Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. [...] Il maggiore degli economisti italiani viventi, il nostro Einaudi, ha scritto che il capitalismo storico è al tramonto. Se altri non vi è, sarò io a dire la grandezza del capitalismo, che ha preso in mano, un secolo fa, un'Europa di pochi milioni di uomini, e ne ha aumentato la popolazione con un ritmo sconosciuto al passato, ed ha diffuso la civiltà sugli altri continenti, ha conquistato i più grandi progressi della scienza e del progresso tecnico, ha creato la grande industria e l'agricoltura intensiva, ha portato il tenore di vita delle masse ad un livello non mai raggiunto, ha preparato le loro vittorie di domani, è stata l'epoca più prospera e gloriosa di tutta la storia. Ma noi non possiamo ancora vivere con le forme di quel tempo. Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private. Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro. Non potevamo rifiutarci a questa affermazione. Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro. Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti». Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori? Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopolî e di privilegi. Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori. Perché dobbiamo avere paura del nome e dei diritti del lavoro?
Il diritto al lavoro: qui vi sono due opposizioni; una di forma, per il rinvio dell'affermazione al preambolo, ed un'altra che è contro il diritto al lavoro, perché ne ritiene impossibile la garanzia. Vorrei che anche la prima corrente chiarisse bene i suoi propositi, e se è favorevole al principio vedesse di sacrificare lo scrupolo alla sostanza.
Si è obbiettato: se proclamate il diritto al lavoro, e non potrete mantenere subito l'impegno, verrà l'esasperazione, per la tradita promessa. Ma l'esasperazione non c'è anche adesso con tutte le dimostrazioni di disoccupati al Viminale? La Costituzione non poteva tacere del diritto al lavoro, e lo ha formulato nel modo più cauto e con grande equilibrio, come vi ha detto l'onorevole Ghidini. Lo Stato riconosce il diritto e promuove le condizioni per attuarlo. Il principio è posto; e va realizzato nei termini concreti e graduali delle possibilità.
Dovere del lavoro: l'abbiamo pur qui inteso nel senso più ampio, anche del lavoro intellettuale, e di ogni attività e funzione che concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società. Non abbiamo creduto che in una Costituzione nuova come la nostra si potesse dimenticare il motto paolino, che è così cristiano, ma è scritto anche nella Costituzione di Stalin: «Chi non lavora non mangia». E che, si chiede, non si può oggi vivere di rendita? Sì, almeno per ora, ma nessuno può essere inerte redditiero; e deve farsi attivo e compiere qualche lavoro socialmente utile.
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