La traccia dell'intervento di Luciano Granieri.
CAUSE
Spiegare
perché l’occupazione e il reddito sono le uniche cose che non aumentano non è
questione semplice. Intanto perché le cause partono da lontano e perché hanno a
che fare con un profondo mutamento dei rapporti sociali e di produzione fra
capitale e lavoro. L’articolo 1 della Costituzione “L’Italia è una repubblica
fondata sul lavoro” esplicita chiaramente che dal lavoro devono dipendere le
politiche economiche e l’economia, non viceversa. Assodato ciò si rende
necessario riequilibrare la debolezza
del lavoratore rispetto alla forza contrattuale del detentore dei mezzi
di produzione. A ciò dopo decenni di lotte
si era giunti con l’approvazione della legge 20 del 1970 (lo statuto dei
lavoratori). Tale normativa agiva sulla tutela della variabili che, se non
legislativamente protette, avrebbero determinato la completa subordinazione del
lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Cioè, un salario dignitoso, vincoli
al licenziamento ingiustificato, rispetto delle prerogative professionali del
lavoratore. Su queste macroaree si concentravano gli effetti della legge 20. Lo
Statuto dei lavoratori era lungi dal definire un inamovibile posto di lavoro
durevole fino alla pensione. Disporre
di un lavoro stabile significava semplicemente
avere la certezza di poter contare su un
rimedio efficace contro eventuali soprusi e angherie del datore di lavoro,
significava poter rivendicare, nella
concretezza dei rapporti di lavoro, il diritto a una retribuzione equa o alla
tutela della professionalità, della salute o della sicurezza sul lavoro.
Significava potersi organizzare collettivamente senza temere che ciò
potesse costituire un biglietto di sola
andata dentro una lista di nomi coinvolti in una procedura di riduzione di
personale o in un trasferimento di ramo d’azienda. Tutto ciò per garantire pari dignità sociale
ai cittadini attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e
sociale che ne limitano la libertà e l’eguaglianza, impedendo il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica
così come sancito dall’art. 3 della Costituzione. Le conseguenze di queste
politiche in termini economici avevano stabilito un equa distribuzione del
reddito fra quota salariale e quota derivante dal profitto. Dalla metà degli anni ’80 è iniziata la
decisa controffensiva capitalista, tesa a distruggere questo equilibrio e a
spostare una parte sempre più significativa del reddito dal salario al
profitto. Capovolgendo completamente il compito del legislatore così come
definito nella costituzione. E attivando processi legislativi atti non più a
difendere il debole, ma il forte nel rapporto capitale lavoro. Le linee su cui
si sono sviluppate queste politiche hanno camminato sui binari per cui la
libertà sindacale e il controllo giudiziario, garanzia di uguaglianza e
democrazia, dovevano essere ridotti se non eliminati perché fastidiosi
ostacoli alle discrezionalità
imprenditoriali, alla loro libertà di disporre a piacimento della mano d’opera
. Si è stravolto il concetto di lavoro,
passato, da elemento distintivo della
propria cittadinanza e appartenenza alla comunità, a variabile sui costi di
produzione, a fattore di mercato. In pratica la legislazione sul lavoro si è
trasformata, da strumento di garanzia di diritti delle persone, in strumento di garanzia della flessibilità
del processo produttivo.
LE
LEGISLAZIONI
A partire dagli anni ’90 Italia
tutti i governi, di centro destra e centro sinistra succedutesi al potere, con
la scusa di sconfiggere la disoccupazione giovanile, hanno introdotto notevoli
cambiamenti nella legislazione del lavoro tali da soddisfare la visione
neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Alcuni
esempi: la riforma del sistema pensionistico nel 1995 (legge 355/95) in
relazione al metodo di calcolo da retributivo a contributivo. La legge Treu del
1997 che introduce le prime forme di
flessibilità in entrata legittimando il lavoro interinale fino ad allora
proibito. Nel 2003, a seguito della pubblicazione del libro bianco sul mercato
e le politiche del lavoro del 2001, viene approvata la legge 30 detta anche
legge Biagi che introduce ancora più flessibilità nel mercato moltiplicando le
modalità di lavoro atipico. Nel 2012 e nel 2014 si consumano gli ultimi due
atti per trasformare il lavoro in merce: la legge Fornero e il Jobs Act, le
quali rendono maggiore la flessibilità
in uscita. La prima depotenziando gli effetti dell’articolo 18 dello statuto
dei lavoratori la seconda abolendolo del tutto. Ma con quali risultati? Le posizioni lavorative nel 1990 erano 21
milioni e mezzo nel 2014, dopo 24 anni di politiche lesive dei diritti dei
lavoratori, le posizioni sono aumentate
a 22 milioni e seicento mila, un aumento del 5% che dimostra come il risultato
dichiarato dai governi teso a liberalizzare il lavoro per ottenere aumenti
significativi di occupazione sia fallito. Inoltre nella dinamica di modesta
crescita i contratti a tempo determinato aumentano rispetto al 1990 del 56%
mentre quelli a tempo indeterminati solo dell’8%.
