuove centrali nucleari è lungo e non accenna a diminuire. Questo è vero, ma allora bisogna sforzarci di capire l'apparente paradosso e non negare il dato di realtà fattuale! Questo è esattamente quello che mi accingo a fare, con l'avvertenza che, a questo punto del discorso, entrano in gioco la politica e le relazioni internazionali, o geopolitica come va oggi di moda. Va dunque assolutamente evitato un approccio alla discussione di tipo magico, di cui questo video del 2010 è un esempio eclatante.


Oggi il 10% circa dell'energia elettrica prodotta nel mondo proviene da centrali nucleari. In Europa questa frazione sale al 25%, soprattutto per il contributo della Francia dove la quota dell'energia elettrica prodotta da impianti nucleari ha raggiunto il 72%. Tuttavia molti degli impianti in esercizio nel mondo, in particolare proprio in Francia, sono vecchi e dovranno essere sostituiti. Pertanto, al fine di mantenere costante la quota di produzione di energia elettrica di fonte nucleare, i vecchi impianti non possono essere chiusi senza che nuovi siano stati posti in funzione. Questo genera una distorsione cognitiva che viene utilizzata dalla propaganda per manipolare il consenso dell'opinione pubblica, facendole credere che in tutto il mondo ci sia una corsa alla costruzione di nuove centrali, al fine di indurla ad accettare la costruzione di nuove centrali

In considerazione del fatto che le autorità di controllo hanno aumentato fino a 80 anni la vita di esercizio di un reattore, a condizione che vengano adottate le dovute sostituzioni e migliorie, e che 14 di quelli in esercizio hanno più di 40 anni, si comprende bene come non ci sia in realtà una particolare corsa al nucleare. Solo la Cina, che fa un basso utilizzo di centrali nucleari, e in misura minore l'India che si trova nella stessa situazione, hanno aperto numerosi nuovi cantieri, rispettivamente 27 e 5, mentre la Federazione Russa ha in costruzione 11 nuovi siti, necessari anch'essi per sostituire il vecchio parco di epoca sovietica giunto a fine vita. In tutto il mondo ci sono attualmente 442 centrali in funzione e 61 in costruzione: una quota del 13% di quelli attivi, che è ampiamente giustificata dal numero di reattori che stanno arrivando a fine vita.

La scelta di sostituire le centrali nucleari a fine vita costruendone altre, si spera più sicure, è una conseguenza della scelta strategica adottata dalla IEA (l’Agenzia Internazionale dell’Energia) che stima, a livello globale, una quota ottimale di nucleare in calo all’8% (dal 10% attuale) nello scenario Net-Zero Emission 2050. Alla base di questa scelta vi sono considerazioni di ordine sia economico che tecnico. Per quanto riguarda queste ultime, poiché l'energia elettrica non può essere immagazzinata, è necessario che l'insieme delle centrali di produzione segua le variazioni giornaliere di domanda di energia, ma i reattori nucleari sono poco flessibili da questo punto di vista, soprattutto quando gli elementi nucleari sono alla fine del ciclo. La Francia, che è arrivata a produrre il 72% dell'energia elettrica col nucleare, ha affrontato e parzialmente risolto questo problema sia introducendo miglioramenti tecnici nei sistemi di modulazione della potenza sia vendendo, in pratica regalando, l'energia elettrica prodotta giornalmente in eccesso ai paesi confinanti, tra cui l'Italia. Anche quest'ultima circostanza è stata ampiamente utilizzata, sul piano propagandistico, per manipolare l'opinione pubblica, regolarmente trattata come fosse composta da bambini delle elementari.

Dal punto di vista economico, e questo vale soprattutto per i paesi più industrializzati o che desiderano industrializzarsi, il mix ottimale prevede una quota significativa, non meno del 20%, di produzione di energia elettrica da fonte nucleare. Tuttavia i gravi incidenti che si sono già verificati hanno indotto le autorità di controllo a imporre vincoli di sicurezza più stringenti con l'esito di accrescere sensibilmente i costi di produzione. 

Ad esempio l'ultima centrale nucleare costruita in Europa, il reattore finlandese di III generazione EPR Olkiluoto 3 della potenza di 1600 MWe, da una stima di costo iniziale di 3,2 mld di euro, relativa al solo reattore, ha raggiunto a consuntivo il costo di 8,5 mld, ed è entrata in esercizio solo all'inizio del 2022 con un ritardo di oltre 15 anni rispetto ai tempi stimati di consegna.

