mercoledì 30 gennaio 2019

SIGNORAGGIO, "DIVORZIO" E DEBITO PUBBLICO: FACCIAMO CHIAREZZA UNA VOLTA PER TUTTE (di Thomas Fazi)

Thomas Fazi
Sta facendo molto discutere il servizio di Alessandro Giuli sulle origini del debito pubblico italiano andato in onda qualche giorno fa all’interno del nuovo programma di Rai 2, “Povera Patria”. Secondo i critici – tra cui luminari dell’economia come Riccardo Puglisi, Mario Seminerio e, ça va sans dire, l’immancabile Luigi Marattin -, le colpe del servizio sarebbe sostanzialmente tre: di aver “propagandato” sulla televisione pubblica la presunta madre di tutte le bufale economiche: il signoraggio (#ussignor!); di aver individuato nel cosiddetto “divorzio” del 1981 tra Banca d’Italia (BdI) e Tesoro la causa principale della successiva esplosione del debito pubblico italiano; e di aver insinuato – seppur indirettamente – che la soluzione al problema del debito pubblico sarebbe di tornare ad un regime simile a quello pre-divorzio, cioè di monetizzazione (più o meno parziale) del deficit/debito pubblico da parte della banca centrale.

n.d.r. Per rivedere la puntata di Povera Patria di venerdì 25 gennaio 2019 (finché resterà online) cliccate qui.

Tanto per cominciare, cosa dice il servizio? Esso sostiene che le cause del debito pubblico italiano sarebbero da sostanzialmente da rintracciarsi nel signoraggio, che viene descritto – in maniera a dir poco approssimativa – come «il guadagno del “signore” che stampa la nostra moneta, che si fa pagare il valore di quella moneta, da cui sottrae il costo per produrla». Il servizio sostiene che la storia del signoraggio in Italia si snoda in tre fasi: una prima fase in cui lo Stato italiano, «attraverso la banca centrale di sua proprietà stampa moneta e la presta a se stesso per offrire servizi e [finanziare le opere pubbliche]»; una seconda fase in cui – come conseguenza del divorzio – «la banca centrale diventa un istituto privato ma continua a stampare moneta prestandola allo Stato con tanto di interessi», facendo così lievitare il debito pubblico; e una terza fase in cui «la fine della lira, l’adozione dell’euro e la nascita della BCE completano l’espropriazione [della sovranità dell’Italia]».

Ora, per capire se il servizio sia veritiero nella sua ricostruzione, per quanto semplicistica, dei fatti o se si tratti invece di una «colossale bufala», come ha dichiarato Marattin, dobbiamo per prima cosa fare chiarezza su cosa sia il signoraggio. La prima cosa da notare – con buona pace di tutti gli anti-bufalari da salotto che si sono scandalizzati a sentir nominare la parola “signoraggio” sulla TV di Stato – è che il signoraggio esiste. E questo sarebbe già sufficiente per rimandare a settembre il 99 per cento degli anti-bufalari di cui sopra. (A chi nutrisse dei dubbi in merito suggerisco di visitare le pagine dedicate all’argomento sui siti della Banca d’Italia e della BCE).

Di cosa si tratta esattamente? Innanzitutto, va detto che esistono diverse definizioni del signoraggio in ambito accademico. Tuttavia, le due definizioni più comunemente accettate sono le seguenti. Una prima definizione di signoraggio è legata all’evoluzione della moneta di Stato e storicamente riguarda la differenza tra il costo di produzione della moneta e il suo valore nominale. Il fatto che il primo fosse notevolmente più basso del secondo investiva colui che batteva la moneta – lo Stato o, appunto, il signore – di un evidente potere – definito, non a caso, “potere di signoraggio” –, in quanto poteva creare, dal nulla o quasi, il proprio potere di acquisto. Questa forma di signoraggio è solitamente chiamata “signoraggio monetario”. Inoltre, quando un comune cittadino portava un pezzo d’oro alla zecca pubblica per farselo coniare – una prassi comune fino all’Ottocento –, lo Stato si faceva pagare questo “servizio” trattenendo una parte dell’oro portato. Questo era il cosiddetto “diritto di signoraggio”. Se un tempo il valore intrinseco della moneta era determinato dalla quantità di metallo prezioso contenuto nella moneta, con l’avvento delle banconote prime e della moneta elettronica poi il “costo di produzione” della moneta è sceso praticamente a zero. Per cui, più che la differenza tra costo di produzione e valore nominale della moneta, per signoraggio monetario oggi si intende, più semplicemente, il potere degli Stati che dispongono della sovranità monetaria di creare la propria moneta dal nulla e di aumentare così il proprio potere di acquisto.

