domenica 1 novembre 2015

Noi italiani

Epitome: «alla fine del XV secolo il vincolo esterno assunse la forma dell'intervento di Carlo VIII in Italia, chiamato da Ludovico Sforza detto il moro»

Scrive Fabio Campedelli in un commento nel post "Sul calcio":

"Non è, caro Fiorenzo, che sia meglio attaccarci alla bottiglia e mandare in malora tutto? Non aveva qualche ragione Benito, quando diceva che gli Italiani, non solo è impossibile governarli, ma anche inutile?"

Grazie Fabio per la domanda, che mi offre l'occasione per una riflessione che volevo rendere pubblica da tempo. Parli di "italiani", e dunque per prima cosa dobbiamo chiederci cosa si intenda per "italiani" e, più in generale, con l'idea di "popolo". Si possono avere opinioni diverse, ma io partirò dalla mia definizione di "popolo", dalla quale discende, per applicazione della stessa, quella di "italiani".

«Un popolo è un gruppo sufficientemente ampio di persone che costruiscono e condividono una narrazione della loro storia che abbia almeno due caratteristiche: 1) svilupparsi lungo un arco temporale di almeno un secolo, tale cioè che la "narrazione" esista quando tutti coloro che l'hanno iniziata sono già morti, e 2) sia nettamente distinta da altre narrazioni sviluppatesi nello stesso arco temporale in ambiti contigui (rischio di regionalismo).»

Come conseguenza di questa definizione, gli italiani sono un popolo, come i francesi e gli spagnoli, mentre la padania non esiste, almeno non ancora, essendo un fenomeno al più regionale.

Che gli italiani siano un popolo è, a mio avviso, un fatto evidente in sé, ragion per cui lo assumerò come postulato indiscutibile: il popolo italiano è una realtà storica, cioè una narrazione costruita (nei secoli) e condivisa (da un po' meno tempo). Io sono un italiano, lo sei tu, lo sono altre 60 milioni di persone.

Aggiungo che, a mio avviso, esiste una netta soluzione di continuità tra gli Italiani e gli antichi Romani, un popolo che ha abitato la nostra penisola ma che si è estinto nei termini della definizione che ho assunto. Gli Italiani, al più, possono vantare un'eredità diretta nei confronti degli antichi Romani, ma sono un'altra storia.

Ora dobbiamo chiederci; quando ha avuto inizio, in termini quantitativamente rilevanti (dunque non considerando lo stato embrionale, perché la discussione prenderebbe un'altra piega) la costruzione di questa narrazione, e quando essa ha cominciato ad essere condivisa? La mia opinione è che ciò sia avvenuto nel XIV secolo per quanto riguarda la costruzione (le repubbliche marinare e i liberi comuni), e nel XVI secolo per quanto riguarda la condivisione (Machiavelli, Guicciardini...). La distinzione tra la fase della costruzione e quella della condivisione è importante, perché la prima costituisce un fatto che trae origine dagli accadimenti concreti, che sussiste anche quando il futuro popolo non è ancora unito da una coscienza comune e, anzi, è addirittura diviso da contrasti che possono sfociare in vere e proprie guerre. Invece la condivisione della narrazione comune, già costruitasi attraverso accadimenti concreti, è un prodotto culturale.

Ci sono casi di "popoli" che sono nati sulla base della condivisione di una narrazione storicamente falsa, ma che pur tuttavia oggi esistono. L'esempio più macroscopico è, a mio parere, il popolo ebreo, che è stato letteralmente inventato a partire da una mitologia. Ciò non toglie che oggi il popolo ebreo esista, e sia una realtà che non può essere negata. Non così la gran parte dei popoli, i quali possono vantare sia una narrazione fondata su accadimenti storici oggettivi che un processo di condivisione; il quale, lo ripeto, è sempre un prodotto culturale.

Ma torniamo a noi, cioè alla questione se sia vero che governare gli italiani sia non solo impossibile, ma addirittura inutile. Una domanda alla quale risponderò partendo da un punto di vista che, apparentemente, in parte la elude. Non negherò infatti che il popolo italiano abbia un suo "carattere" distinto da quello di altri popoli. Meglio, non negherò che la narrazione che ci riguarda e che condividiamo ci descrive come un popolo che ha, tra le sue caratteristiche, quella di una tendenza all'anarchia e all'individualismo familistico, ma cercherò di spiegare perché le cose stiano in tal modo.

La lotta di classe, come ben sai, è un dato concreto. Non sto parlando della lotta di classe in senso strettamente marxista, ma in un'accezione più ampia. Le repubbliche marinare e i liberi comuni si formarono perché un numero crescente di individui, fuggendo dai latifondi, si riunirono in piccole comunità urbane dando vita alle arti e ai commerci. Il loro successo fu strepitoso, per cui in breve tempo l'aristocrazia terriera e guerriera si trovò in condizioni di inferiorità militare, nulla potendo contro gli eserciti che città come Pisa, Firenze, Genova, Milano, Venezia potevano mettere in campo. Ma la lotta di classe si riprodusse all'interno delle nuove realtà politiche, anche perché ben presto le grandi famiglie nobiliari si inurbarono anch'esse, finendo con il partecipare alle lotte per il potere all'interno delle mura cittadine.

