La democrazia è sostanziale quando tutti i corpi sociali sono capaci di esprimere una propria genuina rappresentanza politica. Ciò può non accadere per molte ragioni, la più comune delle quali è la conquista dell'egemonia culturale da parte di alcuni settori della società; sia perché detengono gran parte della ricchezza, e dunque del potere di influenza, ma anche per responsabilità degli stessi esclusi. Poiché sono un pragmatico, sebbene ad alcuni appaia come un sognatore, preferisco concentrare l'attenzione sulle responsabilità degli esclusi, dato che considero normale che chi può vincere vinca. Perché mai dovrebbe astenersene? Per amore del prossimo? Sono un sognatore ma conosco la durezza del vivere.
La responsabilità delle scelte politiche che, negli ultimi decenni, hanno svantaggiato ampi settori della società italiana, è dunque di coloro che ne fanno parte. L'avversario di classe ha giocato la sua partita, e noi no.
Non v'è che una via d'uscita: rientrare in partita. Se la crisi dell'euro verrà risolta (si fa per dire) da quelli che ci hanno trascinato nell'Unione Europea, nulla cambierà. La prima cosa che dobbiamo capire, e far capire ai corpi sociali che l'hanno subita, è la ragione vera per cui è stata edificata l'Unione Europea, smontando l'insieme delle narrazioni favolistiche di cui questa scelta politica è stata ammantata. E dobbiamo farlo in modo semplice, per essere capiti da tutti.
Ebbene, la vera ragione di questa scelta è stata quella di mettere i lavoratori in competizione tra loro. Questa ragione di fondo è stata abilmente mascherata, a tal punto che nemmeno la realtà concreta, sotto gli occhi di tutti, è sufficiente per smontarla. Nella mente di centinaia di milioni di lavoratori è stata inculcata l'idea che la mobilità delle merci e dei capitali sia un dato di natura: è così perché è così e non può che essere così. E invece non è così!
Non è affatto vero che se un investitore privato trova conveniente delocalizzare in un paese in cui il costo del lavoro è più basso ciò sia un vantaggio per tutti perché, nel lungo periodo, il sistema produttivo diventerebbe più efficiente e dunque, aumentando la produzione, ognuno se ne avvantaggerebbe. Non è vero perché quello che accade, nella realtà, è che i gruppi sociali che si arricchiscono grazie a ciò non hanno alcun interesse a redistribuire, in qualsiasi forma, la loro maggiore ricchezza e il loro maggior potere. La soluzione che viene in mente, a chi non vuole cambiare questo stato delle cose, è al più il reddito di cittadinanza. Una forma di elemosina necessaria per tenere buoni gli esclusi affinché, spinti dalla disperazione, non diventino un problema.
La sola via d'uscita è la lotta politica. Ma non nella forma elaborata dal M5S, fatta di vuoto attivismo su una miriade di temi parziali, dagli inceneritori agli ogm passando per la favoletta della corruzione; bensì organizzando strutture politiche con il compito di rappresentare e difendere gli interessi dei ceti esclusi, con l'obiettivo di conquistare il potere e far diventare "esclusi" i padroni di oggi. Piaccia o no, la politica è questo, da che mondo è mondo.
Dunque un blocco sociale, costituito da interessi non identici ma capaci di cogliere il vantaggio e la necessità di costituirsi come soggetto politico mettendo in secondo piano le differenze. La sfida è di quelle che fanno tremare i polsi, ma non vi sono alternative.
Occorre anche superare un ostacolo di non poco conto, rappresentato dalla confusione che, a mio avviso, molti fanno tra piattaforma politica e ideologia. L'ideologia è un progetto compiuto, una specie di visione teleologica di come dovrebbe essere organizzata la società, e pertanto è una gabbia. Una piattaforma politica è invece un metodo euristico, necessariamente approssimato e compromissorio, il cui perno è l'idea di conflitto. Al centro della lotta politica c'è, da sempre, il conflitto. E infatti la prima preoccupazione di chi vince la battaglia politica è quella di sopirlo, creando narrazioni che ne sanciscano la fine. Chi vince ha sempre interesse a dire che "è la fine della Storia"; chi perde, se vuole ricominciare la partita, deve affermare, con forza, che la Storia non è affatto finita.
