domenica 14 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (6)

Il conflitto tra capitale e lavoro, e la mandrakata del vincolo esterno


Il problema era costituito dal fatto che, nel conflitto tra capitale e lavoro, quest’ultimo stava prendendo il sopravvento. Le conquiste dell’autunno caldo, la scala mobile, un clima generale caratterizzato da continue e crescenti rivendicazioni, tutto ciò suggeriva l’idea che gli equilibri di classe della società italiana potessero essere scossi dalle fondamenta.  Era possibile che il capitale accettasse l’idea che chi estraeva il suo reddito dal lavoro vedesse il suo benessere crescere, mentre chi lo estraeva dal possesso di capitali vedesse la sua ricchezza diminuire, quanto meno in termini relativi? La risposta è dentro di voi, ed è quella giusta.

Le bombe e il terrorismo, che pure stavano svolgendo l’importante funzione di contenere la fase culminante dell’avanzata del mondo del lavoro, non potevano bastare; se non al prezzo di accettare le conseguenze implicite in  una soluzione basata sulla sola forza militare: la costruzione di una società chiusa, fondata sul principio della repressione.  Serviva, dunque, una strategia alternativa, tale da consentire un esito della lotta di classe favorevole alle ragioni del capitale senza la necessità di una soluzione autoritaria.  
Il primo numero di "la Repubblica"

La controffensiva fu di natura culturale, prima ancora che politica. Nel 1976 Eugenio Scalfari fondò il quotidiano “La Repubblica”, destinato a svolgere un ruolo di fondamentale importanza nella politica italiana. Scalfari introdusse un innovativo modello di informazione politica che avrebbe, nei decenni successivi, contribuito in modo determinante a generare una scorretta percezione degli interessi di classe da parte dell'elettorato. Abbandonando lo stile conservatore degli altri giornali controllati dal grande capitale, il quotidiano adottava un modo di fare informazione giocato su due piani: da una parte si poneva su posizioni laiche e libertarie in tema di diritti civili e di modernizzazione dei costumi, dall'altra iniziava a propalare una visione dell'economia sottilmente fuorviante, che avrebbe spalancato le porte, di lì a qualche anno, all'ideologia liberista. Nei primi due anni di vita il quotidiano strizzò l’occhio ai gruppi della sinistra extraparlamentare, accaparrandosi le simpatie di una generazione di giovani che, sebbene contestasse “da sinistra” il PCI, era in effetti guidata da una élite di estrazione medio borghese. In apparente contraddizione con questa linea, il quotidiano appoggiò il “compromesso storico”, cioè l’idea, assolutamente interclassista, che fosse necessario superare la fase dello scontro di classe aspro, attraverso una conciliazione implicante il reciproco riconoscimento tra le due forze maggiori, la DC e il PCI.
 
Rino Formica, Bettino Craxi e Fabrizio Cicchitto al
40° congresso del PSI nel 1976

Il PSI di Craxi, eletto segretario nel 1976, si oppose a questa strategia, che tendeva a marginalizzarlo,  proponendosi come campione delle forze sociali emergenti della piccola e media imprenditoria e delle nuove professioni. Ne nacque uno scontro tra il PCI e il PSI che si sarebbe prolungato ben oltre la fine della prima repubblica, sebbene sotto bandiere diverse. La prospettiva di entrare nell’area delle forze politiche legittimate ad esercitare il governo, in un’epoca in cui il confronto  tra le due superpotenze (USA e URSS) restava acuto nonostante alcuni segnali di distensione (l’avvio della ostpolitik di Willy Brandt, l’attivismo di Henry Kissinger, il riavvicinamento tra USA e Cina), determinò una corsa delle due maggiori rappresentanze politiche degli interessi del mondo del lavoro a chi fosse più “affidabile”. Giocando abilmente sulla rivalità tra il PCI e il PSI, Repubblica riuscì a portare a compimento una missione che, appena qualche anno prima, sarebbe apparsa impossibile: inoculare, nella mente degli italiani, una concezione interclassista del conflitto sociale.


Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro aggiunsero confusione a confusione. Aldo Moro era il campione, insieme a Berlinguer, del compromesso storico, eppure fu il PSI a premere per la trattativa, mentre sia la DC che il PCI scelsero la linea della fermezza, appoggiati dal quotidiano Repubblica. L’idea era che “lo Stato non può scendere a compromesso con il terrorismo”, e questo fu il dibattito che venne dato in pasto agli italiani.

