domenica 28 settembre 2014

Verrà il job's-act e avrà i suoi occhi

Definizione: Il NAIRU (Not Accelerating Inflation Rate of Unemployment) è, grosso modo, il tasso di disoccupazione che non provoca un aumento dell'inflazione.

Per essere più precisi: il valore del NAIRU di un sistema economico è calcolato in riferimento al PIL potenziale, ovvero quel livello di PIL ottenibile in presenza di un livello di disoccupazione tale da non provocare un aumento dell'inflazione. Per l'Italia l'OCSE stima oggi un valore vicino al 10%. Questo significa che, se pure il nostro paese sfruttasse in pieno il suo attuale potenziale economico, la disoccupazione dovrebbe restare maggiore del 10%, pena un aumento dell'inflazione.

Inflazione e disoccupazione


Vi è una correlazione stretta, e intuitivamente comprensibile a chiunque, tra il tasso di disoccupazione e l'inflazione:

  • Quando il tasso di disoccupazione è troppo basso i lavoratori possono facilmente chiedere aumenti salariali. Ciò provoca un aumento della velocità di crescita dei prezzi, e quindi dell'inflazione.
  • Quando il tasso di disoccupazione è troppo alto i lavoratori non possono chiedere aumenti salariali, e anzi sono costretti ad accettare paghe più basse pur di lavorare. Ciò provoca una diminuzione della velocità di crescita dei prezzi, e quindi dell'inflazione.
Si badi bene: ho usato (ed evidenziato nel testo) le locuzioni "aumento/diminuzione della velocità di crescita dei prezzi". Tali locuzioni devono essere ben comprese. L'inflazione, infatti, rappresenta la velocità con cui variano i prezzi. Dire che l'inflazione è del 2% l'anno significa dire che il livello medio dei prezzi aumenta del 2% in un anno. L'inflazione, dunque, è una velocità: variazione di qualcosa (i prezzi) diviso il tempo. A sua volta, una variazione di velocità è un'accelerazione, e il NAIRU misura il tasso di disoccupazione che non produce un'accelerazione dell'inflazione.

Normalmente un certo livello di inflazione è ritenuto indispensabile per il buon funzionamento di un sistema economico. La determinazione di tale livello, per così dire "ottimale", è spesso oggetto di lotta politica poiché per alcuni "interessi" conviene che sia più alto, per altri più basso. In questo articolo non ci occuperemo di ciò, focalizzando invece la nostra attenzione su un altro aspetto del problema, altrettanto importante.


L'inflazione nell'eurozona


Quando paesi diversi adottano una moneta unica in assenza di meccanismi fiscali di aggiustamento, cioè trasferimenti fiscali dai paesi in surplus ai paesi in deficit (che nella zona euro mancano del tutto), è necessario, per evitare squilibri, che in essi l'inflazione sia molto simile, e sostanzialmente identica nel medio periodo. I tassi di inflazione, cioè, devono "convergere" verso un livello comune.

Come ci ha spiegato molto bene l'innominabile cavajere dal suo blog, e come è stato poi riconosciuto dalle maggiori istituzioni economiche mondiali (dal FMI alla stessa BCE), dall'introduzione dell'euro si è assistito al permanere di differenziali di inflazione tra i paesi dell'eurozona. Si veda, ad esempio, questo eloquente grafico interattivo del FMI. che mostra i tassi di inflazione della Germania e dei paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna, Grecia).


Zoomando sul grafico si nota un particolare: la Germania, che fino allo scoppio della crisi era il paese con inflazione più bassa, è oggi quello con l'inflazione più alta, sebbene con un misero 1,4%. Tutti gli altri hanno un tasso di inflazione inferiore e, nel caso della Grecia, addirittura negativo (-0,4%).

Come detto i differenziali di inflazione, in assenza di aggiustamenti fiscali, innescano squilibri. In una prima fase, dal 1999 al 2008, essi hanno avuto un verso opposto a quello instauratosi dopo il 2008 per effetto delle politiche di austerità. Tuttavia, per correggere più rapidamente gli squilibri accumulatisi nella prima fase della vita dell'euro, sarebbe opportuno che la Germania aumentasse la sua inflazione ben oltre il misero 1,4% attuale, che è addirittura inferiore al tasso di inflazione previsto dal trattato di Maastricht!

