Il conflitto tra capitale e lavoro, e
la mandrakata del vincolo esterno
Il problema era costituito dal fatto che, nel conflitto
tra capitale e lavoro, quest’ultimo stava prendendo il sopravvento. Le
conquiste dell’autunno caldo, la scala mobile, un clima generale caratterizzato
da continue e crescenti rivendicazioni, tutto ciò suggeriva l’idea che gli
equilibri di classe della società italiana potessero essere scossi dalle
fondamenta. Era possibile che il
capitale accettasse l’idea che chi estraeva il suo reddito dal lavoro vedesse
il suo benessere crescere, mentre chi lo estraeva dal possesso di capitali vedesse
la sua ricchezza diminuire, quanto meno in termini relativi? La risposta è
dentro di voi, ed è quella giusta.
Le bombe e il terrorismo, che pure stavano svolgendo
l’importante funzione di contenere la fase culminante dell’avanzata del mondo
del lavoro, non potevano bastare; se non al prezzo di accettare le conseguenze
implicite in una soluzione basata sulla
sola forza militare: la costruzione di una società chiusa, fondata sul
principio della repressione. Serviva,
dunque, una strategia alternativa, tale da consentire un esito della lotta di
classe favorevole alle ragioni del capitale senza la necessità di una soluzione
autoritaria.
Il primo numero di "la Repubblica" |
La controffensiva fu di
natura culturale, prima ancora che politica. Nel 1976 Eugenio Scalfari fondò il quotidiano “La Repubblica”, destinato a svolgere un ruolo di fondamentale
importanza nella politica italiana. Scalfari introdusse un innovativo modello
di informazione politica che avrebbe, nei decenni successivi, contribuito in
modo determinante a generare una scorretta percezione degli interessi di classe
da parte dell'elettorato. Abbandonando lo stile conservatore degli altri
giornali controllati dal grande capitale, il quotidiano adottava un modo di
fare informazione giocato su due piani: da una parte si poneva su posizioni
laiche e libertarie in tema di diritti civili e di modernizzazione dei costumi,
dall'altra iniziava a propalare una visione dell'economia sottilmente
fuorviante, che avrebbe spalancato le porte, di lì a qualche anno,
all'ideologia liberista. Nei primi due anni di vita il quotidiano strizzò
l’occhio ai gruppi della sinistra extraparlamentare, accaparrandosi le simpatie
di una generazione di giovani che, sebbene contestasse “da sinistra” il PCI, era in effetti guidata da una élite di
estrazione medio borghese. In apparente contraddizione con questa linea, il
quotidiano appoggiò il “compromesso storico”,
cioè l’idea, assolutamente interclassista, che fosse necessario superare la
fase dello scontro di classe aspro, attraverso una conciliazione implicante il
reciproco riconoscimento tra le due forze maggiori, la DC e il PCI.
Rino Formica, Bettino Craxi e Fabrizio Cicchitto al 40° congresso del PSI nel 1976 |
Il PSI di
Craxi, eletto segretario nel 1976, si oppose a questa strategia, che tendeva a
marginalizzarlo, proponendosi come
campione delle forze sociali emergenti della piccola e media imprenditoria e
delle nuove professioni. Ne nacque uno scontro tra il PCI e il PSI che si sarebbe
prolungato ben oltre la fine della prima repubblica, sebbene sotto bandiere
diverse. La prospettiva di entrare nell’area delle forze politiche legittimate
ad esercitare il governo, in un’epoca in cui il confronto tra le due superpotenze (USA e URSS) restava acuto
nonostante alcuni segnali di distensione (l’avvio
della ostpolitik di Willy Brandt, l’attivismo di Henry Kissinger, il
riavvicinamento tra USA e Cina), determinò una corsa delle due maggiori
rappresentanze politiche degli interessi del mondo del lavoro a chi fosse più “affidabile”. Giocando abilmente sulla
rivalità tra il PCI e il PSI, Repubblica riuscì a portare a compimento una
missione che, appena qualche anno prima, sarebbe apparsa impossibile:
inoculare, nella mente degli italiani, una concezione interclassista del
conflitto sociale.
Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro aggiunsero
confusione a confusione. Aldo Moro era il campione, insieme a Berlinguer, del
compromesso storico, eppure fu il PSI a premere per la trattativa, mentre sia
la DC che il PCI scelsero la linea della fermezza, appoggiati dal quotidiano
Repubblica. L’idea era che “lo Stato non
può scendere a compromesso con il terrorismo”, e questo fu il dibattito che
venne dato in pasto agli italiani.
Sul piano geopolitico si era ad un tornante
fondamentale. Il processo di unificazione europea languiva, con gli stati
nazionali impegnati, ognuno per conto suo, nel fare i conti con le turbolenze
valutarie e gli aumenti del prezzo del petrolio. Ne approfittarono gli Stati
Uniti per rilanciare la loro strategia. Avviata la fase di distensione con
l’URSS (accordi di Vladivostock – autunno 1974) e usciti dalla trappola del
Vietnam (aprile 1975), gli americani avevano le mani libere per occuparsi dello
scenario medio orientale, che era diventato il loro quadrante strategico
fondamentale. Il loro timore era il
ritorno a politiche protezionistiche simili a quelle che l’Europa aveva
adottato negli anni ’50 e ’60 per difendere il suo settore agricolo. Occorreva
superare la crisi economica senza che il principio della libera circolazione
delle merci (non ancora dei capitali) fosse incrinato.
Il vertice di Rambouillet del 1975 |
Il vertice di
Rambouillet del 1975 (Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e
Giappone) poneva momentaneamente in secondo piano il processo di integrazione
europea, sia economica che politica, promuovendo una strategia trilaterale mirante a coordinare le politiche delle aree
industrializzate (USA, Europa e Giappone). La partecipazione dell’Italia (che
inizialmente era stata esclusa) rappresentata da Aldo Moro, fu infine accolta
perché il nostro Paese aveva, in quel momento, la Presidenza di turno della
Comunità Europea, e anche per volontà degli Stati Uniti, ben al corrente del
sostanziale disinteresse della DC dell’epoca, e in particolare proprio di Moro,
per un’accelerazione del processo di integrazione europea. Ciò nonostante, per
volontà della Francia e della Germania, il progetto non venne abbandonato. Le ragioni furono di natura sia politica che
economica. L’interesse politico era soprattutto dalla Francia, un paese che non
si rassegnava al ruolo subalterno assunto dopo la fine della guerra mondiale,
mentre la Germania coltivava un interesse soprattutto economico.
Lo stop and go dei governi Andreotti
III e IV
Il fatto è che, seppur tra mille difficoltà, grazie alle
politiche di spesa pubblica e alle ripetute svalutazioni della lira (dovute al fatto che l’inflazione italiana si
manteneva costantemente superiore a quella dei principali partners europei), l’economia italiana dava segni di straordinaria
vitalità. Ciò avveniva anche per una particolare e, all’epoca, favorevole
combinazione tra la svalutazione della lira sul marco e contemporanea
rivalutazione sul dollaro, che preservava la competitività delle merci italiane
riducendo il costo delle importazioni, soprattutto petrolifere, intermediate in
dollari. Inoltre si era venuta sviluppando un’area di lavoro nero che
contribuiva a mantenere basso il costo del lavoro per unità di prodotto.
Dopo le elezioni politiche del giugno 1976, che videro
il rafforzamento della DC (38,7%) e il mancato sorpasso del PCI (34,4%),
insieme con il ridimensionamento del PSI (9,6%), del PSDI (3,4%), e la quasi
scomparsa del PLI (1,7%), non era più praticabile la formula su cui si
reggevano i precedenti equilibri. La soluzione fu il governo della non sfiducia, ovvero un monocolore DC con l’appoggio
esterno dei suoi tradizionali alleati, che portasse avanti un programma
concordato ufficiosamente anche con il PCI.