Sul piano geopolitico si era ad un tornante fondamentale. Il processo di unificazione europea languiva, con gli stati nazionali impegnati, ognuno per conto suo, nel fare i conti con le turbolenze valutarie e gli aumenti del prezzo del petrolio. Ne approfittarono gli Stati Uniti per rilanciare la loro strategia. Avviata la fase di distensione con l’URSS (accordi di Vladivostock – autunno 1974) e usciti dalla trappola del Vietnam (aprile 1975), gli americani avevano le mani libere per occuparsi dello scenario medio orientale, che era diventato il loro quadrante strategico fondamentale.   Il loro timore era il ritorno a politiche protezionistiche simili a quelle che l’Europa aveva adottato negli anni ’50 e ’60 per difendere il suo settore agricolo. Occorreva superare la crisi economica senza che il principio della libera circolazione delle merci (non ancora dei capitali) fosse incrinato.
Il vertice di Rambouillet del 1975

Il vertice di Rambouillet del 1975 (Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone) poneva momentaneamente in secondo piano il processo di integrazione europea, sia economica che politica, promuovendo una strategia trilaterale mirante a coordinare le politiche delle aree industrializzate (USA, Europa e Giappone). La partecipazione dell’Italia (che inizialmente era stata esclusa) rappresentata da Aldo Moro, fu infine accolta perché il nostro Paese aveva, in quel momento, la Presidenza di turno della Comunità Europea, e anche per volontà degli Stati Uniti, ben al corrente del sostanziale disinteresse della DC dell’epoca, e in particolare proprio di Moro, per un’accelerazione del processo di integrazione europea. Ciò nonostante, per volontà della Francia e della Germania, il progetto non venne abbandonato.  Le ragioni furono di natura sia politica che economica. L’interesse politico era soprattutto dalla Francia, un paese che non si rassegnava al ruolo subalterno assunto dopo la fine della guerra mondiale, mentre la Germania coltivava un interesse soprattutto economico. 


Lo stop and go dei governi Andreotti III e IV


Il fatto è che, seppur tra mille difficoltà, grazie alle politiche di spesa pubblica e alle ripetute svalutazioni della lira (dovute al fatto che l’inflazione italiana si manteneva costantemente superiore a quella dei principali partners europei),  l’economia italiana dava segni di straordinaria vitalità. Ciò avveniva anche per una particolare e, all’epoca, favorevole combinazione tra la svalutazione della lira sul marco e contemporanea rivalutazione sul dollaro, che preservava la competitività delle merci italiane riducendo il costo delle importazioni, soprattutto petrolifere, intermediate in dollari. Inoltre si era venuta sviluppando un’area di lavoro nero che contribuiva a mantenere basso il costo del lavoro per unità di prodotto.

Dopo le elezioni politiche del giugno 1976, che videro il rafforzamento della DC (38,7%) e il mancato sorpasso del PCI (34,4%), insieme con il ridimensionamento del PSI (9,6%), del PSDI (3,4%), e la quasi scomparsa del PLI (1,7%), non era più praticabile la formula su cui si reggevano i precedenti equilibri. La soluzione fu il governo della non sfiducia, ovvero un monocolore DC con l’appoggio esterno dei suoi tradizionali alleati, che portasse avanti un programma concordato ufficiosamente anche con il PCI.

L’inflazione, già alta, dava segnali di ulteriore accelerazione, mentre il saldo della bilancia commerciale, dopo un buon avvio nel primo trimestre del 1976, nel secondo aveva subito una preoccupante flessione. Appena insediato il presidente del consiglio Giulio Andreotti, in accordo con il PCI e con i sindacati, conquistati alla causa, inaugurava le politiche dell’austerità, imponendo il blocco della scala mobile e l’abolizione di sette giorni di festività, oltre a un sensibile aumento delle accise sui prodotti energetici. Grazie a questi provvedimenti, nell’aprile del 1977 furono ottenuti, dal FMI e dalla CEE, due prestiti di 500 miliardi l’uno, con l’impegno di limitare il deficit di bilancio per il 1977 a 16500 miliardi, e a 14.550 per il 1978. Tuttavia queste promesse non vennero rispettate, perché l’esplosione della contestazione costrinse il governo a tornare sui suoi passi. In particolare, il deficit di 14500 miliardi concordato con il FMI per il 1978 risultò, a consuntivo, quasi doppio.
La conseguenza fu che, dopo una fase di rallentamento della crescita nella prima parte del 1977 come conseguenza della politica di austerità, la ripresa economica tornò grazie all’ottimo andamento delle esportazioni e alla crescita tumultuosa delle presenze turistiche, incoraggiate dalla lira debole.  E infatti, come già detto, l’inflazione calò del 30%, passando dal 18.11% del ’77 al 12.43% nel ’78! Tutto ciò creava problemi alla Germania, un paese la cui economia dipendeva molto dalle esportazioni e soffriva per la concorrenza italiana.

La “svolta dell’EUR”


Luciano Lama - segretario della CGIL
La politica di austerità, promossa da Andreotti a partire dalla seconda parte del 1976, poggiava sull’accordo con il PCI che, ansioso di entrare nell’area di governo, accettava di esercitare pressioni sul maggiore dei sindacati, la CGIL, affinché non si opponesse. Per Cossiga, la condizione per far entrare il Pci nell’area di governo era data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica” (da la Repubblica). Ancora su la Repubblica, il 24 gennaio 1978, comparve un’intervista a Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, nella quale dichiarava: “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.