Questa piattaforma politica, che non può essere ideologica senza per questo demonizzare le ideologie dei contraenti, che anzi sono una ricchezza, deve tuttavia individuare alcune proposizioni che siano ampiamente condivise. Ebbene, non v'è dubbio che la prima di tali proposizioni deve essere la fine del regime di concorrenza con il quale è stato aggiogato il mondo del lavoro. La "concorrenza" se la facciano i capitali! Il mondo del lavoro deve tornare ad esigere che la retribuzione di ogni attività lavorativa, da quella salariata a quella della piccola impresa o derivante da attività professionali, sia soggetta ad un regime amministrato. E dunque tariffe stabilite per legge, contratti del lavoro nazionali, tutele per i lavoratori, intervento diretto dello Stato a difesa dei livelli occupazionali.
E' del tutto evidente che un tale stato di cose sarebbe assolutamente e totalmente incompatibile con una moneta unica senza uno Stato, come è l'euro, oltre che con tutti i trattati europei. Non può dunque essere l'uscita dall'euro il cuore di una piattaforma politica in difesa degli interessi del mondo del lavoro! L'uscita dall'euro è nient'altro che l'ovvio corollario di un diverso equilibrio di forze tra il capitale e il lavoro, che potrà essere raggiunto solo riaccendendo il conflitto sociale e vincendo la battaglia politica. Questa, a sua volta, presuppone la formazione di un esercito politico, cioè la nascita di nuove forze politiche che siano espressione genuina del mondo del lavoro.
Dopo decenni di arretramenti e sconfitte, la campana è suonata: alcuni hanno già fatto i primi passi, altri si stanno aggiungendo. L'esercito che porterà a compimento la "reconquista" dei diritti del lavoro apparirà presto, e sarà visibile a tutti.
La responsabilità delle scelte politiche che, negli ultimi decenni, hanno svantaggiato ampi settori della società italiana, è dunque di coloro che ne fanno parte. L'avversario di classe ha giocato la sua partita, e noi no.
Non v'è che una via d'uscita: rientrare in partita. Se la crisi dell'euro verrà risolta (si fa per dire) da quelli che ci hanno trascinato nell'Unione Europea, nulla cambierà. La prima cosa che dobbiamo capire, e far capire ai corpi sociali che l'hanno subita, è la ragione vera per cui è stata edificata l'Unione Europea, smontando l'insieme delle narrazioni favolistiche di cui questa scelta politica è stata ammantata. E dobbiamo farlo in modo semplice, per essere capiti da tutti.
Ebbene, la vera ragione di questa scelta è stata quella di mettere i lavoratori in competizione tra loro. Questa ragione di fondo è stata abilmente mascherata, a tal punto che nemmeno la realtà concreta, sotto gli occhi di tutti, è sufficiente per smontarla. Nella mente di centinaia di milioni di lavoratori è stata inculcata l'idea che la mobilità delle merci e dei capitali sia un dato di natura: è così perché è così e non può che essere così. E invece non è così!
Non è affatto vero che se un investitore privato trova conveniente delocalizzare in un paese in cui il costo del lavoro è più basso ciò sia un vantaggio per tutti perché, nel lungo periodo, il sistema produttivo diventerebbe più efficiente e dunque, aumentando la produzione, ognuno se ne avvantaggerebbe. Non è vero perché quello che accade, nella realtà, è che i gruppi sociali che si arricchiscono grazie a ciò non hanno alcun interesse a redistribuire, in qualsiasi forma, la loro maggiore ricchezza e il loro maggior potere. La soluzione che viene in mente, a chi non vuole cambiare questo stato delle cose, è al più il reddito di cittadinanza. Una forma di elemosina necessaria per tenere buoni gli esclusi affinché, spinti dalla disperazione, non diventino un problema.
