In passato abbiamo constatato più volte l'assenza di obiettivi comuni, sebbene questi si siano occasionalmente manifestati, in forma embrionale e transitoria, in alcuni particolari e drammatici momenti. Scriveva Prezzolini:
«Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio Veneto una sconfitta per l’Italia. Senza paradossi si può dire che Caporetto ci ha fatto bene e Vittorio Veneto del male; che Caporetto ci ha innalzati e Vittorio Veneto ci ha abbassati, perché ci si fa grandi resistendo a una sventura ed espiando le proprie colpe, e si diventa invece piccoli gonfiandosi con le menzogne e facendo risorgere i cattivi istinti per il fatto di vincere».
Tuttavia l'unione di intenti che sorge dalla necessità di rimediare a un disastro è sterile, non dura nel tempo, e si dissolve non appena si torna alla normalità. La costruzione di una vera unione di intenti, che sia solida e duratura, è infatti un'operazione culturale e politica di lunga durata, assomiglia alla costruzione di una cattedrale, o di una città là dove prima c'era solo una spianata, che impegna generazioni di anonimi costruttori guidati dalla fede e dalla volontà di dar vita a un sentimento di identità. La costruzione della cattedrale, o della città, diventa così un obiettivo condiviso che nessuna ambizione personale può mettere in pericolo, cosicché queste possono svilupparsi solo ed esclusivamente in armonia con l'obiettivo comune. Si può aspirare a diventare capomastri o architetti in capo, oppure reggenti della città, ma guai a minacciare con la propria ambizione lo scopo collettivo, in vista del quale le energie individuali sono sequestrate e poste a servizio esclusivo.
Non basta tuttavia la sola volontà per attivare il processo che conduce alla costruzione di una cattedrale o di una città, in definitiva di una identità, poiché questa deve essere preceduta da una percezione collettiva evidente a tutti, ovvero che la mancanza di uno scopo comune è una minaccia costante e fatale di dissoluzione, sicché il porvi rimedio o il non farlo costituisce una scelta decisiva.
L'Italia dopo quasi due secoli dalla sua nascita artificiale, circostanza che ne ha condizionato lo sviluppo successivo, è ancora priva di una sua identità, essendo soltanto una collezione di deboli e piccole identità locali - in senso sia geografico che lato - tenute insieme da fragili istituzioni sottomesse a poteri esteri sia sul piano militare che economico, dunque politico. Questo dato di realtà determina il carattere della sua popolazione, che ci appare come una massa di individui desiderosi solo di pensare al proprio benessere economico e che, quando la tempesta si profila all'orizzonte, cadono facilmente preda di ambiziosi, spesso capaci ma sempre privi di una visione di insieme, i quali colgono l'occasione di emergere costruendo aggregazioni di cui vogliono mettersi e restare a capo. Manca la percezione, acuta e dolorosa, della necessità di un obiettivo comune, nel cui alveo, e solo in quello, le ambizioni personali possono trovare legittimazione. La prova evidente di questo stato delle cose consiste nella facilità con cui coloro che si assembrano, al seguito degli ambiziosi e capaci che si fanno avanti, sono disposti a tollerare qualsiasi incoerenza pur di difendere la particolare fazione alla quale hanno aderito. Infatti ogni fazione non persegue un obiettivo comune, come la costruzione di una cattedrale o di una città, bensì l'accrescimento della sua forza, sempre in contrasto con le altre.
La vicenda del cosiddetto movimento no-euro è paradigmatica di quanto testé affermato. Quasi tutti i capi di questo movimento hanno ripudiato la battaglia comune, ponendo le loro fazioni al servizio dei poteri globalisti interni al paese, nel mentre l'emergere di nuove tematiche, subito còlte come nuove occasioni di carriera politica, sta facendo nascere altre aggregazioni, secondo il ben noto schema del concorso di bellezza. Tutti vogliono partecipare, corrono ad iscriversi, mobilitano parenti e amici per avere la claque più numerosa e vincere il premio in palio: sia questo una platea di sostenitori, una piazza da arringare, occasioni di affari, infine un ambìto scranno ben retribuito. Tutto ciò non accade perché gli italiani siano peggiori di altri popoli, essendo gli ambiziosi e capaci ovunque uguali a se stessi, bensì perché a livello di massa manca la percezione della necessità categorica di un obiettivo comune che sia assolutamente, direi totemicamente, prevalente prevalente rispetto ad ogni altra istanza. Un totem al quale sia associato un tabù, che renda spregevole, agli occhi di chiunque, il preporre l'ambizione personale al dovere di coltivarla solo ed esclusivamente in armonia con l'obiettivo comune, questo sì imposto dal basso, dal sentimento popolare.
Come ho già fatto in occasione del precedente concorso di bellezza, non parteciperò al nuovo che già si annuncia. Nel mio piccolo continuerò a pormi al servizio della necessità di far nascere, nella comunità degli italiani, la consapevolezza di quanto sia importante il sentimento di identità, la sua sacralità pratica e operativa - dunque non mistica, affinché l'obiettivo comune di essere liberi di autodeterminarci diventi senso comune, un totem il cui tradimento sia considerato un tabù più forte che uccidere il proprio padre per appropriarsi del patrimonio e giacere con la madre.
Questo è il fondamento della sovranità popolare, il cui tradimento deve essere un tabù inconcepibile per chiunque non sia un folle psicopatico. L'avessimo avuta, questa coppia totem/tabù, nessuno degli ambiziosi e capaci che hanno ripudiato la battaglia no-euro avrebbe mai osato farlo, e oggi la situazione sarebbe completamente diversa.
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