CAUSE DEL FALLIMENTO
C’è da notare un altro aspetto particolare di tale involuzione sopravvenuto negli ultimi
dieci anni e aggravatosi a partire dal 2008 anno d’inizio della crisi: L’enorme
contrazione dei lavoratori intermedi rispetto a quelli molto e poco
qualificati. Considerando la composizione in percentuale dell’occupazione nell’ultimo
anno disponibile (2013) l’Italia si colloca al di sotto della media europea per
percentuali di occupati nelle professioni più qualificate e pagate (manager),
assieme Spagna Portogallo e Grecia, presenta oltre il 30% in più di lavoratori occupati in mansioni
poco qualificate e poco pagate. Perché
dunque insistere in politiche che non raggiungono l’obbiettivo di creare
occupazione e in più il lavoro che creano è sempre Più precario? La risposta ovvia la
motivazione sull’aumento dell’occupazione è falsa. In realtà gli scopi che si vogliono raggiungere sono uno di tipo
prettamente ideologico ultraliberista,
la sempre maggiore marginalizzazione del lavoro nella formazione del
reddito, l’altro inerente alla svalutazione competitiva del costo del lavoro,
in sostituzione della svalutazione monetaria, non più possibile in regime di
moneta unica. Vediamoli meglio entrambi.
IL
LAVORATORE AI TEMPI DELL’ULTRALIBERISMO
L’idea ultraliberista, prefigura un lavoratore
imprenditore di se stesso. Un uomo che concepisce le proprie risorse come
capitale umano da valorizzare. Secondo Pierre Dardot e Christian Lavalle autori
del libro La nuova ragione del mondo, critica della razionalità neoliberista, è in
gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività quella che chiamiamo oggettivazione contabile
e finanziaria che altro non è che la forma più compiuta dell’oggettivazione
capitalistica. In altre parole si tratta di produrre nel soggetto individuale
un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale. Il soggetto è
abituato a vedere in se stesso un capitale umano da valorizzare, un valore da
aumentare sempre più. Una nuova ragione sociale del mondo e della vita
individuale al quale anche lo Stato
nelle sue pratiche e nei suoi principi è tenuto ad adeguarsi. L’economista
arriva a tipizzare un disoccupato “bohemien”
che sceglie di vendere le proprie abilità o le proprie competenze solo
per ristretti periodi della propria vita provvedendo da solo alla propria
formazione e alla continua promozione di se stesso per rispondere meglio alle
esigenze del mercato. Tutto quanto è nelle disponibilità del soggetto si mette
a valore anche le capacità economiche sottoutilzzate: da una stanza in più
messa in affitto, o il noleggio della propria macchina e delle proprie capacità lavorative, spesso
si mette a diposizione l’intera propria privacy omologando il tempo di vita a
quello del lavoro. Ciò su cui gli analisti liberisti sono concordi è che nel
futuro, se questo nuovo modello si affermerà, il contratto dipendente, stabile,
a tempo indeterminato fino alla pensione, andrà a poco a poco a estinguersi. Il
mondo nuovo che viene tratteggiato è dominato da forze anonime e individui
singoli, con una forza lavoro estremamente parcellizzata, dove anche i diritti
sociali sanciti nelle Costituzioni nate nell’immediato dopoguerra sono
considerate d’intralcio, da abolire o modificare significativamente, come nelle
indicazioni di importanti società di rating internazionale. La JP Morgan scrive
infatti in un documento molto citato del 28 maggio 2013 che le Costituzioni
nate dopo la fine delle dittature in Europa tutelano “troppo” i diritti dei
lavoratori. The Economist, auspica che auspica che i governi europei mettano in
piedi un sistema universalistico di sostegno al reddito che consenta la
sussistenza del lavoratore intermittente nei periodi di magra. Un modo per
utilizzare lo Stato come supplente anziché come soggetto regolatore.