L’inflazione, già alta, dava segnali di ulteriore
accelerazione, mentre il saldo della bilancia commerciale, dopo un buon avvio
nel primo trimestre del 1976, nel secondo aveva subito una preoccupante
flessione. Appena insediato il presidente del consiglio Giulio Andreotti, in
accordo con il PCI e con i sindacati, conquistati alla causa, inaugurava le
politiche dell’austerità, imponendo il blocco della scala mobile e l’abolizione
di sette giorni di festività, oltre a un sensibile aumento delle accise sui
prodotti energetici. Grazie a questi provvedimenti, nell’aprile del 1977 furono
ottenuti, dal FMI e dalla CEE, due prestiti di 500 miliardi l’uno, con
l’impegno di limitare il deficit di bilancio per il 1977 a 16500 miliardi, e a
14.550 per il 1978. Tuttavia queste promesse non vennero rispettate, perché l’esplosione
della contestazione costrinse il governo a tornare sui suoi passi. In
particolare, il deficit di 14500 miliardi concordato con il FMI per il 1978
risultò, a consuntivo, quasi doppio.
La conseguenza fu che, dopo una fase di rallentamento
della crescita nella prima parte del 1977 come conseguenza della politica di
austerità, la ripresa economica tornò grazie all’ottimo andamento delle
esportazioni e alla crescita tumultuosa delle presenze turistiche, incoraggiate
dalla lira debole. E infatti, come già
detto, l’inflazione calò del 30%, passando dal 18.11% del ’77 al 12.43% nel
’78! Tutto ciò creava problemi alla Germania, un paese la cui economia
dipendeva molto dalle esportazioni e soffriva per la concorrenza italiana.
La “svolta dell’EUR”
Luciano Lama - segretario della CGIL |
La politica di austerità, promossa da Andreotti a
partire dalla seconda parte del 1976, poggiava sull’accordo con il PCI che,
ansioso di entrare nell’area di governo, accettava di esercitare pressioni sul
maggiore dei sindacati, la CGIL, affinché non si opponesse. Per Cossiga, la
condizione per far entrare il Pci nell’area di governo era data “dalla capacità o meno di far accettare alla
classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica” (da
la Repubblica). Ancora su la Repubblica, il 24 gennaio 1978, comparve
un’intervista a Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”, nella quale dichiarava: “Ebbene, se vogliamo esser coerenti con
l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento
delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.
Il fatto è che la mobilitazione del 1977 restituì
slancio alla contrattazione salariale, cosicché, nonostante la linea di
moderazione accettata dai sindacati della triplice (svolta dell’Eur), ciascun
sindacato di categoria, pressato dalla base, avrebbe cercato un recupero
salariale. L’incapacità del PCI di tenere a freno le rivendicazioni salariali e
di contenere la contestazione alla sua sinistra resero manifesta, agli occhi
del capitale, la sterilità del tentativo di coinvolgerlo nell’area di governo.
Inoltre il partito perdeva consenso, con il rischio che, alla sua sinistra, si
consolidassero formazioni di opposizione più radicali.
La crisi della solidarietà nazionale
Qualche giorno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14
maggio 1978, si tennero le elezioni amministrative parziali, che diedero un
responso di fondamentale importanza: al forte recupero della DC, che passava
dalle dal 38.7% delle politiche del ’76 al 42.5%, fece riscontro un clamoroso
crollo del PCI, che precipitò dal 34.4% al 26.5%. Il PSI del nuovo segretario
Bettino Craxi recuperava, passando dal 9.6% al 13.5%. Il risultato, unitamente
alla scomparsa di Aldo Moro, restituiva spazio alle correnti della DC ostili
alla politica di avvicinamento al PCI e segnava la fine della cosiddetta “solidarietà nazionale”, a favore di un rinnovato
rapporto con il Partito Socialista di Craxi.