Il terzo reattore dell’impianto di Flamanville, in Normandia, ha richiesto oltre 14 anni dall’inizio dei lavori, con un costo lievitato da 3,3 a 12,4 miliardi di sterline. 

La costruzione della terza unità della centrale di Hinkley Point nel Regno Unito (due reattori EPR da 1600 MWe), iniziata nel 2017 con l'obiettivo di sostituire due unità giunte a fine vita, si sarebbe dovuta concludere nel 2023 con un costo di 18 miliardi di sterline, ma la nuova data prevista per l'entrata in servizio è giugno 2027 con costi lievitati a quasi 26 miliardi di sterline.

A dispetto di tutto questo i governi continuano a commissionare nuovi impianti nucleari, prevalentemente in sostituzione di altri giunti a fine vita, con l'eccezione della Cina e dell'India che, al contrario, puntano a incrementare nettamente la quota di produzione da fonte nucleare.  In India e Cina la quota di produzione di energia elettrica da fonte nucleare è, rispettivamente, il 3,7% e l'1,8%, ben lontana dalla soglia ottimale per un paese industrializzato, che è di circa il 20%. Sia la Cina che l'India puntano ad incrementare la quota di produzione nucleare per garantire la fornitura stabile di energia elettrica al loro sistema industriale e per costituire riserve di plutonio a fini bellici. Soprattutto per raggiungere il controllo completo dell'intera filiera nucleare, dall'estrazione allo smaltimento delle scorie.

L'orientamento generale sembra così essere quello di mantenere sostanzialmente costante la potenza attualmente generata nel mondo da fonte nucleare, così da garantire la disponibilità nel combustibile per altri 80 anni, che potrebbero salire a 135 sfruttando siti di estrazione meno ricchi. Se, invece di far ciò, si aumentasse sensibilmente la potenza prodotta, le riserve di Uranio si ridurrebbero proporzionalmente, raggiungendo il picco di disponibilità ben prima che siano disponibili soluzioni alternative.

Un problema che potrebbe porsi è il fatto che, in un periodo di accesa competizione internazionale come quello attuale, i paesi puntano ad assicurarsi il mix ottimale di produzione di energia elettrica in funzione delle loro specifiche esigenze nazionali, sia economiche che militari, spesso ponendo in secondo piano altre considerazioni. 

Il caso della Germania è esemplare. Dopo aver raggiunto nel 2011 una quota ottimale di produzione elettrica da fonte nucleare del 18% circa, ha fatto la scelta opposta, avviando il decommissioning delle sue centrali nucleari e, in prospettiva, di quelle a carbone, avendo puntato tutto sulle forniture di gas e petrolio russo a basso costo, sulla produzione ancora per qualche anno con centrali a carbone (circa il 50%) e in maniera cospicua sul solare-eolico per la frazione variabile (circa il 45%). Una scelta del tutto coerente con il suo status di nazione a sovranità limitata ma a forte vocazione mercantilistica, in un contesto internazionale molto diverso da quello odierno. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha messo in crisi questa strategia, mettendo il paese nella scomoda situazione di non poter più contare sulla garanzia di forniture di gas russo a basso costo e, al contempo, dover fare i conti con la presenza di partiti politici, fanaticamente allineati alla narrativa dell'agenda ambientalista, che osteggiano l'uso del carbone come fonte di energia. Il problema del mix scelto dalla Germania, ma anche da tutti i paesi che hanno puntato troppo sulle rinnovabili, è costituito dall'incertezza della loro disponibilità. Da ciò discende la necessità di avere una quota di produzione costante, che per un paese industrializzato è almeno del 20% ed è normalmente assicurata dal nucleare, potendo sopperire ai picchi di domanda, e/o all'indisponibilità delle rinnovabili, con centrali a gas che possono essere messe in funzione e spente con grande rapidità. Un aspetto centrale del problema non è solo quanta energia elettrica si produca in un anno, bensì la disponibilità di una potenza elettrica installata sufficiente a superare i picchi di domanda. La riduzione, o addirittura l'interruzione dei flussi di gas dalla Russia, pone una seria ipoteca sul futuro industriale della Germania, a causa del suo mix energetico troppo sbilanciato sulle rinnovabili e sulla produzione con centrali a carbone, perché aumentare ulteriormente la quota di energia rinnovabile sarebbe insensato mentre le pressioni ambientaliste, affinché rinunci al carbone, possono diventare insostenibili.