Tutto ciò durò per quasi tre secoli, durante i quali l'Italia divenne il paese di gran lunga più ricco d'Europa. Si stava cioè riproducendo quel delicato equilibrio che gran parte ebbe nella storia romana, quando il conflitto tra la plebe e il patriziato, invece di risolversi nell'anarchia, trovò una sintesi mirabile nelle Istituzioni dello Stato romano. In queste circostanze, sia che prevalga momentaneamente la fazione aristocratica piuttosto che quella popolare, l'equilibrio viene conservato.

Noi suoneremo le nostre campane!
Esso però si rompe se, e quando, interviene in questa dinamica un vincolo esterno. Ebbene, alla fine del XV secolo il vincolo esterno assunse la forma dell'intervento di Carlo VIII in Italia, chiamato da Ludovico Sforza detto il moro. Da allora, e per secoli, gli equilibri politici in Italia non furono più determinati da conflitti prevalentemente endogeni, bensì da forze esogene: i grandi Stati nazionali europei, in un primo tempo saldamente nelle mani dell'aristocrazia terriera e guerriera, qualche secolo dopo in quelle delle borghesie nazionali. L'accorato, e momentaneamente vittorioso, grido di Pier Capponi (noi suoneremo le nostre campane) è il simbolo del tentativo di resistenza, ahimè di breve durata in quanto non esisteva ancora una coscienza nazionale, della fazione popolare. Ben presto l'aristocrazia italica trovò conveniente entrare nel grande gioco europeo, perché ciò divenne garanzia di successo, sul fronte interno, nei confronti della fazione popolare.

Il prezzo da pagare, naturalmente, fu la libertà. Non solo per la fazione popolare, ma anche per l'aristocrazia italica asservitasi a quelle europee. La conseguenza, di lunga durata, è stata la provincializzazione dell'aristocrazia e l'infantilizzazione della fazione popolare.

Questo percorso storico, delineato a grandissime linee, è all'origine di quell'aspetto del carattere nazionale che l'amico Fabio Campedelli, citando Benito Mussolini, ha ricordato. Noi italiani siamo "infantili", così infatti ci percepiamo, perché l'infantilismo è la logica conseguenza del non avere sovranità su sé stessi, del fatto di essere eterodiretti. Orbene, questa condizione di subalternità si è apparentemente attenuata dopo la disastrosa sconfitta nella seconda guerra mondiale, ma non è mai realmente venuta meno. Soprattutto a livello popolare, la consapevolezza di essere un protettorato americano è sempre stata viva, e questo ha impedito al popolo di assumere su di sé la responsabilità reale del proprio destino.

Ciò nonostante, negli anni settanta ci sembrò che qualcosa stesse cambiando, ma non avevamo fatto i conti con il fatto che, già decenni prima, le classi dominanti italiane avevano reiterato l'antico vizio, quello di scambiare la loro stessa libertà in cambio dell'appoggio del grande capitale internazionale sul fronte della lotta di classe interna. E fu subito l'Unione Europea.

Ecco perché, sia per il bene del popolo lavoratore che delle stesse classi privilegiate oggi dominanti, l'obiettivo che dobbiamo tutti condividere è l'uscita dall'Unione Europea. E poiché le classi privilegiate italiane (oggi dominanti) sono unioniste, la battaglia per la libertà è, purtroppo, anche una battaglia contro di esse. Almeno contro quella parte che, pur di spuntarla sul fronte interno, è disposta ad asservirsi. Il punto è far loro comprendere, almeno alla parte migliore, che l'essere "classe privilegiata" non è la stessa cosa che essere "classe dominante". Almeno in democrazia.

Viva l'Italia!

4 commenti:

  1. Grazie Fiorenzo , finalmente un spiegazione storica e antropologica , che condivido .

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  2. "Irreale è ogni idea, irreale ogni passione di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l'ha mai liberato." (Pier Paolo Pasolini)

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  3. Una cosa su cui non si riflette abbastanza è che fino al XVI secolo le popolazioni che abitavano la penisola italica non erano mai, dicasi MAI, state governate da una potenza estera. Dal XVI secolo ciò è accaduto, e fino al 1860. Dopo di allora 80 anni di libertà (di cui facemmo pessimo uso), altri 50 di semilibertà, e adesso siamo di nuovo una colonia.

    Siamo un popolo che si è fatto sottomettere, pertanto siamo un popolo "infantilizzato". Per tornare ad essere adulti dobbiamo liberarci, e lo faremo.

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  4. Secondo me il carattere di un popolo è determinato anche dalla narrazione che è alla base della sua identità. Uno degli aspetti centrali della narrazione relativa al popolo italiano è che questo, a differenza di altri popoli europei, non ha mai "vinto" nulla da quando si è formato (escludendo, quindi, l'epoca antico-romana). Nell'immaginario collettivo (che è e rimarrà sempre "naif") è di estrema importanza la consapevolezza di appartenere o meno ad una comunità che storicamente ha combattuto e vinto qualcosa. Neppure il Risorgimento, per come si è svolto, è stato in grado di dare agli italiani un orgoglio nazionale.

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