LA SVALUTAZIONE COMPETITIVA.
La competitività di prezzo di un Paese è misurata dall’indice del
costo del lavoro per unità di prodotto.
Tale indice è il rapporto fra retribuzione nominale per occupato e la
produttività reale del lavoro.
Quest’ultima invece è data dal rapporto fra il valore aggiunto e il
numero di occupati, od ore di lavoro necessarie per raggiungere quel valore. In
linea teorica, minore è il costo del lavoro per unità di prodotto, maggiore dovrebbe essere la competitività del
sistema economico. Per ottenere una riduzione significativa si può agire o
sulla riduzione della retribuzione nominale dell’occupato, oppure aumentando la produttività reale del lavoro.
Nel primo caso, il risultato è immediato. Ma tutto ciò provoca l’aumento di solo
nel breve periodo e solo a condizione che le imprese diminuiscano i prezzi
anziché aumentare il profitto o investire
sulla speculazione finanziaria il surplus ottenuto. La seconda strada,
ovvero il rafforzamento della produttività,
è di più difficile realizzazione, richiede investimenti in ricerca,
sviluppo per il miglioramento delle
qualità di processi e di prodotto. Le politiche adottate in Italia per ridurre
il costo del lavoro per unità di prodotto, si sono concentrate quasi
esclusivamente sulla moderazione salariale, una scelta che può produrre
vantaggi sulle esportazioni, ma genera
un impatto negativo sulla domanda aggregata interna attraverso la
riduzione dei redditi da lavoro. In
assenza di investimenti che aumentano la produttività, e con la contemporanea
compressione salariale, in condizioni
macroeconomiche critiche caratterizzate da deflazione e depressione
persistente, si alimenta la spirale
negativa tra perdita di lavoro e bassa produttività.
Jobs Act
Il jobs act renziano,
insieme gli altri letali provvedimenti quali i contratti a tempo determinato a 36 mesi senza
causale, sono un inarrivabile paradigma, sia dell’esaltazione dell’ideologia
neo liberista, sia della svalutazione competitiva. E le conseguenze non
potranno che esser disastrose soprattutto per i lavoratori. Vediamone alcuni
aspetti: Tanto per essere chiari il Jobs Act, o contratto a tutele crescenti,
non è né un contratto né prevede tutele
crescenti per i lavoratori. Si tratta sic et simpliciter di un’abolizione
camuffata dell’art.18. Per la prima volta dal 1970 la tutela contro il
licenziamento illegittimo (consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro
ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso) non si
applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unico fattore che
cresce, dunque, sono i lavoratori privi della tutela dell’art.18. Ma la definizione tutele crescenti è corretta se
applicata al datore di lavoro. I casi in cui è prevista la reintegra
(licenziamento orale o discriminatorio) non ricorreranno mai, perché sarà impossibile darne prova in
giudizio. Per tutti gli altri casi si avrà diritto ad un indennizzo che non avrà
carattere risarcitorio perché non legato al danno subito dal lavoratore ma alla
sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno
di servizio, con un minimo di quattro ed un massimo di 24 mensilità. Se si
considera che oggi la buona uscita minima concordata è di 36 mensilità ben si
capisce come l’importo che l’azienda dovrà corrispondere ad un dipendente licenziato ingiustamente non
costituisce affatto deterrente. Per raggiungere il massimo delle 24 mensilità,
come stabilito nel jobs act, un
lavoratore dovrà aver raggiunto un’anzianità di servizio pari a 12 anni, un
fatto che contrasta notevolmente con la tendenza ad assumere per breve tempo.
Inoltra licenziare sarà veramente facile,
infatti basta imputare al lavoratore una qualsiasi manchevolezza, ad
esempio un ritardo nel raggiungere il posto di lavoro, anche non grave
per provocare il licenziamento. La
riforma infatti preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità
dell’infrazione commessa dal lavoratore e il licenziamento. Altra novità è il venir meno della reintegra
in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio.