Alla luce di queste brevi considerazioni si intuisce come l'agenda ambientalista, con i suoi diktat differenziati da nazione a nazione - si pensi alla produzione di gas da fracking negli USA senza particolari proteste delle agenzie green - sia anche uno strumento di politica internazionale volto a indirizzarne le scelte in funzione del rimodellamento della divisione internazionale del lavoro e del loro ruolo di potenza, in un periodo foriero di conflitti causati dall'esaurimento, nella prospettiva di un secolo, di importanti fonti energetiche, prima fra tutte l'Uranio e, a seguire, le altre.

Si è parlato a lungo del picco del petrolio, poi questa preoccupazione è stata messa un po' in disparte quando ci si è resi conto che, ai consumi attuali, c'è disponibilità di petrolio e gas per alcuni secoli, ma il dettaglio da tenere presente è la specificazione "ai consumi attuali". Questi non potranno che crescere perché i consumi di energia (e non solo, sebbene questo sia l'aspetto più importante perché, disponendo di energia, a tutto si trova soluzione) sono destinati a crescere in quanto essi sono intimamente legati allo sviluppo tecnologico. E' ormai questo che alimenta i consumi, non il contrario come è avvenuto per i 9/10 della storia della civiltà. L'enorme progresso tecnologico, e il fatto che esso sia nella disponibilità di paesi abitati da miliardi di persone, fa sì che, se pure possiamo sperare che il consumo di Uranio possa mantenersi stabile così da farlo durare almeno un secolo (anche per gli evidenti rischi dell'attuale tecnologia) certamente non sarà così per il gas e il petrolio. Mettendo da parte l'irenica speranza di una cooperazione tra i popoli del mondo, vi sono due sole strade percorribili prima che la competizione per le risorse, di cui la più importante è quella energetica, si risolva in un conflitto mondiale: 1) lo sviluppo di altre forme di energia e 2) la stabilizzazione dei consumi per via di una riduzione della popolazione.

Mi occuperò della prima possibilità, tralasciando la seconda. Le strade percorribili nella ricerca di nuove fonti di energia sono entrambe legate allo sviluppo dell'energia nucleare, sia di fissione che di fusione. 

II parte: le centrali nucleari del futuro

Ci sono due possibilità, una rivoluzione del ciclo del combustibile nei processi di fissione nucleare e la soluzione dei problemi che ancora impediscono lo sfruttamento della fusione nucleare.

Come sappiamo il ciclo del combustibile basato sull'Uranio ci pone davanti al rapido esaurimento di questo materiale, per non parlare degli annosi problemi causati dai rischi di questa tecnologia e dallo smaltimento dei rifiuti radioattivi, principalmente Plutonio-239, ma è stato proposto un ciclo del combustibile basato sul Torio-232. Si tratta di un materiale molto diffuso nella crosta terrestre che, bombardato con neutroni, si trasmuta in torio-233, il quale decade in protoattinio-233 che, a sua volta, si trasmuta in uranio-233 fissile. La quantità di Torio-232 nella crosta terrestre è almeno il triplo dell'Uranio, ma di quest'ultimo solo lo 0,7% è costituito dal suo isotopo Uranio-235 fissile. Ciò vuol dire che un kg di Torio 232 equivale in termini di resa a 14 volte un kg di Uranio. Dunque, se le riserve accertate di Uranio sono sufficienti per 80 anni, allora le riserve accertate di Torio-232 (che sono il triplo di quelle di Uranio) sarebbero sufficienti, ai consumi attuali, per oltre 3000 anni!

Purtroppo lo sfruttamento del ciclo del Torio-232 è ancora nella fase prototipale. Uno dei problemi, che pone sfide ingegneristiche importanti, riguarda la produzione di protoattinio-233 il quale, essendo un assorbitore di neutroni, tende a spegnere la reazione e deve essere rimosso dal nocciolo del reattore mentre viene prodotto. Vi sono poi altri problemi sui quali non vale soffermarsi, ma il dato certo è che lo sviluppo del ciclo del Torio-232 è ancora nella fase prototipale, terminata la quale sarà necessario costruire la filiera di produzione vera e propria. Il paese che più sta investendo nel ciclo del Torio-232 è la Cina, che ha già esaurito le sue scarse riserve di Uranio. Dovesse riuscirci ci troveremmo dinanzi a un cambio epocale, il primo grande successo tecnologico di un paese non occidentale.

