Dal Mercato Comune Europeo al Mercato
Unico
Se voi regalate le arance che producete in eccesso a un vicino povero, questo smetterà di produrle, ma il giorno in cui, per qualsiasi ragione, voi non potrete continuare a farlo, si troverà a non avere più arance. Non solo: avrà anche dimenticato come si coltivano! E’ la logica di qualsiasi programma assistenziale, compreso l’ultimo proposto dal M5S, il cosiddetto “salario di cittadinanza”. E allora? Meglio distruggere le arance, diminuire strutturalmente la produzione e utilizzare le risorse per produrre qualcos’altro, piuttosto che “regalarle”! Insomma, quello che si può regalare, cioè dividere con gli altri, è solo ciò che è scarso, mentre, se si regala ciò che è abbondante, si fa concorrenza sleale. In inglese si dice “dumping”.
Squilibri commerciali tra centro (DNLF) e periferia (GIIPS) in eurozona. |
Nell’era dell’abbondanza ciò che è scarso, a parte le
risorse strategiche, non a caso presidiate da eserciti armati fino ai denti,
non sono le merci, ma i compratori. Si chiamano “mercati di sbocco”. Vi sarebbe, in realtà, un’alternativa, o almeno
qualcosa che può mitigare la necessità di avere dei mercati di sbocco, che
consiste nello sviluppare e nell’organizzare anche un grande mercato interno.
In entrambi i casi, compito della “politica”
è quello di organizzare e controllare il commercio e la produzione sul piano
internazionale e interno. L’opportunità di sviluppare un mercato interno è
stato uno degli argomenti forti, e più convincenti, di coloro che concepirono
il Mercato Comune Europeo,
instaurato dal Trattato di Roma del 1957. Da non confondere con il Mercato Unico nel quale si è
successivamente evoluto, a seguito della ratifica del Trattato di Maastricht
del 1992. In effetti, nei 35 anni intercorsi tra i due trattati, lo spirito
originario del progetto di integrazione europea è stato completamente
stravolto, come vedremo tra breve.
Prima di proseguire, è necessario rimuovere un’ambiguità
terminologica. Ho usato la parola “politica”
in senso vago, ma dobbiamo domandarci cosa significhi, veramente, questa
parola. Un europeo di media cultura dell’800 avrebbe sicuramente risposto con
maggior perspicacia del suo omologo dei nostri giorni, perché allora si sapeva
benissimo che il significato della parola (l’arte di governare la città) si
riferiva al difficile compito di conciliare i conflitti interni alla polis, al
fine di massimizzarne la sicurezza e, talvolta, la forza di espansione.
L’europeo dell’800, insomma, era perfettamente cosciente del fatto che ogni
collettività è attraversata da conflitti che è necessario tenere sotto
controllo, pena la sua dissoluzione o il suo asservimento. Nelle teste della
maggior parte delle persone di media cultura dei nostri tempi, e purtroppo
anche in quelle di molti tra i più “acculturati”,
è stata inoculata l’idea che la politica sia una tecnica. Questa, però, intesa non come capacità di risolvere i
conflitti sociali, che sono sempre conflitti di classe, ma come abilità di assicurare la manutenzione di un
sistema sociale nel quale tali conflitti sono relegati al rango di elementi di
disturbo che lo rendono inefficiente. Alla base di questa visione vi è la
convinzione che siano le forze del mercato le vere protagoniste della Storia,
mentre il ruolo delle passioni umane, e quindi della politica, è stato
fortemente sminuito. Da qui, all’idea che sia meglio affidare a dei tecnici il
compito di esercitare la politica, il passo è breve, avendone prova ogni
giorno. E infatti, l’amico che rifiutava la possibilità di abbandonare l’euro
si affidava proprio alla speranza che “qualcosa
si inventeranno”. Vale a dire: è inutile parlare di queste cose, lasciamo che
a occuparsene siano “loro”, che “sanno cosa fare”. Le cose non stanno
affatto così, perché la pretesa caratteristica dei mercati di essere un “sistema” capace di autoregolamentarsi,
come pure la loro neutralità, semplicemente non sussiste! Il compito di “fare politica” è, oggi come sempre, il diritto/dovere di ogni
cittadino di saper discernere i propri
interessi per difenderli con accortezza. Vale a dire: senza esagerare, e
senza mai cedere sulle questioni veramente importanti.
