Ripubblico un articolo scritto per il blog Frosinone in vetrina.
Dopo l'ottimo articolo di Gianluigi Leone, a mia volta desidero svolgere sul blog di FIV, su invito dell'amico Giampiero Cinelli, alcune considerazioni sullo stesso argomento.
La crisi si è manifestata, in Italia come in tutta Europa, con un'imponente caduta dei corsi azionari, mentre proprio il debito pubblico raggiungeva un livello minimo del 103% del PIL per effetto di una lunga discesa iniziata nel 1994. La qual cosa dovrebbe far riflettere coloro che sostengono che la causa della crisi sia da ricercare nell'eccesso di debito pubblico. Si aggiunga a ciò che, tra i paesi cosiddetti PIIGS, nel 2007 la Spagna aveva un debito pubblico al 36% del PIL, e l'Irlanda al 25%. Anche il Portogallo aveva un rapporto debito/Pil simile a quello della "virtuosa" Germania, e comunque migliore della Francia. Solo la Grecia aveva un debito pubblico molto alto e in crescita tendenziale, ma fu ammessa ugualmente perché, secondo i dementi della moneta unica, ciò l'avrebbe aiutata a rimettere in ordine i suoi conti. Come è andata a finire lo sappiamo.
Torniamo all'imponente caduta dei corsi azionari. Un crollo di borsa è, mi pare evidente, il sintomo di una crisi del settore privato. Al quale, come storicamente è sempre accaduto, il settore pubblico finisce per rimediare. Da ciò l'improvvisa crescita dei debiti pubblici dei paesi entrati in crisi nel 2008. Che al momento sono solo i PIIGS, in attesa dell'arrivo della Francia e, udite udite, della "virtuosa" Germania. E' necessario guardare, e stamparsi bene nella memoria, i dati del crollo di borsa del 2008.
L'indice FTSE-MIB passò dal valore di 44364 del 18 maggio 2007, a 12621 il 9 marzo 2009. Una caduta del 71% in 22 mesi!
Questa è la fotografia di un clamoroso fallimento dei mercati privati! Tuttavia, poiché in Italia avevamo un numeretto, uno solo per altro, non in linea con i famigerati parametri di Maastricht, e cioè il debito pubblico, la servile stampa italiana ha cominciato a costruire la sua enorme menzogna battendo su di esso. Certo, in Spagna, Irlanda e Portogallo, i servi dell'informazione eurista hanno raccontato altre fandonie, ma da noi si sono attaccati al debito pubblico. Beppe Grillo compreso.
Ora c'è un piccolo particolare che, pur essendo tenuto nascosto, dovrebbe far risuonare un campanello d'allarme nella testa di chi ne viene a conoscenza, ma ciò non accade perché la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica non sa, semplicemente non sa, cosa sia un debito pubblico. Sto parlando del fatto che l'Italia è l'unico paese al mondo che può vantare un avanzo primario in surplus da almeno venti anni. Il surplus primario è la differenza tra entrate e spese dello Stato non considerando gli interessi sul debito pubblico pregresso.
Per spiegare l'enormità di questo dato (al quale ha accennato Leone nell'articolo precedente) occorre chiarire cosa sia il debito pubblico, e soprattutto analizzarlo nelle sue due componenti fondamentali: il debito pubblico detenuto da residenti italiani, e quello detenuto da residenti esteri.
Il debito pubblico è uno strumento finanziario che, in un paese a moneta sovrana, è classificato come risk-free, cioè privo di rischio. Un paese a moneta sovrana può emettere debito pubblico a bassi tassi di interesse reale (differenza tra tasso nominale e inflazione), quando non addirittura negativi, perché il mercato ha bisogno di ciò.
Ripeto: il mercato ha bisogno di strumenti finanziari risk-free. Ne ha bisogno per la stessa ragione per cui nessuno di voi investirebbe tutto il suo denaro in azioni, che come visto possono andare incontro a fortissime perdite. Dunque, nel portafoglio di un investitore prudente, una quota è costituita, sempre, da investimenti risk-free, cioè titoli di Stato. Lo scopo di un investimento risk-free è quello, ovvio, di "spostare al futuro, senza perdite né guadagni, il risparmio". Questo meccanismo ha funzionato in modo eccellente, in Italia, fino al famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia, messo in atto dalla coppia Ciampi-Andreatta nel 1981. Dopo quella data, a causa della rimozione dell'obbligo per la Banca d'Italia di acquistare i titoli di Stato eventualmente invenduti (evento che si era verificato raramente e per piccoli importi) gli interessi reali sulle emissioni di titoli di Stato salirono bruscamente, poiché a quel punto era il mercato, e non più lo Stato, a fissarli, a dispetto del fatto che lo Stato fornisse un servizio richiesto dal mercato.