La sola via d'uscita è la lotta politica. Ma non nella forma elaborata dal M5S, fatta di vuoto attivismo su una miriade di temi parziali, dagli inceneritori agli ogm passando per la favoletta della corruzione; bensì organizzando strutture politiche con il compito di rappresentare e difendere gli interessi dei ceti esclusi, con l'obiettivo di conquistare il potere e far diventare "esclusi" i padroni di oggi. Piaccia o no, la politica è questo, da che mondo è mondo.
Dunque un blocco sociale, costituito da interessi non identici ma capaci di cogliere il vantaggio e la necessità di costituirsi come soggetto politico mettendo in secondo piano le differenze. La sfida è di quelle che fanno tremare i polsi, ma non vi sono alternative.
Occorre anche superare un ostacolo di non poco conto, rappresentato dalla confusione che, a mio avviso, molti fanno tra piattaforma politica e ideologia. L'ideologia è un progetto compiuto, una specie di visione teleologica di come dovrebbe essere organizzata la società, e pertanto è una gabbia. Una piattaforma politica è invece un metodo euristico, necessariamente approssimato e compromissorio, il cui perno è l'idea di conflitto. Al centro della lotta politica c'è, da sempre, il conflitto. E infatti la prima preoccupazione di chi vince la battaglia politica è quella di sopirlo, creando narrazioni che ne sanciscano la fine. Chi vince ha sempre interesse a dire che "è la fine della Storia"; chi perde, se vuole ricominciare la partita, deve affermare, con forza, che la Storia non è affatto finita.
Questa piattaforma politica, che non può essere ideologica senza per questo demonizzare le ideologie dei contraenti, che anzi sono una ricchezza, deve tuttavia individuare alcune proposizioni che siano ampiamente condivise. Ebbene, non v'è dubbio che la prima di tali proposizioni deve essere la fine del regime di concorrenza con il quale è stato aggiogato il mondo del lavoro. La "concorrenza" se la facciano i capitali! Il mondo del lavoro deve tornare ad esigere che la retribuzione di ogni attività lavorativa, da quella salariata a quella della piccola impresa o derivante da attività professionali, sia soggetta ad un regime amministrato. E dunque tariffe stabilite per legge, contratti del lavoro nazionali, tutele per i lavoratori, intervento diretto dello Stato a difesa dei livelli occupazionali.
E' del tutto evidente che un tale stato di cose sarebbe assolutamente e totalmente incompatibile con una moneta unica senza uno Stato, come è l'euro, oltre che con tutti i trattati europei. Non può dunque essere l'uscita dall'euro il cuore di una piattaforma politica in difesa degli interessi del mondo del lavoro! L'uscita dall'euro è nient'altro che l'ovvio corollario di un diverso equilibrio di forze tra il capitale e il lavoro, che potrà essere raggiunto solo riaccendendo il conflitto sociale e vincendo la battaglia politica. Questa, a sua volta, presuppone la formazione di un esercito politico, cioè la nascita di nuove forze politiche che siano espressione genuina del mondo del lavoro.
Dopo decenni di arretramenti e sconfitte, la campana è suonata: alcuni hanno già fatto i primi passi, altri si stanno aggiungendo. L'esercito che porterà a compimento la "reconquista" dei diritti del lavoro apparirà presto, e sarà visibile a tutti.
Condivido, ma con alcune precisazioni.
RispondiEliminaLa "concorrenza", nel sistema delineato dalla nostra Costituzione, è una delle contropartite che lo Stato chiede ai privati per lasciarli liberi di intraprendere sul piano economico.
Nella misura in cui non è fasulla (monopolio di fatto, cartelli sottobanco fra le imprese et similia) e si esplica in un ambiente di consumatori sufficientemente autocoscenti e informati riguardo ai propri interessi e diritti, la concorrenza fra gli operatori economici costituisce un meccanismo in grado di regolare fisiologicamente il rapporto prezzo/qualità dei beni e servizi secondo uno stadard tendenzialmente favorevole ai consumatori, incentivando a livello "micro" quella guerra tecnologica fra i produttori che, a livello "macro", è necessaria perchè il suddetto standard sia assicurato. In altri termini, la Repubblica concede ai privati la libertà di iniziativa economica a patto che essa si svolga, anche attraverso il meccanismo della concorrenza, a vantaggio della collettività nazionale (art. 41 Cost.) e mai a danno della stessa.