Il fatto è che la mobilitazione del 1977 restituì slancio alla contrattazione salariale, cosicché, nonostante la linea di moderazione accettata dai sindacati della triplice (svolta dell’Eur), ciascun sindacato di categoria, pressato dalla base, avrebbe cercato un recupero salariale. L’incapacità del PCI di tenere a freno le rivendicazioni salariali e di contenere la contestazione alla sua sinistra resero manifesta, agli occhi del capitale, la sterilità del tentativo di coinvolgerlo nell’area di governo. Inoltre il partito perdeva consenso, con il rischio che, alla sua sinistra, si consolidassero formazioni di opposizione più radicali.

La crisi della solidarietà nazionale


Qualche giorno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14 maggio 1978, si tennero le elezioni amministrative parziali, che diedero un responso di fondamentale importanza: al forte recupero della DC, che passava dalle dal 38.7% delle politiche del ’76 al 42.5%, fece riscontro un clamoroso crollo del PCI, che precipitò dal 34.4% al 26.5%. Il PSI del nuovo segretario Bettino Craxi recuperava, passando dal 9.6% al 13.5%. Il risultato, unitamente alla scomparsa di Aldo Moro, restituiva spazio alle correnti della DC ostili alla politica di avvicinamento al PCI e segnava la fine della cosiddetta “solidarietà nazionale”, a favore di un rinnovato rapporto con il Partito Socialista di Craxi.
Il primo segnale del nuovo corso si sarebbe avuto alla fine dell’anno, quando giunse in discussione alla Camera l’entrata dell’Italia dello SME. Si trattava di ripartire dal fallimento del serpente monetario, per tentare di costruire un sistema monetario europeo totalmente diverso da quello che aveva governato l’economia mondiale dal 1944 (conferenza di Bretton Woods) al 1971, quando Nixon aveva abolito la convertibilità del dollaro con l’oro. Al serpente monetario, nei dieci anni successivi, sarebbero stati aggiunti gli elementi di cui questo mancava. Non solo un accordo sui cambi nominali, sì da limitare la libera fluttuazione dei cambi (Repubblica parlava, capziosamente nonché  falsamente, “svalutazioni competitive”), ma anche, immediatamente dopo, una nuova disciplina nell’emissione dei titoli di stato e, infine, l’apertura alla libera circolazione dei capitali.

Il sistema di Bretton Woods, sebbene consentisse la circolazione dei capitali, lasciava tuttavia ai paesi il potere di controllarne i flussi attraverso provvedimenti di carattere amministrativo, ad esempio imponendo che, almeno in parte, gli utili prodotti da un investimento estero fossero obbligatoriamente reinvestiti nel paese. Allo stesso tempo, ogni stato poteva controllare i suoi tassi di interesse, pur lasciando le monete sostanzialmente ancorate al dollaro, e quest’ultimo all’oro. Durante il periodo di applicazione degli accordi di Bretton Woods non furono infrequenti i riallineamenti monetari (svalutazioni e rivalutazioni), senza contare il fatto che gli Stati Uniti intervennero spesso in soccorso dei paesi europei in difficoltà con prestiti a bassissimo interesse. L’obbiettivo dichiarato del sistema di Bretton Woods era il raggiungimento della piena occupazione negli stati aderenti, intento che fu in effetti raggiunto. In Italia, ad esempio, per tutti gli anni ’60 la disoccupazione si mantenne al di sotto del 4%.

Ben diversi erano gli obbiettivi, esplicitamente dichiarati, che gli stati europei, soprattutto Francia e Germania, vollero perseguire con l’introduzione dello SME: la creazione di un Mercato Unico con libera circolazione dei capitali, all’interno del quale fosse stabilito un tasso di cambio nominale fisso tra le monete. In tal modo, aumenti differenziati dei prezzi tra i paesi (diversa inflazione), causati da eccessive rivendicazioni salariali in alcuni di essi, sarebbero divenuti incompatibili con gli equilibri economici. Era una svolta di politica economica che aveva il manifesto, sfacciato e impudente fine di sterilizzare il conflitto di classe attraverso l’imposizione di un vincolo esterno alle economie nazionali. Anche una minore competitività legata a qualsivoglia altra ragione diversa dalle rivendicazioni salariali (ad esempio un nuovo shock petrolifero, che in effetti sarebbe sopravvenuto a breve), non avrebbe potuto essere scaricata sul conto dei possessori di capitali, finendo invece su quello del lavoro. L’obiettivo del pieno impiego veniva accantonato, e anzi un cronico livello di disoccupazione diventava lo strumento d’elezione per disciplinare le richieste di aumenti salariali. Un secondo tassello, che sarebbe stato aggiunto qualche anno più tardi con il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, consisteva nel sottrarre ai governi lo strumento della politica monetaria, cioè la possibilità di emettere moneta a tassi di interesse pari o inferiore all’inflazione, come pure di finanziare la spesa pubblica “stampando moneta”. Ne parleremo tra breve.

2 commenti:

  1. Mi associo al babbo (pure stavolta in una successione familiare non pianificata); aggiungendo che invidio alquanto i tuoi studenti, prof. Fraioli! Sarà che io, tra i banchi, non ho avuto nemmeno dei "cattivi maestri", ma solo dei maestri cattivi.

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