Tuttavia quella decisione, da sola, non si sarebbe mai tramutata in un problema effettivo per il "sistema Italia", se ad essa non avessero fatto seguito ulteriori modifiche normative nella direzione di liberalizzare i movimenti di capitale. Per effetto di queste, a partire dal 1990 i titoli di Stato con interessi reali positivi (e anche di molto) furono piazzati anche all'estero, con il che il nostro paese ha visto una quota crescente del suo debito pubblico finire in mano a non residenti. Prima delle liberalizzazioni, infatti, i titoli di Stato, seppure con tassi di interesse reali positivi, non potevano essere venduti a non residenti: all'epoca lo spread era un concetto inesistente.
In sintesi: dopo il famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia si mise in moto un meccanismo di redistribuzione della ricchezza dalle tasche di chi pagava le tasse (in gran parte i salariati) in quelle dei detentori di capitali, che intascavano i rendimenti reali positivi per avere un servizio di cui avevano comunque bisogno, ovvero un investimento risk-free. In una prima fase, prima della liberalizzazione dei movimenti di capitale, questo travaso di ricchezza restò un fatto interno al paese, ma con le liberalizzazioni lo Stato italiano iniziò a retribuire risparmiatori non residenti utilizzando le tasse dei lavoratori residenti.
Eppure neanche questa evidente follia (nella quale ci sono, con tutta evidenza, un metodo e un fine) sarebbe insostenibile se l'Italia avesse una moneta sovrana. In fondo, se un paese ha la sua moneta può emetterla nella quantità che vuole e saldare così i suoi debiti! A rimetterci sarebbero i creditori, soprattutto esteri, i quali magari presterebbero con più accortezza.
La vera mascalzonata è stata la moneta unica, l'euro, concepita come una moneta senza Stato e affidata a un'entità indipendente, la BCE, i cui azionisti sono le Banche centrali dei paesi dell'eurozona, tutte a loro volta in mano a capitali privati. E così l'Italia, e tutti i paesi dell'eurozona, sono finiti in un meccanismo infernale nel quale ogni conflitto di interesse viene gestito in un luogo, il direttorio della BCE, dove quello che conta sono le quote azionarie, e non i voti dei cittadini! Una democrazia per quote azionarie, non più una testa e un voto!
Un vero colpo di Stato finanziario, non lo si può definire diversamente. Eppure è stato accettato, poiché è evidente che l'euro non ci è stato imposto con i cannoni. Perché allora? Come è stato possibile tutto ciò? E' veramente tutta e solo colpa dell'informazione cattiva, oppure c'è una qualche responsabilità anche nostra? Ne parleremo in un prossimo articolo. Per gli impazienti dirò che la colpa è stata anche nostra, ma per le argomentazioni dovrete attendere. Stay tuned.
Dopo l'ottimo articolo di Gianluigi Leone, a mia volta desidero svolgere sul blog di FIV, su invito dell'amico Giampiero Cinelli, alcune considerazioni sullo stesso argomento.
La crisi si è manifestata, in Italia come in tutta Europa, con un'imponente caduta dei corsi azionari, mentre proprio il debito pubblico raggiungeva un livello minimo del 103% del PIL per effetto di una lunga discesa iniziata nel 1994. La qual cosa dovrebbe far riflettere coloro che sostengono che la causa della crisi sia da ricercare nell'eccesso di debito pubblico. Si aggiunga a ciò che, tra i paesi cosiddetti PIIGS, nel 2007 la Spagna aveva un debito pubblico al 36% del PIL, e l'Irlanda al 25%. Anche il Portogallo aveva un rapporto debito/Pil simile a quello della "virtuosa" Germania, e comunque migliore della Francia. Solo la Grecia aveva un debito pubblico molto alto e in crescita tendenziale, ma fu ammessa ugualmente perché, secondo i dementi della moneta unica, ciò l'avrebbe aiutata a rimettere in ordine i suoi conti. Come è andata a finire lo sappiamo.
Torniamo all'imponente caduta dei corsi azionari. Un crollo di borsa è, mi pare evidente, il sintomo di una crisi del settore privato. Al quale, come storicamente è sempre accaduto, il settore pubblico finisce per rimediare. Da ciò l'improvvisa crescita dei debiti pubblici dei paesi entrati in crisi nel 2008. Che al momento sono solo i PIIGS, in attesa dell'arrivo della Francia e, udite udite, della "virtuosa" Germania. E' necessario guardare, e stamparsi bene nella memoria, i dati del crollo di borsa del 2008.
L'indice FTSE-MIB passò dal valore di 44364 del 18 maggio 2007, a 12621 il 9 marzo 2009. Una caduta del 71% in 22 mesi!
Questa è la fotografia di un clamoroso fallimento dei mercati privati! Tuttavia, poiché in Italia avevamo un numeretto, uno solo per altro, non in linea con i famigerati parametri di Maastricht, e cioè il debito pubblico, la servile stampa italiana ha cominciato a costruire la sua enorme menzogna battendo su di esso. Certo, in Spagna, Irlanda e Portogallo, i servi dell'informazione eurista hanno raccontato altre fandonie, ma da noi si sono attaccati al debito pubblico. Beppe Grillo compreso.