Ciò senza che venga rispettato il tempo
di comporto. Per ogni tipo di mansione, a seguito di infortunio o malattia, il
lavoratore non può essere licenziato prima che sia trascorso il tempo necessario per rimettersi (tempo di
comporto), con il jobs act questa grave vessazione procurerà al lavoratore il semplice indennizzo delle
due mensilità per anno di servizio. A questo vanno aggiunti i devastanti
effetti del decreto Poletti (legge 34 del 2014) sui contratti a tempo
determinato senza causale. Con la legge
Fornero era possibile ricorrere alle prestazioni di un dipendente a tempo
determinato, senza giustificarne l’impiego, una sola volta. Per un periodo di un anno. Il decreto Poletti,
amplia questa possibilità a tre anni e prevede che possa essere effettuato il
rinnovo per 5 volte, cioè ogni 6 mesi. Ciò significa tenere sotto scacco il
dipendente che, nella speranza della proroga o di un rinnovo, sarà disposto ad
accettare ogni sopruso, anche una
compressione salariale. Ad una
lavoratrice che si sposa o entra in
gravidanza, sarà facile non rinnovare il contratto. Ancora nel jobs act, si
prevede la possibilità, qualora le condizioni oggettive dell’impresa lo
richiedano, di demansionare un dipendente, senza il suo assenso, ad incarichi
inferiori rispetto a quelli che aveva al momento dell’assunzione. Con questa
norma si va a modificare l’art.2013 del codice civile che vieta i patti di
demansionamento del lavoratore. Ci
sarebbe molto altro da dire, per esempio sul mini jobs e i buoni lavoro, ma concludo questa parte
facendo notare come il vero obbiettivo del jobs act sia perseguire l’ideologia
liberista che mette l’intera vita del lavoratore a disposizione dell’impresa e
inasprire le modalità di compressione salariale al fine di ottenere
svalutazione competitiva. Le finalità dichiarate dal Governo, inerenti la
funzionalità del jobs act nella lotta alla disoccupazione sono false.
L’articolo 18 c’è dal 1970, e la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi 6
anni (dal 6% del 2008 al 13% del 2014). Dopo 10 anni dall’entrata in vigore
della legge Biagi, che ha introdotto la flessibilità in entrata a favore dei
giovani, la disoccupazione giovanile è arrivata al 43%. Sono 20 anni che in materia contrattuale si continua a
puntare sulla flessibilità in entrata (contratti a termine) e in uscita
(modifica dell’art.18 2012 e sua abrogazione 2014) eppure è del tutto evidente
come tutto ciò non abbia diminuito la disoccupazione ne aumentato
l’occupazione.
PROPOSTE
L’assunto principale che anima le proposte che seguono, sancisce
che non è possibile delegare al mercato le regolamentazioni del lavoro. E’
necessario che lo Stato si riappropri delle prerogative di regolazione dei
rapporti di produzione per riaffermare
che le politiche economiche devono dipendere dal lavoro e non viceversa.
Serve una politica pubblica per il
lavoro completamente diversa. E’ necessario:
a) Rafforzare anziché indebolire i diritti e le tutele
dei lavoratori dipendenti favorendo la loro effettiva stabilizzazione.
b) Investire nella creazione diretta di occupazione
pubblica
c) Redistribuire il lavoro grazie ad una riduzione
sussidiata dell’orario di lavoro
d) Investire nella gestione pubblica dei beni comuni
e) Investire nella gestione pubblica del lavoro
riproduttivo finalizzato alla erogazione di servizi sociali.
Soprattutto in quest’ultimo settore le possibilità sono enormi. E
le grandi lobby già stanno investendo in questi comparti. Sanità, scuola,
assistenza agli anziani, messa a profitto dei beni comuni come l’acqua devono
prevedere il rilancio dell’azione pubblica nella loro gestione. E qui la nostra
città è maestra su cosa non si debba fare per creare posti di lavoro. I soldi della cassa depositi e prestiti
destinati allo stadio, potrebbero
essere indirizzati ad un fondo per i
piani di occupazione. Fondo implementato
da altre entrate, provenienti da altre linee di finanziamento , i
fondi sociali europei ad esempio. Mi pare che ci sia l’assessore preposto,
quando non dorme. Tale fondo potrebbe finanziare progetti finalizzati al
recupero e valorizzazione degli edifici già esistenti, (scuole, asili) la bonifica e la riqualificazione del
territorio, volta a prevenire il dissesto idrogeologico. Altra occupazione si
potrebbe ottenere finanziando progetti che impiegassero addetti nella valorizzazione
del patrimonio storico culturale ed archeologico. Insieme ai piani per il
lavoro, il Comune potrebbe reinternalizzare i servizi alla città, che ad oggi vengono affidate a privati
secondo una logica per altro economicamente svantaggiosa, ma che richiama i concetti di ideologizzazione
del lavoro in senso neoliberista già illustrati. Per allargare lo sguardo
bisognerebbe produrre buona occupazione nella gestione della sanità, della cura
agli anziani, un fattore importantissimo
in una società che tende ad invecchiare. Ripeto, non lascare che le attività di
riproduzione diventino business per le lobby assicurative, ma usarle per
generare buona occupazione attraverso il finanziamento pubblico. Per tornare
alle attività produttive, è necessario reindirizzare i piani industriali,
rivoluzionare cosa produrre e come produrlo. E’ necessario l’intervento dello
Stato per finanziare aziende orientate alla produzione di energie rinnovabili.
