Il divorzio tra Tesoro e Banca
d’Italia
Beniamino Andreatta con Giorgio Napolitano |
L’adesione allo SME rispondeva a un’esigenza
squisitamente politica: il controllo dell’inflazione interna, causata dal clima
di accesa rivendicazione salariale di quegli anni, per mezzo di un vincolo
esterno. Aderendo allo SME, seppure con il momentaneo beneficio di una banda di
oscillazione piuttosto ampia, l’Italia si avviava a rinunciare allo strumento
della svalutazione monetaria per compensare le perdite di produttività.
La strategia politica per ottenere l’assenso delle forze
di sinistra fu l’accorta gestione dell’apertura delle funzioni di governo a
quel ceto politico, anche alimentando la tradizionale rivalità tra i socialisti
e i comunisti. Il processo di ammorbidimento dell’opposizione delle sinistre fu
accompagnato da un’intelligente operazione culturale, il cui perno fu il
quotidiano “Repubblica” di Eugenio Scalfari.
Per avere successo, tuttavia, l’operazione doveva
contare sull’esistenza di un blocco sociale molto più ampio di quello
rappresentato dai tradizionali ceti privilegiati o dai lettori conquistati
dalla capziosa narrazione di un quotidiano. Questo blocco, che all’epoca non
esisteva, fu letteralmente creato dal nulla dalle conseguenze dell’entrata
nello SME, come pure da una lunga serie di modifiche sia normative che
consuetudinarie, una delle quali fu il cosiddetto “divorzio Tesoro-Banca d’Italia”. Con questa espressione ci si
riferisce ad una decisione, assunta nel luglio 1981, in pieno accordo tra il
ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della BC Carlo Azeglio
Ciampi, e senza alcuna discussione
parlamentare, in seguito alla quale la Banca d’Italia fu esentata
dall’obbligo di porsi come acquirente residuale dei titoli del debito pubblico
rimasti eventualmente invenduti alle aste.
In realtà, a partire dal “divorzio”, il sostegno della Banca
d’Italia all’acquisto dei titoli del Tesoro continuò, per poi scendere sul
finire degli anni ’80 quando, concluso il processo di liberalizzazione dei
movimenti dei capitali, alla domanda nazionale di titoli si affiancò quella
degli investitori esteri. Corrisponde, dunque, solo parzialmente al vero la
vulgata secondo cui la causa principale, e diretta, dell’aumento del debito
pubblico (che dal 1981 al 1994 passò dal 59% al 123% del PIL) sia da
imputare al “divorzio”, gli effetti del quale devono essere inquadrati in una
prospettiva più ampia che comprendeva, tra l’altro, l’obiettivo di limitare la
capacità di intervento dello Stato nell’economia e di introdurre un principio,
quello dell’indipendenza della Banca Centrale, che avrebbe profondamente
cambiato gli equilibri politici e il senso stesso della parola “democrazia”.
Coloro che ascrivono al “divorzio” questa responsabilità sostengono, correttamente, che la
fine dell’obbligo di acquisto residuale dei titoli di stato ebbe l’effetto di
spostare dal venditore (lo Stato) agli acquirenti (i mercati) il potere di
determinare i tassi di interesse. Questi, pertanto, sarebbero aumentati in modo
abnorme determinando l’esplosione del debito pubblico. Tuttavia le ragioni
principali dell’aumento dei tassi di interesse reali (differenza tra interesse
nominale offerto ai sottoscrittori e tasso di inflazione) furono l’adozione di
una politica monetarista da parte della FED e, soprattutto, l’adesione allo
SME.
Il cambio di una moneta dipende dalla legge della domanda e dell’offerta. Come
sappiamo, quando un paese esporta più di quanto importi la sua moneta è molto “domandata” e quindi sale di prezzo (si
rivaluta), il contrario quando le importazioni superano le esportazioni. Ma una
moneta può essere “domandata” anche
per un’altra ragione, e cioè quando la Banca Centrale offre titoli di stato con
un interesse maggiore dei suoi concorrenti. Questa è la ragione principale per
cui i tassi reali dei titoli di stato italiani, dopo l’adesione allo SME, cominciarono
a salire: la necessità di contrastare la naturale tendenza alla svalutazione
della lira, che rispecchiava l’effettivo andamento dell’economia, per rispettare l’accordo di cambio
sottoscritto. Il fenomeno sarebbe stato fortemente incentivato dai
provvedimenti, adottati negli anni successivi al “divorzio”, volti a liberalizzare i movimenti di capitali.
La politica di alti tassi di interesse reali creò le
condizioni per un imponente trasferimento di ricchezza dai salari alla rendita
finanziaria, attraverso l’esplosione del debito pubblico. La lettura dei fatti
testé descritta è confermata dallo stesso Beniamino Andreatta, in un articolo
del 26 luglio 1991. Affermava Andreatta che “L' imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo
dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi
ossessionati dall' ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi
tassi di interesse reali e da un cambio debole. La nostra stessa presenza nello
Sme era allora messa in pericolo (c'è da ricordare che il partito socialista si
era astenuto quando il Parlamento votò nel 1978 sull'adesione all'accordo di
cambio e che i ministri socialisti avevano di fatto un potere di veto sulla
politica economica)”.
Dunque, Andreatta aveva “colleghi ossessionati dall' ideologia della crescita a ogni costo,
sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. Una
preoccupazione che sarebbe scomparsa di lì a poco, con la trasformazione della
sinistra italiana (con poche eccezioni) nella fazione più entusiasta e convinta
a sostegno dell’ideologia del mercato ad ogni costo.
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