sabato 16 gennaio 2021

Unum castigabis, centum emendabis (ne castigherai uno, ne correggerai cento)

Stiamo subendo tutti l'invasiva censura dei social media, i quali non si limitano a collezionare i nostri dati per fini commerciali ma, già da tempo, si sono trasformati in attori politici ed esercitano, per tali fini, azioni di controllo della libera espressione. Ci sono stati casi eclatanti, uno su tutti la chiusura dell'account twitter del presidente ancora in carica degli Stati Uniti Donald Trump. La formula generalmente utilizzata per giustificare tali azioni è quella secondo cui l'utente avrebbe violato gli standard della community, sebbene la precisa conoscenza di tali standard sia offuscata da fumose descrizioni degli stessi. La conseguenza è quella di una completa discrezionalità, senza che vi sia alcuna possibilità di appello.

Le piattaforme che più si distinguono in questa opera di censura, che raramente colpisce contenuti realmente volgari e offensivi ma si accanisce sulle idee minoritarie del dibattito culturale e politico, sono Facebook, Twitter e Youtube. Il caso di Youtube è particolarmente grave per le caratteristiche dei contenuti che ospita. Infatti, mentre Facebook e Twitter ospitano prevalentemente brevi post e commenti, Youtube è diventata nel tempo un ricco archivio di video che tengono traccia del dibattito culturale e politico, un archivio al quale si può attingere per alimentarlo. Per questa ragione la chiusura di un canale Youtube può costituire, e costituisce in effetti, una grave lesione del diritto di rappresentare liberamente una visione culturale e politica. 

Dietro la formula "gli standard della community" si cela in realtà una grave violazione del diritto di espressione, che finisce col non essere tutelato da nessuna norma giuridica. Certo, molti argomentano che, dal momento che si usufruisce di una piattaforma privata, per di più a titolo gratuito, non vi sia il diritto da parte degli utenti a protestare. Questa argomentazione, che sul piano formale può apparire corretta, tuttavia elude artificiosamente il problema del diritto sostanziale alla libertà di espressione. Tale diritto dovrebbe essere difeso da una comunità, quella statale, che ha il diritto-dovere, nonché la forza, di ergersi al di sopra di qualsiasi community gestita da privati che opera sul territorio, imponendo i principi, i valori e le leggi che regolano l'esistenza della Nazione. Ciò tuttavia non accade.

La latitanza dello Stato nel campo della difesa del diritto di espressione, sancito dall'articolo 21 della Costituzione, e sotto il controllo esclusivo della sola Magistratura vincolata al rispetto delle leggi e della Costituzione, costituisce un enorme problema culturale e politico che è ormai necessario affrontare. Il primo passo in questa direzione non può che essere quello di una rivolta generalizzata degli utenti delle piattaforme che non rispettano il diritto sancito dall'articolo 21 della Costituzione. Questa rivolta deve assumere la forma di una fuga da esse, alla ricerca di altre che adottino comportamenti più congrui, in attesa che il Parlamento legiferi sul tema.

Il comportamento, sprezzante e irricevibile, delle piattaforme in oggetto deve essere castigato con la massima determinazione. Le alternative non mancano, basta cercarle, né deve intimorirci il fatto che le nuove piattaforme che eventualmente dovessero beneficiare di una migrazione di massa potrebbero, esse stesse, porre in essere comportamenti simili alle vecchie, perché il principio "Unum castigabis, centum emendabis" è eterno e vale dalla notte dei tempi. Non è forse, esso, lo stesso che si pratica quando dall'alto si intende colpire la democrazia? Colpirne uno per educarne cento, credetemi, funziona! Anche dal basso.

Abbandoniamo Facebook, Twitter, Youtube, e l'effetto sarà sinergico: cento per cento per cento! La scelta è tra la visibilità e la libertà, scommettiamo sulla libertà e non ce ne pentiremo.

Fiorenzo Fraioli

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