Il cambio di struttura
Sorge spontanea la domanda su come sia stata possibile
una trasformazione profonda come quella intercorsa tra il 1978 e il 1990 senza
che si manifestassero nel paese forti resistenze. E’ opportuno cercare di
sfuggire alla tentazione di un approccio “complottista”,
per tentare di inquadrare la situazione italiana nell’orizzonte più ampio del
quadro internazionale. Il 1978 e il 1979 erano stati anni particolarmente
favorevoli per l’economia italiana, con incrementi del PIL rispettivamente del 5,86%
e del 3,43%. Anche la bilancia dei pagamenti era risultata in attivo, di 6997 e
1824 miliardi di lire, mentre il tasso di disoccupazione si manteneva stabile
intorno al 7.6%. La vitalità dell’economia italiana era il risultato, complesso
e contradditorio, della politica statalista del decennio precedente e dell’arrivo,
sul mercato del lavoro, di una nuova generazione di imprenditori che,
soprattutto nel nord-est, davano vita a una proliferazione di piccole imprese a
conduzione familiare il cui successo si basava, oltre che sullo spirito di
sacrificio e una grande inventiva, anche sull’ampio ricorso al lavoro nero. Gli
italiani, inoltre, erano stanchi del terrorismo e degli scandali che
periodicamente investivano la politica, ragion per cui si stava sviluppando nel
paese un clima favorevole all’impegno lavorativo
e al consumo individuale. Condizioni
ideali per una ripresa di slancio della crescita, tant’è che si vagheggiò di un
possibile secondo miracolo italiano. La doccia gelata arrivò dunque
inaspettata. Il secondo shock petrolifero, nel settembre del 1979, riaccese
l’inflazione. La risposta americana, come già detto, fu una dura stretta
creditizia, operata da Paul Volcker nel triennio ’80-’83, che stroncò
l’inflazione americana (sarebbe scesa dal massimo del 13.5% del 1981 al 3,2%
del 1983) ma provocò una caduta generalizzata del PIL mondiale. L’economia
italiana ne fu investita in pieno, scontando per sovrappiù criteri di
programmazione economica stabiliti in funzione della crescita del biennio
precedente. La crisi, indotta dalla stretta creditizia americana, fece
letteralmente “saltare i conti”. In
un anno, maggio 1980-maggio 1981, la produzione industriale diminuì del 10%,
mentre si consumava un radicale cambio di rotta di politica economica, al quale
fu opposta una debole resistenza, come dimostra l’episodio del “divorzio” (luglio 1981), consumatosi con
un semplice scambio epistolare tra il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e
il Governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, e senza alcuna
discussione parlamentare.
Conviene ripercorrere alcuni dei fatti del biennio
1980-81 che segnarono una svolta nella politica del nostro paese.
La marcia dei 40000 |
Il 18 ottobre 1980 si insediava il primo governo Forlani,
pochi giorni dopo la marcia dei quarantamila a Torino (14 ottobre 1980). Nello
stesso periodo scoppiava il secondo scandalo dei petroli, che rivelava un
gigantesco giro di malaffare che coinvolgeva direttamente i vertici delle
Fiamme Gialle, accusati di aver sottratto al fisco ben 2000 miliardi di lire.
Il 23 novembre 1980, infine, un terremoto di forte intensità sconvolgeva
l’Irpinia, terra natale di Ciriaco De Mita, destinato di lì a breve a diventare
uno dei protagonisti della politica italiana. Ci sono, in questi tre episodi, gli
elementi di fondo che caratterizzavano la società italiana di quel periodo: 1) la
disponibilità, espressa da una parte della classe lavoratrice, di chiudere la
stagione dei conflitti esasperati per sperimentare nuovi percorsi di
concertazione 2) la crescente degenerazione della macchina statale 3)
l’entusiasmo solidale di un intero popolo che si precipitò in soccorso dei
compatrioti colpiti dal disastro naturale.
Il primo elemento finì con l’essere sfruttato dalle
classi dominanti per indebolire il sindacato, e avrebbe avuto il suo esito
dodici anni dopo con le politiche di concertazione del costo del lavoro del
tutto sbilanciate a sfavore del mondo del lavoro. D’altro canto, è pur vero che
non vi fu, da parte dei partiti e delle organizzazioni popolari, la chiara
percezione del pericolo insito nel proliferare di alti livelli di corruzione
nella macchina statale, e anzi, davanti all’avanzata dell’ideologia liberista,
invece di rivendicare con decisione il valore dell’imparzialità delle
istituzioni rispetto ai conflitti di classe, partiti e sindacati di sinistra
scelsero la strada di una difesa cieca, e senza una visione complessiva, di
piccoli privilegi di categoria o di casta. Prese così l’avvio quel processo di
disincanto e sfiducia verso tutto ciò che è pubblico che avrebbe caratterizzato
i decenni successivi. L’entusiasmo solidale delle migliaia di italiani che
erano accorsi in Irpinia per prestare soccorso si sarebbe trasformato, nel giro
di un decennio, nella rabbiosa rivendicazione autonomistica della Lega Nord.