Torniamo al problema dei mercati di sbocco e del mercato
interno. In entrambi i casi non siamo davanti a situazioni che vanno per conto
loro, ma a sistemi di scambio
profondamente e minuziosamente normati. Che si tratti di accordi
commerciali, nel caso degli scambi internazionali, o di legislazioni sul
lavoro, nel caso dei mercati interni, questi trattati e queste norme regolano,
interagendo tra di loro, gli interessi contrastanti e spesso irriducibili degli
agenti economici.
Il processo di integrazione europea è stato scandito da
una lunga serie di interventi normativi, che vanno dal Trattato di Roma del
1957, che istituì Il Mercato Comune Europeo (MEC), al Trattato di Lisbona del
2009, che ha preso il posto della mancata Costituzione Europea respinta in
numerosi referendum popolari. In mezzo ci sono stati l’Atto Unico Europeo
(1986), il Trattato di Maastricht (1992), il trattato di Amsterdam (1997), il
trattato di Nizza (2001). Sono tutti passaggi
che hanno profondamente modificato l’impostazione originaria del Mercato Comune
Europeo, al punto che oggi, per far riferimento alla nuova situazione, si
usa l’espressione Mercato Unico.
Quando c’era ancora il Mercato Comune Europeo le
persone, i servizi, le merci e i capitali
potevano sì circolare all’interno dei paesi aderenti, ma tutto ciò era mitigato dalla presenza di barriere e
vincoli di tipo non tariffario, conseguenza della persistenza, nei diversi
Stati membri, di norme tecniche diverse, normative differenziate che
riguardavano i trasporti e le regolamentazioni dei mercati di capitali,
diversità delle procedure per gli appalti pubblici e, in generale, ostacoli di
carattere amministrativo e doganale. Il risultato era una segmentazione della
domanda di beni e servizi, che continuava ad essere gestita dagli stati su base
nazionale. La decisione di abolire questi vincoli sostanziali fu presa senza il
necessario coinvolgimento degli interessi economici diffusi, ad esclusivo
interesse del grande capitale. Ne è una prova il fatto che, mentre si procedeva
rapidamente verso la completa liberalizzazione, nulla fu fatto per armonizzare
i sistemi sanitari, educativi, previdenziali, le legislazioni sul lavoro;
Nessuno pose il problema dell’enorme differenza tra i livelli salariali dei
diversi paesi, né delle conseguenze che ciò avrebbe avuto in presenza di
un’effettiva libertà di movimento delle merci, dei servizi, delle persone e dei
capitali. Un dato che fa riflettere consiste nel fatto che la completa
liberalizzazione dei movimenti di capitale fu consentita non solo all’interno
dell’Europa, ma perfino tra l’Europa e l’estero!
Inoltre, con l’Atto Unico Europeo fu introdotta
un’ulteriore novità, che avrebbe profondamente segnato i successivi sviluppi
del processo: il ridimensionamento del ruolo del settore pubblico nella gestione di
imprese e servizi. Nel giro di sei anni la natura giuridica del vecchio
Mercato Unico Europeo fu totalmente stravolta in senso liberista, giungendo
alla realizzazione di quello che oggi viene chiamato Mercato Unico. Tutto ciò veniva presentato come necessario per la
creazione di un grande mercato interno, capace di rivaleggiare, per dimensioni,
con quello degli Stati Uniti. Si giunse a preconizzare un aumento vertiginoso
del commercio intraeuropeo, addirittura la sua triplicazione, ma nella realtà
dei fatti ciò non è avvenuto perché il commercio intraeuropeo ha continuato a
crescere con una velocità simile a quella del commercio internazionale, con la
sola ma determinante differenza di un fortissimo aumento degli squilibri. Sono
stati questi, e non i problemi legati al debito pubblico, la molla che ha
scatenato la crisi.
L’atto finale nella transizione dal Mercato Comune
Europeo (MEC) al Mercato Unico fu il Trattato di Maastricht, ratificato il 7
febbraio 1992, dieci giorni prima che esplodesse tangentopoli, e pochi mesi
prima della crisi valutaria dell’ottobre 1992, quando Amato mise le mani nei
conti correnti degli italiani con il famoso prelievo del 6 per mille.
"Nel giro di sei anni la natura giuridica del vecchio Mercato Unico Europeo fu totalmente stravolta in senso liberista, giungendo alla realizzazione di quello che oggi viene chiamato Mercato Unico."
RispondiElimina"Nel giro di sei anni la natura giuridica del vecchio Mercato COMUNE Europeo fu totalmente stravolta in senso liberista, giungendo alla realizzazione di quello che oggi viene chiamato Mercato Unico."
Grazie. E' il secondo errore (refuso). Il primo lo avevo già trovato io. Farò una seconda edizione.
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