Una seconda definizione di signoraggio descrive lo stesso non in termini del potere d’acquisto derivato dalla possibilità di creare moneta a costo zero (o quasi) ma in termini degli interessi maturati in base al prestito della suddetta moneta a terzi, da intendersi dunque primariamente come moneta-credito. Per semplicità possiamo chiamare questa forma di signoraggio “signoraggio da interessi”. Secondo la definizione che troviamo sul sito della BCE, tali interessi sono da intendersi come «[g]li interessi maturati dalla banca centrale sui finanziamenti concessi [alle banche commerciali] oppure i rendimenti da essa percepiti sulle attività acquisite», principalmente titoli di Stato. I primi, dunque, dipendono dai prestiti concessi dalla banca centrale alle banche commerciali, che pagano un interesse sulla liquidità presa in prestito dalla banca centrale; i secondi, perlopiù, dagli interessi maturati sui titoli di Stato acquistati dalla banca centrale, per esempio (ma non solo) attraverso i cosiddetti programmi di “quantitative easing”. Su questo punto c’è da dire che pressoché ovunque – ivi incluso nell’eurozona, sebbene in questo caso la realtà sia un po’ più complessa – i redditi da signoraggio maturati dalla banca centrale vengono poi rigirati ai rispettivi governi.

Riguardo al signoraggio da interessi, va sottolineato come esso non riguardi (più) solo gli Stati ma anche le stesse banche commerciali, che nel sistema attuale non intermediano i risparmi esistenti ma creano denaro (e depositi) dal nulla, esattamente come le banche centrali, che poi prestano agli operatori economici (famiglie, imprese e governi). Anzi, oggi – e su questo ci sarebbe molto da dire ma lo faremo in un’altra sede – la cosiddetta moneta bancaria rappresenta la stragrande maggioranza del denaro in circolazione nell’economia, secondo percentuali che nelle economie avanzate vanno dal 95 al 99 per cento del totale, come nel caso dell’eurozona. Sarebbe a dire che per ogni euro emesso dalla BCE sono in circolazione altri nove euro creati dal settore finanziario. Dunque va da sé che oggi anche le banche private godano di un diritto di signoraggio, per quanto il valore effettivo di quest’ultimo sia notoriamente difficile da calcolare, essendo dipendente da numerosi fattori: i tassi di interesse praticati dalla banca centrale, il tasso di inflazione, ecc. Tuttavia, c’è chi ci ha provato.

Sulla base di quanto detto, possiamo ritenere corretta la ricostruzione fornita dal servizio e soprattutto l’importanza assegnata al signoraggio nella crescita del debito pubblico italiano? In parte sì. È indubbio, infatti, che prima del divorzio lo Stato italiano facesse ampio uso del signoraggio – sia quello monetario che quello da interessi – per ridurre i propri costi di finanziamento. L’assetto istituzionale precedente al divorzio, infatti, prevedeva due canali tramite i quali il Tesoro poteva finanziarsi presso la Banca d’Italia: esso disponeva di un conto corrente presso la banca centrale, chiamato “conto corrente di tesoreria”, e aveva inoltre la possibilità di vendere i titoli di Stato che emetteva direttamente alla Banca d’Italia. Per quanto riguarda il primo canale, il Tesoro poteva attingere a uno “scoperto di conto” – un fido in pratica – sul proprio conto presso la BdI, fino al 14 per cento della propria spesa di bilancio. In altre parole, la banca centrale finanziava una parte della spesa del Tesoro attraverso la creazione di denaro dal nulla, che veniva poi accreditato sul conto del Tesoro. Il secondo canale consisteva nell’impegno della Banca d’Italia ad assorbire tutti i titoli di Stato non collocati presso il pubblico (investitori e famiglie) sul mercato primario, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria. Questo, ovviamente, permetteva anche al Tesoro di fissare il tasso d’interesse sul mercato primario.

A prescindere dai dettagli tecnici, il punto centrale è che nell’era pre-divorzio il “debito” accumulato dal Tesoro nei confronti della banca centrale non costituiva assolutamente un debito reale verso essa. Nel caso del conto corrente di tesoreria, si trattava molto semplicemente di un debito che non doveva mai essere ripagato (se non per una scelta volontaria da parte del Tesoro stesso) e che dunque poteva crescere illimitatamente nel corso del tempo. Nel caso dei titoli di Stato acquistati dalla banca centrale, invece, nel momento in cui questi giungevano a maturazione, il Tesoro si limitava ad emettere altri titoli, per un ammontare maggiore di quelli in scadenza, che poi rivendeva sempre alla Banca d’Italia. E così, potenzialmente, all’infinito. Come se non bastasse, anche gli interessi pagati dal Tesoro alla Banca d’Italia venivano poi restituiti al Tesoro stesso (“signoraggio da interessi”) e quindi per quest’ultimo si trattava a tutti gli effetti di un debito a costo zero, equivalente al finanziamento di una parte del fabbisogno con moneta. Questo consentiva allo Stato di introdurre moneta nell’economia reale in base alle esigenze necessarie a promuovere la piena occupazione e a fornire i servizi pubblici essenziali, oltre a finanziare le funzioni pubbliche.