Ora c'è un piccolo particolare che, pur essendo tenuto nascosto, dovrebbe far risuonare un campanello d'allarme nella testa di chi ne viene a conoscenza, ma ciò non accade perché la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica non sa, semplicemente non sa, cosa sia un debito pubblico. Sto parlando del fatto che l'Italia è l'unico paese al mondo che può vantare un avanzo primario in surplus da almeno venti anni. Il surplus primario è la differenza tra entrate e spese dello Stato non considerando gli interessi sul debito pubblico pregresso.
Per spiegare l'enormità di questo dato (al quale ha accennato Leone nell'articolo precedente) occorre chiarire cosa sia il debito pubblico, e soprattutto analizzarlo nelle sue due componenti fondamentali: il debito pubblico detenuto da residenti italiani, e quello detenuto da residenti esteri.
Il debito pubblico è uno strumento finanziario che, in un paese a moneta sovrana, è classificato come risk-free, cioè privo di rischio. Un paese a moneta sovrana può emettere debito pubblico a bassi tassi di interesse reale (differenza tra tasso nominale e inflazione), quando non addirittura negativi, perché il mercato ha bisogno di ciò.
Ripeto: il mercato ha bisogno di strumenti finanziari risk-free. Ne ha bisogno per la stessa ragione per cui nessuno di voi investirebbe tutto il suo denaro in azioni, che come visto possono andare incontro a fortissime perdite. Dunque, nel portafoglio di un investitore prudente, una quota è costituita, sempre, da investimenti risk-free, cioè titoli di Stato. Lo scopo di un investimento risk-free è quello, ovvio, di "spostare al futuro, senza perdite né guadagni, il risparmio". Questo meccanismo ha funzionato in modo eccellente, in Italia, fino al famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia, messo in atto dalla coppia Ciampi-Andreatta nel 1981. Dopo quella data, a causa della rimozione dell'obbligo per la Banca d'Italia di acquistare i titoli di Stato eventualmente invenduti (evento che si era verificato raramente e per piccoli importi) gli interessi reali sulle emissioni di titoli di Stato salirono bruscamente, poiché a quel punto era il mercato, e non più lo Stato, a fissarli, a dispetto del fatto che lo Stato fornisse un servizio richiesto dal mercato.
Tuttavia quella decisione, da sola, non si sarebbe mai tramutata in un problema effettivo per il "sistema Italia", se ad essa non avessero fatto seguito ulteriori modifiche normative nella direzione di liberalizzare i movimenti di capitale. Per effetto di queste, a partire dal 1990 i titoli di Stato con interessi reali positivi (e anche di molto) furono piazzati anche all'estero, con il che il nostro paese ha visto una quota crescente del suo debito pubblico finire in mano a non residenti. Prima delle liberalizzazioni, infatti, i titoli di Stato, seppure con tassi di interesse reali positivi, non potevano essere venduti a non residenti: all'epoca lo spread era un concetto inesistente.
In sintesi: dopo il famigerato divorzio Tesoro-Banca d'Italia si mise in moto un meccanismo di redistribuzione della ricchezza dalle tasche di chi pagava le tasse (in gran parte i salariati) in quelle dei detentori di capitali, che intascavano i rendimenti reali positivi per avere un servizio di cui avevano comunque bisogno, ovvero un investimento risk-free. In una prima fase, prima della liberalizzazione dei movimenti di capitale, questo travaso di ricchezza restò un fatto interno al paese, ma con le liberalizzazioni lo Stato italiano iniziò a retribuire risparmiatori non residenti utilizzando le tasse dei lavoratori residenti.
Eppure neanche questa evidente follia (nella quale ci sono, con tutta evidenza, un metodo e un fine) sarebbe insostenibile se l'Italia avesse una moneta sovrana. In fondo, se un paese ha la sua moneta può emetterla nella quantità che vuole e saldare così i suoi debiti! A rimetterci sarebbero i creditori, soprattutto esteri, i quali magari presterebbero con più accortezza.
La vera mascalzonata è stata la moneta unica, l'euro, concepita come una moneta senza Stato e affidata a un'entità indipendente, la BCE, i cui azionisti sono le Banche centrali dei paesi dell'eurozona, tutte a loro volta in mano a capitali privati. E così l'Italia, e tutti i paesi dell'eurozona, sono finiti in un meccanismo infernale nel quale ogni conflitto di interesse viene gestito in un luogo, il direttorio della BCE, dove quello che conta sono le quote azionarie, e non i voti dei cittadini! Una democrazia per quote azionarie, non più una testa e un voto!
Un vero colpo di Stato finanziario, non lo si può definire diversamente. Eppure è stato accettato, poiché è evidente che l'euro non ci è stato imposto con i cannoni. Perché allora? Come è stato possibile tutto ciò? E' veramente tutta e solo colpa dell'informazione cattiva, oppure c'è una qualche responsabilità anche nostra? Ne parleremo in un prossimo articolo. Per gli impazienti dirò che la colpa è stata anche nostra, ma per le argomentazioni dovrete attendere. Stay tuned.
La questione di una testa un voto si è posta anche nel diritto societario col cosiddetto voto capitario (l'ho scoperto per averlo sentito citare una volta a Sapelli). Leggo che è tipico delle società cooperative quindi potrebbe anche essere stata una delle rivendicazioni della sinistra.
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