Oppure agevolare la filiera della conversione a freddo e del riuso dei rifiuti. E’ necessario, inoltre,
che la pubblica amministrazione, oltre a
cofinanziare tali progetti ne segua i piani industriali, magari anche con il
coinvolgimento dei lavoratori, per verificare che soldi pubblici stiano
producendo buona economia e buona occupazione.
REDISTRIBUZIONE DEL LAVORO
Affianco alla definizione di nuovi modelli produttivi bisognerà porre mano ad una seria redistribuzione del lavoro. In una fase in cui gli straordinari sono
detassati, pur in un contesto di limitata offerta di lavoro, si produce l’incoerente fenomeno per cui pochi lavoratori operano
secondo orari di impossibili e molti
lavoratori rimangono a casa. La tassazione agevolata
degli straordinari produce disoccupazione per 500mila addetti l’anno. Inoltre
l’utilizzo del contratto par time spesso
viene imposto dall’azienda e subito dal lavoratore. “Lavorare meno lavorare
tutti” si diceva una volta. L’ideale sarebbe una riduzione dell’orario
lavorativo a parità di salario. Ma non credo che le imprese, a meno che non si
faccia una rivoluzione, siano disposte ad
accettarlo. Né sarebbe conveniente per i lavoratori subire la diminuzione
salariale in funzione di un tempo di lavoro ridotto. La soluzione è calibrare
il carico fiscale e contributivo sul
salario in base all’orario di lavoro, alleggerendolo per gli orari ridotti e
aggravandolo per quelli a lunga durata. Più specificatamente va prevista una fascia oraria e il reddito
monetario corrispondente esente da
tassazione, tanto per il lavoratore che per l’impresa. Per orari di lavoro più
lunghi gli oneri contributivi aumenteranno fino a corrispondere a quelli attuali per le
40 ore settimanali. Per orari superiori l’incidenza fiscale s’incrementerà per ogni ora di lavoro in più prestata. In
questo modo le aziende saranno indotte a
riorganizzare il loro processo produttivo in modo da distribuire i lavoratori per le diverse durate di lavoro per sfruttare, o il vantaggio fiscale degli
orari più brevi, o la migliore produttività dei lavoratori con orari più
lunghi. La struttura degli orari riacquista quella funzione necessaria per
rispondere flessibilmente alle necessità produttive. Per quanto riguarda i lavoratori. Il reddito
sarà in questo caso una combinazione fra salario privato (remunerazione dell’attività
lavorativa) e salario pubblico (
derivante dell’esenzione fiscale contributiva . Nel caso di un orario ridotto
la remunerazione privata sarà inferiore, ma aumenterà la remunerazione pubblica
in termini di esenzione fiscale, per
orari più lunghi aumenterà la remunerazione privata, e diminuirà quella
pubblica per l’effetto dell’aumentata imposizione fiscale. Per concludere
questa lunga trattazione, come ho dimostrato è possibile fermare il declino del
lavoro e del reddito, ma bisogna innanzitutto che il reddito derivi per la
maggior parte dal lavoro e non dal profitto come avviene oggi. “Più lavoro,
meno profitto questa" è la formula. Il lavoro come elemento di promozione
della dignità umana e non variabile del costo di produzione.
Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).
RispondiEliminaCommento autorizzato anche se, ad oggi, l'amico Orchiclasta non ha un profilo identificabile. Ciò per due ragioni: 1) il commento è la semplice segnalazione di un refuso 2) l'amico Orchiclasta, che conosco di persona, sentito telefonicamente ha dichiarato di non avere problemi a completare le info sul suo profilo, e che lo farà.
EliminaInsomma, la linea del blog non cambia. E il contatore delle visite scende troppo lentamente... finirà che dovrò chiedere pure i soldi per commentare qui uahuahuahuah!!!
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