Il primo segnale del nuovo corso si sarebbe avuto alla fine
dell’anno, quando giunse in discussione alla Camera l’entrata dell’Italia dello
SME. Si trattava di ripartire dal fallimento del serpente monetario, per
tentare di costruire un sistema monetario europeo totalmente diverso da quello
che aveva governato l’economia mondiale dal 1944 (conferenza di Bretton Woods)
al 1971, quando Nixon aveva abolito la convertibilità del dollaro con l’oro. Al
serpente monetario, nei dieci anni successivi, sarebbero stati aggiunti gli
elementi di cui questo mancava. Non solo un accordo sui cambi nominali, sì da limitare
la libera fluttuazione dei cambi (Repubblica parlava, capziosamente nonché falsamente, “svalutazioni competitive”), ma anche, immediatamente dopo, una
nuova disciplina nell’emissione dei titoli di stato e, infine, l’apertura alla
libera circolazione dei capitali.
Il sistema di Bretton Woods, sebbene consentisse la
circolazione dei capitali, lasciava tuttavia ai paesi il potere di controllarne
i flussi attraverso provvedimenti di carattere amministrativo, ad esempio
imponendo che, almeno in parte, gli utili prodotti da un investimento estero
fossero obbligatoriamente reinvestiti nel paese. Allo stesso tempo, ogni stato
poteva controllare i suoi tassi di interesse, pur lasciando le monete
sostanzialmente ancorate al dollaro, e quest’ultimo all’oro. Durante il periodo
di applicazione degli accordi di Bretton Woods non furono infrequenti i
riallineamenti monetari (svalutazioni e rivalutazioni), senza contare il fatto
che gli Stati Uniti intervennero spesso in soccorso dei paesi europei in
difficoltà con prestiti a bassissimo interesse. L’obbiettivo dichiarato del
sistema di Bretton Woods era il raggiungimento della piena occupazione negli
stati aderenti, intento che fu in effetti raggiunto. In Italia, ad esempio, per
tutti gli anni ’60 la disoccupazione si mantenne al di sotto del 4%.
Ben diversi erano gli obbiettivi, esplicitamente
dichiarati, che gli stati europei, soprattutto Francia e Germania, vollero
perseguire con l’introduzione dello SME: la creazione di un Mercato Unico con libera circolazione dei
capitali, all’interno del quale fosse stabilito un tasso di cambio nominale fisso tra le monete. In tal modo, aumenti
differenziati dei prezzi tra i paesi (diversa inflazione), causati da eccessive
rivendicazioni salariali in alcuni di essi, sarebbero divenuti incompatibili con gli equilibri economici.
Era una svolta di politica economica che aveva il manifesto, sfacciato e
impudente fine di sterilizzare il conflitto di classe attraverso l’imposizione
di un vincolo esterno alle economie
nazionali. Anche una minore competitività legata a qualsivoglia altra ragione diversa
dalle rivendicazioni salariali (ad
esempio un nuovo shock petrolifero, che in effetti sarebbe sopravvenuto a breve),
non avrebbe potuto essere scaricata sul conto dei possessori di capitali,
finendo invece su quello del lavoro. L’obiettivo del pieno impiego veniva
accantonato, e anzi un cronico livello di disoccupazione diventava lo strumento
d’elezione per disciplinare le richieste
di aumenti salariali. Un secondo tassello, che sarebbe stato aggiunto
qualche anno più tardi con il “divorzio”
tra Tesoro e Banca d’Italia, consisteva nel sottrarre ai governi lo strumento
della politica monetaria, cioè la possibilità di emettere moneta a tassi di
interesse pari o inferiore all’inflazione, come pure di finanziare la spesa
pubblica “stampando moneta”. Ne
parleremo tra breve.
Posso solo dire: bravo e grazie.
RispondiEliminaMi associo al babbo (pure stavolta in una successione familiare non pianificata); aggiungendo che invidio alquanto i tuoi studenti, prof. Fraioli! Sarà che io, tra i banchi, non ho avuto nemmeno dei "cattivi maestri", ma solo dei maestri cattivi.
RispondiElimina