L'occidente, invece, sembra concentrarsi sulla fusione nucleare, ma ancora una volta dobbiamo rilevare un approccio comunicativo completamente propagandistico teso a far credere che la chimera di produrre energia dall'acqua (altra semplificazione francamente inaccettabile) sia a un passo dall'essere raggiunta. Nei giorni scorsi hanno avuto molta visibilità le esternazioni dell'amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi, il quale, parlando della partecipazione del suo gruppo alla realizzazione del prototipo di reattore a fusione Sparc sviluppato dalla sartup "Commonwealth Fusion Systems" del Massachusetts Institute of Technology (Mit), si lascia andare a dichiarazioni incredibili per chiunque conosca il vero stato della ricerca in questo campo. "Commonwealth Fusion Systems si propone di innescare la fusione per poi farla andare avanti in autonomia, come avviene sul Sole. Il passo successivo riguarderà la costruzione della prima centrale elettrica a fusione, Arc, che dovrebbe sorgere negli anni ‘30". Aggiunge Descalzi : “Avremo poi davanti a noi quasi vent’anni per diffondere la tecnologia e raggiungere gli obiettivi di transizione al 2050”. 

Raramente mi sono trovato davanti a un'affermazione così fuorviante sul piano della comunicazione. Innanzi tutto chiariamo che il reattore Sparc, di cui parla Descalzi, non è una tecnologia pulita, cioè non è vero che non produca inquinamento radioattivo. La reazione nucleare utilizzata nel reattore Sparc è quella Deuterio-Trizio, due isotopi dell'idrogeno, in cui un nucleo di deuterio si fonde con un nucleo di Trizio per dar luogo a un nucleo di Elio e un neutrone, producendo energia. Ora il numero di neutroni prodotti dal plasma in cui avviene questa reazione è altissimo, un flusso nell'ordine dei diecimila miliardi di neutroni per centimetro quadrato al secondo che, colpendo la struttura del reattore, la rende radioattiva per circa mille anni. Un problema certamente minore rispetto al plutonio-239 prodotto nelle reazioni di fissione, ma non trascurabile. Ma c'è dell'altro. Dei due elementi della reazione, il deuterio e il trizio, il secondo è estremamente raro, ha un costo di 30 mln di euro/kg e le sue riserve mondiali sono attualmente nell'ordine di 27 kg, tutte prodotte come materiale di scarto nei reattori a fissione di tipo CANDU e accumulati negli ultimi decenni. Ora un reattore a fusione commerciale che producesse appena 400 MWe di energia elettrica ne consumerebbe circa 60 kg/anno, il doppio di tutto il trizio attualmente disponibile a livello mondiale. Una soluzione potrebbe essere quella di produrre il trizio nel reattore stesso circondandolo di litio, ma la tecnologia non è ancora pronta e, inoltre, l'eventuale adozione generalizzata della reazione di fusione deuterio-trizio farebbe esplodere la domanda di litio.

Vi è un ulteriore problema comunicativo relativo a quanto viene riportato dai giornali in merito al rapporto fra l'energia prodotta dalla reazione e quella necessaria per sostenerla. Si tratta del Q, che deve essere maggiore di 1. Ma quanto maggiore di 1? Anche in questo caso vi è uno scarto grave con la realtà. In genere, nella comunicazione, si fa riferimento al Q scientifico o di reazione, ovvero al rapporto fra l'energia prodotta e quella strettamente necessaria al confinamento del plasma, ma non è il solo che deve essere considerato. Vi sono anche il Q ingegneristico o di reattore, che comprende tutta l'energia spesa per l'operatività del reattore, e infine il Q economico che tiene conto anche di tutta l'energia spesa per la costruzione del reattore. Nel caso del prototipo Sparc di cui parla Descalzi, che dovrebbe entrare in funzione nel 2025, a fronte di un Q scientifico previsto pari a 2, il Q ingegneristico non è stato dichiarato, ma un progetto analogo, ITER, la cui entrata in funzione è prevista nel 2035, dichiara un Q ingegneristico di 0,5 a fronte di un Q scientifico di 10, cioè 20 volte meno dell'energia che dovrebbe essere prodotta dalla reazione solo per assicurare la convenienza operativa. Ma il vero parametro da considerare è il Q economico, che prende in considerazione tutti i costi energetici dell'intera filiera che, per essere maggiore di 1, secondo alcune stime, richiederebbe un Q scientifico di almeno 200.