Gli altri paesi, i PIIGS, dovrebbero ovviamente e contestualmente mantenere i loro bassi tassi di inflazione. Quello che è importante, sic stantibus rebus nell'eurozona, è infatti il differenziale di inflazione tra i paesi che hanno accumulato surplus e quelli che hanno accumulato deficit, non il livello assoluto. Ed è qui che entra in gioco il NAIRU.

La Germania, infatti, è disposta ad aumentare di qualche decimale il suo tasso di inflazione (sempre nel limite del 2%), attraverso la concessione di modesti aumenti salariali, solo e soltanto a condizione che i paesi che hanno accumulato deficit mantengano gli attuali bassi livelli di inflazione. Anche l'implementazione del piano Junker, che contempla modesti investimenti per la crescita (300 mld spalmati nell'arco di dieci anni suddivisi tra i paesi dell'eurozona), è subordinata alla richiesta che i paesi che hanno accumulato deficit non aumentino la loro inflazione. Ovvero che mantengano il loro tasso di disoccupazione ad un livello tale da non farla crescere. Come? Flessibilizzando il mercato del lavoro così da far scendere i salari, condizione necessaria affinché la disoccupazione possa diminuire. Il NAIRU, appunto!

Il job's act


Il grafico a lato (tratto da questo articolo) mostra il NAIRU e il tasso di disoccupazione effettivo per l'Italia e altri paesi. Nel caso dell'Italia, il gap tra la curva del NAIRU (in rosso) che si attesta da qualche anno al 10%, e la disoccupazione effettiva (blu scuro), è un indizio chiaro della caduta del nostro PIL al di sotto del suo livello potenziale. Il problema è che il nostro NAIRU è ormai troppo alto: se pure recuperassimo in parte il gap produttivo causato dalla crisi, e la disoccupazione cominciasse a scendere, non appena questa si avvicinasse al 10% ripartirebbe l'inflazione!

Al contrario la Germania ha un tasso di disoccupazione inferiore al suo NAIRU. Ciò significa che, sebbene la Germania produca un PIL superiore a quello potenziale, il suo mercato del lavoro non manifesta tensioni: i crucchi sono contenti di lavorare per meno di quanto potrebbero pretendere!

In definitiva, la questione delle tutele dei diritti dei lavoratori è cruciale. Il modello al quale siamo obbligati ad uniformarci, stanti gli attuali rapporti di forza, è quello tedesco. Ne segue che battersi contro il job's act significa opporsi all'Unione Europea, o quanto meno all'interpretazione teutonica di questa Europa. Questa è dunque una battaglia che può unire sia coloro che sono contrari tout-court all'Unione Europea e all'euro, sia coloro che sognano «un'altra Europa».

Ci sono due ulteriori riflessioni che è opportuno fare. Se osserviamo i grafici notiamo il più basso livello del NAIRU sia dei paesi anglosassoni che della Germania rispetto alla Francia e all'Italia. Notevole è anche il fatto che la Germania, nel 2005, avesse un valore simile a quello della Francia e dell'Italia, e che in seguito questo sia diminuito nettamente.

Relativamente alla prima osservazione, a mio parere ciò è in parte un indice della diversa struttura sociale dei paesi latini, nei quali le protezioni assicurate dal nucleo familiare assegnano ai lavoratori un maggior potere contrattuale, ovvero una maggiore capacità di resistere ai ricatti del mercato. Per la seconda, basta ricordare le famigerate riforme Hartz IV, che hanno avuto l'effetto di abbattere il salario reale dei lavoratori tedeschi del 10% in pochi anni.

Il caso particolare dell'Italia


Il grafico che riguarda l'Italia mostra un'anomalia. A partire dal 2008 il nostro NAIRU si impenna, passando rapidamente dall'8% al 10%. Ciò significa che che il mercato del lavoro italiano è diventato più rigido proprio con l'esplodere della crisi? La risposta sta nella definizione stessa di NAIRU: questo è il tasso di disoccupazione che non provoca un aumento dell'inflazione quando l'economia "gira" al massimo del suo potenziale produttivo. Ebbene, il nostro potenziale produttivo è drasticamente diminuito in conseguenza della crisi, ragion per cui l'anomalia in questione segnala non già un aumento delle rigidità del mercato del lavoro, quanto il fatto che la crisi ha colpito una struttura economica di per sé fragile per la cronica assenza di una seria politica industriale. In definitiva una responsabilità delle classi dirigenti, non dei lavoratori, sui quali però si intende scaricare i costi della crisi.

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