In quest’ottica, risulta evidente come il debito pubblico, in un regime di cooperazione tra banca centrale e Tesoro, non sia altro che un debito che un ramo dello Stato ha nei confronti di un altro ramo dello Stato: un debito, in altre parole, che lo Stato ha nei confronti di se stesso e dunque, a tutti gli effetti, fittizio. Come riconosceva un economista tutt’altro che radicale come Luigi Spaventa già nel 1984: «[L]o stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la banca centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio».

Per buona parte del dopoguerra questa pratica fu considerata del tutto normale, ed è quello che ha permesso di mantenere basso il rapporto debito/PIL (senza considerare, come detto, che una buona percentuale di quel debito poteva considerarsi “fittizio”), anche a fronte di disavanzi primari (cioè al netto della spesa per interessi) piuttosto significativi, soprattutto negli anni Settanta. Fin qui, dunque, la descrizione del servizio sulla “prima fase del signoraggio” – quella pre-divorzio – risulta essere piuttosto aderente alla realtà.

Sulla descrizione del divorzio, invece, il servizio prende qualche cantonata. Tanto per cominciare, cosa fu il divorzio? Si trattò di una decisione (mai ratificata dal Parlamento) in cui, nel 1981, l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi posero fine, perlomeno da un punto di vista formale, all’obbligo per la banca centrale di acquistare sul mercato primario i titoli invenduti. Da quel momento in poi, dunque, gli acquisti di titoli di Stato sul mercato primario da parte della Banca d’Italia cominciarono rapidamente a ridursi, aumentando la quantità di titoli che il governo doveva piazzare presso i privati a tassi di mercato; come disse Andreatta, «[d]a quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato». Contestualmente, la Banca d’Italia alzò drasticamente i tassi di interesse. Il combinato disposto di questi due fattori – unito alla riduzione del tasso d’inflazione, per effetto della stretta monetaria della BdI, e al rallentamento del tasso di crescita – fecero schizzare verso l’alto i tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) sui titoli Stato.

È importante notare che tutto ciò era funzionale alla partecipazione dell’Italia al Sistema monetario europeo (SME), l’accordo di cambi semifissi a cui l’Italia aveva aderito nel 1979, che imponeva al paese di adeguare i propri tassi di interesse ai tassi vigenti nei mercati europei (soprattutto quello tedeschi) e presupponeva la riduzione del gap inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi europei. A questo proposito, va sottolineato come l’alto tasso d’inflazione registrato dall’Italia negli anni Settanta non fosse una conseguenza della politica di monetizzazione del deficit/debito ma era dovuto principalmente a fattori esogeni, in primis lo shock petrolifero del 1973, ulteriormente inaspriti dal duro scontro distributivo in corso nel paese.

Ad ogni modo, è indubbio che una delle conseguenze principali del divorzio (e, indirettamente, dello SME) fu quella di far letteralmente esplodere il debito pubblico. Come riconosciuto dallo stesso Andreatta, «la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale». Basti pensare che nel corso degli anni Ottanta il rapporto debito/PIL dell’Italia passò dal 58,5 per cento del 1981 a poco meno del 100 per cento. E questo nonostante il fatto che il saldo primario dello Stato italiano (la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi), che nell’anno del divorzio registrava un disavanzo del 5,8 per cento, nel corso degli anni Ottanta si sia progressivamente ridotto, fino a diventare positivo a inizio anni Novanta (rimanendo tale fino ai giorni nostri). In altre parole, il debito pubblico italiano è deflagrato proprio nel periodo durante il quale lo Stato italiano è diventato risparmiatore netto. Da ciò si evince quanto sia fallace la vulgata secondo cui l’aumento del debito sarebbe da imputare alla “spesa pubblica fuori controllo” dei ruggenti anni Ottanta; al contrario, la dinamica del debito è esclusivamente imputabile alla scelta, eminentemente politica, di far esplodere i tassi di interesse pur di rimanere nello SME.

A tal proposito, va sottolineato che, più che l’aumento del rapporto debito/PIL in sé, ad essere particolarmente grave era il fatto che ciò avveniva in un regime istituzionale di progressiva perdita della sovranità monetaria, per cui quello che prima era un debito largamente “fittizio” adesso diventava drammaticamente reale, data l’impossibilità da parte dello Stato, soprattutto a partire dai primi anni Novanta, di controllare i tassi di interesse e/o di monetizzare il debito con nuova moneta creata dal nulla; questo esponeva il paese al rischio reale di default, che in seguito (1992 e 2011) sarebbe poi stato usato per obbligare il paese a ulteriori “inevitabili” misure di rigore fiscale.

