Svalutazione, inflazione e lotta di
classe
Facciamo ora un esempio di quello che accadeva
normalmente prima dello SME. Supponiamo che in un paese, ad esempio l’Italia,
in seguito ad agitazioni sindacali il costo del lavoro aumentasse. Di
conseguenza il saldo commerciale sarebbe peggiorato, ovvero sarebbero aumentate
le importazioni (quando la gente ha soldi
compra di più, anche dall’estero) e sarebbero diminuite le esportazioni (perché i prezzi dei prodotti italiani
sarebbero aumentati). Molto rapidamente, tuttavia, la moneta si sarebbe
svalutata, sia per effetto dell’eccesso di offerta di lire sui mercati
valutari, necessarie per reperire le
valute straniere che servivano all’acquisto di beni esteri, sia per la
diminuzione della richiesta di lire necessarie per l’acquisto di prodotti
italiani da parte dei compratori esteri. Senza l’obbligo di mantenere il valore
nominale della moneta ancorato a quello degli altri paesi europei, il
riallineamento del valore della moneta (svalutazione della lira) avrebbe
compensato, agli occhi dei compratori esteri, l’aumento dei prezzi interni. Il
risultato sarebbe stato un aumento della quota di reddito a favore del lavoro,
e una perdita per il capitale. Quest’ultimo avrebbe pagato un duplice prezzo:
oltre a subire le richieste di aumenti salariali, si sarebbe ritrovato tra le
mani una moneta che manifestava una tendenza alla svalutazione tanto più
pronunciata quanto più basso fosse stato il livello di disoccupazione.
Questo perché, quando la disoccupazione è bassa, è più facile per i lavoratori
ottenere aumenti. Inoltre, questo è un punto importantissimo, essendo in vigore rigide restrizioni alla
circolazione dei capitali, sia in uscita che in ingresso, questi non potevano
andare in cerca di migliori opportunità di guadagno, ma erano costretti a
trovarle sul mercato domestico. Quando il meccanismo testé descritto rischiava
di eccedere i limiti, il governo poteva intervenire alzando i tassi di
interesse sui prestiti bancari (tirava la
corda). Questo intervento “raffreddava”
l’economia creando un po’ di disoccupazione, e riequilibrava il conflitto
distributivo. Un ulteriore strumento a disposizione del governo era la spesa
pubblica. Grazie al fatto che la banca d’Italia poteva intercettare, pagando
tassi di interesse molto bassi (quando
non negativi) una parte rilevante del risparmio degli italiani, il governo
disponeva delle risorse necessarie per vasti programmi di opere
infrastrutturali, che avevano il duplice effetto di sostenere l’economia e di
realizzare opere importanti sia per il benessere collettivo che per lo stesso
sistema produttivo. Si pensi, per fare qualche esempio, alla realizzazione
dell’estesa rete autostradale, poi privatizzata, o alla nazionalizzazione
dell’industria elettrica e delle telecomunicazioni, anch’esse oggi
privatizzate!
Tutto ciò, sebbene il paese crescesse, non
rappresentava una situazione ideale per i possessori di capitali. Tuttavia
l’equilibrio aveva retto a lungo, sia perché l’economia cresceva a ritmi molto
sostenuti, sia perché il dollaro, prima della decisione di Nixon, forniva uno
strumento di tesaurizzazione abbastanza affidabile. La fine della convertibilità del dollaro con
l’oro, e ancor di più i due shock petroliferi, ebbero l’effetto di spostare
l’equilibrio di classe eccessivamente, e troppo rapidamente, in favore del
lavoro. Non solo era venuta a mancare la funzione tesaurizzatrice svolta dal
dollaro, fino a quel momento moneta sicura per eccellenza, ma gran parte del
costo dell’aggiustamento necessario a fronteggiare gli aumenti del prezzo del
petrolio si stava scaricando sugli utili del capitale. L’inflazione, come abbiamo
già ricordato, salì alle stelle, mentre, per sostenere l’economia, i governi
aumentavano la spesa offrendo una messe di titoli di stato che gli italiani si
affrettarono a sottoscrivere.
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