La concorrenza cui i trattati UE fanno riferimento è tutt'altra cosa, poiché la "filosofia" di fondo, al netto di alcune enunciazioni che sembrerebbero andare nella direzione di cui ho appena detto, non è il benessere dei popoli dell'Unione ma la globalizzazione del mercato (come dimostra, incontrovertibilmente, l'abbattimento di ogni barriera doganale non solo interna allo spazio UE, ma anche esterna).
A mio modo di vedere, dunque, demonizzare la "concorrenza" tuot court sarebbe un errore, a meno che non si propugni un modello di economica di tipo socialista, ossia totalmente amministrata dal pubblico potere (modello estraneo a quello sancito dalla Costituzione); al contrario, occorrerebbe attivare quegli strumenti di "governo forte" dell'economia - mai attivati finora, a causa della endemica subalternità del nostro ceto politico e sindacale alle varie lobbies economiche e di potere - volte a dirigere e a controllare seriamente che la concorrenza si svolga sempre e comunque a vantaggio della collettività nazionale (e quindi ANCHE dei lavoratori, intesi non solo come "consumatori", ma, innanzitutto, come soggetti titolari di diritti e interessi sociali inviolabili perchè come tali protetti dal combinato disposto degli art. 1, 2,3,4 e 36 Cost.).
In buona sostanza, non è la concorrenza in sè da abbattere, ma il background culturale di chi ha fatto e vorrebbe continuare a fare di essa uno strumento socialmente nocivo.
Inoltre, non si può ignorare la determinante resposabilità che gli stessi lavoratori, attraverso le loro rappresentanze sindacali, hanno avuto nella mancata difesa dei predetti diritti e interessi sociali inviolabili; e personalmente mi sento di escludere che i vertici sindacali che hanno gestito la transizione dal modello keynesiano a quello ordoliberista non si fossero resi conto della catastrofica direzione che le cose stavano prendendo per gli interessi dei ceti subalterni (lo dimostrano i famosi discorsi di Spaventa e di Napolitano contro l'ingresso nello SME).
Insomma, a mio parere, il grosso problema politico di fronte al quale ci troviamo è che la guerra deve essere combattuta innanzitutto contro gli stessi "esclusi", cioè contro la cronica subordinazione alle logiche di potere e di becera convenienza personale di quanti, fra di essi, li hanno finora rappresentati e li rappresenteranno in futuro (Landini docet).
Se prima non si vince su questo fronte, nessuna guerra potrà essere portata e vinta contro gli attuali "poteri dominanti" , che vedono proprio negli "esclusi" (ossia in chi li rappresenta o si candida a farlo) i loro più efficienti alleati.
Vedo che le nostre strade s'incrociano solo quando c'è da bacchettare il megalomane pescarese, sul resto siamo distanti anni luce. Se il pescarese fosse "politicamente" meno opportunista e più coerente, le nostre strade non s'incrocerebbero mai.
RispondiEliminaDici a me? Se dici a me, allora ti chiarisco una cosa.
EliminaIl fatto che "l'uomo che non deve googlare mai" mi stia sugli zebbedei non mi impedisce di essere spesso d'accordo con lui, e di riconoscere il vero in ciò che dice. Quando lo dice.
Anche perché la verità è femmina, ma se le volti le spalle prima o poi ti si inchiappetta. Così come accadde a me quando non volli dare ascolto a chi mi diceva, Illo tempore, una verità solare che mi rifiutavo di riconoscere: non applaudire chi insulta gli altri, perché prima o poi insulterà te.
Continua con il tuo lavoro, ma scrivi solo quando hai argomenti, e per nessun'altra ragione.