Vi sono naturalmente altri progetti concorrenti, tra i quali il più ambizioso è il reattore Da Vinci, sviluppato da TAE e Google e basato sulla reazione Idrogeno-Boro-11, che non produce neutroni e quindi è sostanzialmente "pulita", ma per poter funzionare richiede una temperatura del plasma di un miliardo di gradi, un traguardo mai raggiunto. Questo implica ulteriori ricerche nel campo dei super conduttori, ma anche una maggiore capacità di confinare il plasma, la cui instabilità cresce al crescere della temperatura. Per superare questo problema TAE-Google intendono sviluppare algoritmi di Intelligenza Artificiale che siano in grado di "apprendere" dall'esperienza come raggiungere lo scopo.

Tutti questi progetti stanno attirando enormi finanziamenti, sebbene il loro esito sia non solo incerto ma, con ogni probabilità, privo di interesse per le applicazioni commerciali di produzione di energia elettrica per usi civili. Se ciò accade è perché l'insieme delle tecnologie interessate ha un'enorme ricaduta in ambito militare, soprattutto per la Marina Militare USA. Come noto le portaerei, come gli incrociatori e le fregate, sono sempre più vulnerabili ad attacchi con missili ipersonici, ma una soluzione potrebbe essere l'uso di cannoni elettromagnetici che, per funzionare, hanno bisogno di grandi quantità di energia iniettata nei circuiti in tempi brevissimi. Da qui l'interesse per le ricerche sui superconduttori e sulle tecniche di confinamento del plasma ad altissime temperatura. E' facile capire che, in ottica militare, il fattore più importante non è il Q economico, e solo in parte quello ingegneristico: salvare una portaerei del costo di miliardi di dollari e di enorme valore strategico val bene spendere un po' di energia!

In qualche modo tutto questo è collegato anche alle alte bollette dell'energia elettrica e del gas che si pagano in Italia e in tutta Europa, conseguenza di inefficaci controlli sulle pratiche speculative poste in essere dalle compagnie private, poiché gli extra utili possono essere reinvestiti, come nel caso dell'entrata di ENI nel programma Sparc, in compartecipazioni a progetti le cui ricadute militari fanno ampiamente premio sulle vaghe prospettive di sfruttamento commerciale. Ma di tutto questo non si parla nel dibattito pubblico, ancora avvitato esclusivamente sulle problematiche dell'inquinamento radioattivo, del rischio di incidenti e del trattamento delle scorie, che la guerra incombente ha reso secondarie.

Conclusioni

Ho trattato l'argomento un po' a volo d'angelo, molto altro può essere scritto. In particolare, ho volutamente tralasciato di affrontare la scelta di risolvere il problema dei consumi energetici imponendo, a livello mondiale, un deciso taglio ai consumi, eventualmente con un'attenuazione indotta della dinamica demografica. Ricordo la necessità di tenere presente il sicuro esaurimento, in meno di un secolo, delle riserve di Uranio, che alimentano il 20%-30% dei consumi nelle economie industrializzate e attualmente il 10% dei consumi mondiali. Questa possibilità, anche alla luce della vicenda covid, non può essere derubricata al rango di fantasia complottista sebbene molti segnali, tra cui il cambio di passo impresso dalla decisione della Russia di entrare in Ucraina, sembrano suggerire l'abbandono, almeno momentaneo, di questa prospettiva che richiede, per essere perseguita, l'accordo dei maggiori centri di potere del mondo. Quello che possiamo dire con certezza è che solo la Cina sta investendo nella tecnologia dei reattori a Torio-232 che ha implicazioni solo civili e, se sviluppata, può risolvere sia il problema del picco dell'Uranio che quello dell'eccessiva produzione di scarti radioattivi delle centrali a fissione tradizionali. L'intero Occidente, al contrario, punta sulla fusione nucleare, con poche o nulle possibili ricadute commerciali, ma strategica dal punto di vista della superiorità militare. E la Russia? La Russia, che naviga su un mare di petrolio e soprattutto di gas, sufficienti per alcuni secoli, combatte in prima linea contro un Occidente, a guida americana, che lotta contro l'incubo della fine della sua superiorità.

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