La marcia dei quarantamila giunse in un momento di duro
confronto tra il governo e gli industriali. Questi ultimi chiedevano
disperatamente una svalutazione della lira, che il governo Forlani non voleva
concedere per rispettare gli impegni sottoscritti con l’ingresso nello SME. La
sconfitta del sindacato, e il conseguente via libera ai licenziamenti, furono
il segnale che, da allora in poi, gli aggiustamenti di competitività sarebbero
stati trasferiti dalla svalutazione della moneta a quella del salario. Era la
definitiva affermazione del modello dell’EUR.
La svalutazione monetaria, tuttavia, ci fu lo stesso. Il
22 marzo 1981, quando i mercati non se l’aspettavano, nell’ambito di un
generale riallineamento dei cambi nello SME la lira svalutò del 6%. La decisione fu accompagnata da un’ulteriore
stretta creditizia, con l’innalzamento del tasso di sconto al 19%. Nelle
considerazioni finali del 31 maggio 1981 Carlo Azeglio Ciampi dichiarò “Non è più tollerabile un’inflazione, la cui
componente di fondo continua ad elevarsi e ci allontana dai paesi con i quali
siamo uniti per storia e per cultura. Un’inflazione da nove anni non inferiore
al dieci per cento, da due intorno al venti per cento… ha alterato l’essenza
stessa della moneta, svuotandola in gran parte della sua funzione di riserva di
valore, per lasciarle solo un’umiliata funzione di numerario e di mezzo di
pagamento… il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di
costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della Banca Centrale, le
procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del
reddito”.
E ancora: “Ciò
impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento,
l’istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di
tesoreria, la pratica dell’acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la
sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che
cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei BOT non aggiudicati alle
aste”.
Come si vede, un programma di stampo monetarista, sul
piano economico, e con evidenti risvolti antidemocratici, che tuttavia non ebbe
il necessario risalto nel dibattito politico anche perché, dieci giorni prima, era esploso lo
scandalo P2 (che di lì a poco avrebbe provocato la caduta del governo Forlani).
Qualche mese dopo un’ondata di vendite investì la borsa italiana, costringendo
il nuovo governo, guidato da Giovanni Spadolini, a chiudere la borsa italiana
per una settimana. Seguirono provvedimenti di taglio della spesa pubblica e, il
4 ottobre 1981, una svalutazione della lira del 4% nell’ambito di un generale
riallineamento nello SME.
Era insomma entrato in azione un meccanismo
macroeconomico profondamente diverso rispetto agli anni settanta. La
rivalutazione del dollaro americano deprimeva la domanda mondiale, penalizzando
le nostre esportazioni, ma anche aumentando i costi per l’importazione di
materie prime (soprattutto petrolio); l’aggancio allo SME creava tensioni
valutarie che si scaricavano all’improvviso in occasione dei frequenti
riallineamenti, quasi un antipasto di quello che sarebbe accaduto dieci anni
dopo, nel 1992; i tagli alla spesa pubblica entravano nel linguaggio politico,
mentre, trascinati dal dollaro forte, gli interessi pagati dal tesoro sui
titoli di debito pubblico cominciavano a salire. Quest’ultimo fenomeno, in particolare, si
sarebbe rivelato ben presto esplosivo, perché la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitali avrebbe messo
lo Stato italiano in competizione sul mercato dei capitali privati, nella
ricerca di risorse finanziarie. La Banca d’Italia non solo non finanziava più i
deficit con interessi reali negativi (di fatto creando moneta in funzione delle
necessità del Tesoro), ma si ritirava dal ruolo di acquirente di ultima
istanza. Si realizzava quanto auspicato
da Ciampi: la creazione di moneta diventava compito di un’entità (la Banca
Centrale) indipendente dalla volontà dei governi, sebbene questo indirizzo
fosse, per così dire, indorato con parole rassicuranti: “V’è chi crede che l’esercizio di questa autonomia in senso
inflessibilmente restrittivo sia condizione sufficiente per assicurare
l’equilibrio e per contenere gli stessi disavanzi pubblici. La tesi, se poteva
esser vera in presenza di mercati atomistici e di un’amministrazione pubblica
con peso e funzioni assai più limitati di quelli attuali, non è vera oggi. Non
c’è una mano invisibile che operi un rapido e duraturo riequilibrio della
dinamica salariale e del disavanzo pubblico in risposta al controllo della
moneta”. Con queste parole, pronunciate nelle considerazioni finali del
maggio 1981, Ciampi introduceva il tema della concertazione tra le parti
sociali. Un’interpretazione più stringente della quale era già stata fornita da
Mario Monti nel 1978 coniando il termine “politica
monetaria d’anticipo”, sul modello della Bundesbank tedesca. Questa
consisteva nel dichiarare in anticipo la quantità di moneta che la Banca
Centrale era disposta a creare annualmente, così da condizionare la
contrattazione tra sindacati e imprenditori. Insomma: tutto il potere al Capitale!
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