In questo senso, il servizio ha ragione a rinvenire nel divorzio la causa scatenante del successivo aumento del debito pubblico. D’altronde, è lo stesso autore del divorzio a riconoscerlo. Tuttavia, sostenere che il problema è che a partire dal 1981 la Banca d’Italia ha cominciato a «prestare [soldi] allo Stato con tanto di interessi» rappresenta una semplificazione al limite della mistificazione: anche prima la BdI prestava soldi allo Stato “con tanto di interessi”, solo che quegli interessi erano tenuti volutamente bassi (e comunque tornavano indietro allo Stato in virtù del signoraggio da interessi). Il vero problema è, piuttosto, la riduzione – dal 1981 in poi – del signoraggio monetario, sotto forma di monetizzazione della spesa e del debito. È, inoltre, del tutto falsa l’idea che nel 1981 la Banca d’Italia sia «diventata un istituto privato». Come stabilito dalla legge bancaria del 1936, la BdI era ed è tutt’ora un istituto di diritto pubblico. La cassazione lo ha ribadito il 21 luglio 2006, dove ha affermato che la Banca d’Italia «non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo». La proprietà può quindi essere di soggetti privati, ma la sua gestione ha un ruolo pubblicistico, come compiti e poteri.

È vero che tra gli azionisti della BdI oggi figurano diverse banche private ma questa è una conseguenza del fatto che diversi istituti di credito (all’epoca pubblici) che nel corso del tempo sono entrati nel suo capitale sono stati successivamente privatizzati (nei primi anni Novanta). È altrettanto vero che le banche in questione percepiscono una parte degli utili – e del reddito da signoraggio, come vedremo più giù – della Banca d’Italia, ma in misura del tutto trascurabile. Chi scrive ritiene, ovviamente, che sarebbe auspicabile che la banca centrale fosse interamente di proprietà dello Stato; ma il punto da cogliere è che la proprietà della BdI è un aspetto del tutto secondario rispetto al vero problema: l’alienazione alla BCE dell’emissione di moneta e della determinazione dei tassi di interesse.

E qui arriviamo alla “terza fase del signoraggio” descritta nel servizio: l’introduzione dell’euro. Che questo passaggio abbia sancito la definitiva espropriazione del potere di signoraggio monetario dello Stato italiano mi pare pacifico. Prima col divorzio e poi con la ratifica del Trattato di Maastricht – che rese effettiva la separazione tra Banca d’Italia e Tesoro, fino a quel momento mai concretizzatasi appieno, sancendo in un colpo solo sia l’abolizione del conto corrente di tesoreria (che era rimasto in vigore anche in seguito al divorzio), sia il divieto assoluto di intervento della banca centrale sul mercato primario dei titoli di Stato – si consumarono infatti due passaggi fondamentali di un processo decennale, che culminerà nell’introduzione della moneta unica, finalizzato a privare lo Stato italiano della sua sovranità monetaria e di conseguenza i cittadini della loro sovranità democratica – data l’impossibilità per questi di determinarne democraticamente gli indirizzi di politica economica in assenza di sovranità monetaria –, rendendo lo Stato di fatto dipendente dai mercati finanziari (e dalla “buona volontà” della BCE) per le sue necessità di fabbisogno pubblico, tanto nella determinazione del volume dello stesso quanto nel costo della porzione finanziata in disavanzo.

Un punto che va sottolineato è che, pur avendo rinunciato al suo potere di signoraggio monetario, la Banca d’Italia continua a ricevere una quota dei redditi da signoraggio maturati dalla BCE (redistribuiti alle varie banche centrali sulla base della loro partecipazione al capitale della BCE), una buona parte dei quali viene poi rigirata allo Stato italiano (mentre una piccola parte di essi viene destinata agli azionisti privati della banca stessa). Il problema, semmai, è che questo tende a produrre una dinamica perversa di redistribuzione di risorse dai paesi più deboli verso quelli più forti: i primi, infatti, tendono a pagare tassi di interesse più alti ma a detenere quote di capitale più basse dei secondi. Trattasi comunque di poca roba di fronte all’immenso costo economico e sociale derivante dalla perdita del signoraggio monetario.

Per concludere, possiamo dire che il servizio – al netto di qualche imprecisione e di qualche corbelleria – ha descritto una sostanziale verità: l’esplosione del debito pubblico italiano è in larga misura riconducibile alla perdita da parte dello Stato del potere di signoraggio monetario. Con buona pace di tutti i luminari dell’economia che hanno gridato allo scandalo.

Un discorso a parte meriterebbe l’idea secondo cui ritornare ad un regime di monetizzazione del deficit/debito – e più in generale di sovranità monetaria – rappresenterebbe una catastrofe, ma ce ne occuperemo in un’altra occasione.

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