martedì 12 marzo 2019

Sovranità popolare e sovranità nazionale

La cricca
Una collettività, ancor più se tale collettività assurge al rango di popolo, se vuole essere sovrana deve risolvere un'equazione politica con almeno due variabili. Deve cioè affrontare e risolvere l'equazione della sovranità interna e della sovranità esterna. La prima attiene al problema di come si costituisce il potere all'interno della collettività, il secondo a quello di esercitare la forza che ne deriva nei confronti di altre collettività organizzate esterne alla nazione: la politica e la geopolitica.

I due problemi, pur essendo strettamente connessi, si pongono tuttavia su piani diversi. Sono connessi perché, se non vi è sovranità nazionale, ovvero un grado minimo di indipendenza rispetto ad altre collettività organizzate esterne alla nazione, la questione della sovranità interna non si pone neppure, essendo chiaro che in mancanza di una sufficiente capacità di auto determinazione la collettività è ridotta allo stato di colonia. Parrebbe dunque che la sovranità esterna, che chiameremo tout-court sovranità nazionale, sia preminente rispetto alla sovranità interna. Questo è vero con molti limiti, poiché una sovranità nazionale ottenuta senza risolvere l'equazione per la parte che riguarda la sovranità interna costituisce una soluzione necessariamente non democratica. In effetti un gruppo sociale, sufficientemente organizzato e forte, può conquistare il potere all'interno della nazione, ed esercitarlo verso l'esterno con successo, ma ciò comporta, oltre alla già accennata perdita di democrazia, un effetto castrante rispetto al pieno sviluppo delle energie della collettività. Queste, infatti, possono dispiegarsi al massimo della loro efficacia solo grazie al contributo attivo, e fondato sulla condivisione di un interesse comune, di tutti i gruppi sociali. La forza delle vere democrazie discende da ciò.

I sovranisti costituzionali, la corrente politica alla quale appartengo, si pongono da sempre il problema di risolvere l'equazione della sovranità sul piano interno, ritenendo che ai fini della libertà e della democrazia sostanziale questo aspetto sia non meno fondamentale della sola sovranità nazionale. Da ciò discende un atteggiamento dei sovranisti costituzionali, nei confronti dei nazionalisti, che corre su uno stretto sentiero. Noi non disdegniamo la sovranità nazionale, o interesse nazionale come viene prudentemente chiamato, ma siamo assolutamente convinti che, nelle attuali circostanze, tale difesa dell'interesse nazionale sia fondata su presupposti deboli, perché non vi è garanzia che il gruppo sociale che oggi si erge a sua difesa non possa facilmente barattarlo in cambio di privilegi per sé stesso. Ed è per questo che la categoria del tradimento sta acquistando, nel nostro mondo, un'importanza particolare.

Per noi sovranisti costituzionali la sovranità interna significa sovranità popolare, che non equivale semplicisticamente e solo alla sovranità della maggioranza così come emerge dalle consultazioni elettorali, e nemmeno alla circostanza per cui le elezioni si svolgano in condizioni di parità comunicativa, come pure non è. La vera sovranità popolare emerge come conseguenza di un patto fra corpi sociali diversi che, nella loro interezza, rappresentino la stragrande maggioranza (meglio, sebbene impossibile, la totalità), ognuno dei quali abbia la forza di imporre la propria partecipazione alle decisioni politiche fondamentali, interne ed esterne . Questo concetto non deve essere confuso con l'interclassismo, dottrina politica e sociale fondata sulla convivenza e la collaborazione delle diverse classi sociali, che è una visione irenica e falsa della realtà concreta. Tanto è vero che ho usato, intenzionalmente, il verbo "imporre": solo quei gruppi sociali che hanno la forza di "imporre" la propria partecipazione, in condizioni di parità, alla conduzione della cosa pubblica, possono godere della democrazia. Questa, come ho avuto modo di esprimere in occasione dell'invito a un incontro dell'amico Ippolito Grimaldi, è sempre  e solo inevitabilmente un patto fra pari.

Questo patti fra pari, inteso fra corpi sociali organizzati con interessi diversi, in Italia non è oggi possibile perché vi è un solo gruppo sociale organizzato che egemonizza la vita politica: la cricca alto-borghese che fu sostenitrice e complice dell'avventura fascista, nonché responsabile della fine della prima repubblica. E, nel ventennio precedente, di un attacco forsennato e criminale agli equilibri politici sanciti dalla Costituzione del 1948, condotto a suon di bombe, terrorismo, servizi segreti deviati e manipolazione crescente grazie al monopolio dell'industria della comunicazione e culturale. Se oggi in Italia non vi è guerra civile è perché questa cricca, che è ideologicamente liberale e concretamente dedita alla difesa i suoi interessi finanziari e industriali, ha annichilito tutte le forze sociali che le si possono opporre.

Questa cricca oggi straparla di interesse nazionale, il quale nelle condizioni date non può che coincidere con l'interesse di detta cricca. Nel far ciò si avvale anche dell'apporto di alcuni di coloro che, in tempi recenti, avevano dato l'impressione di possedere uno spirito ribelle ma, davanti all'immensità di un compito che travalica l'esistenza umana, ovvero ristabilire la vera e sostanziale democrazia nella nostra Patria, e cioè la sovranità popolare, per debolezza spirituale hanno fatto scelte sbagliate.

Siamo ad un passaggio cruciale della storia, non solo del nostro paese. La democrazia borghese, fondata sull'idea di partecipazione, intesa però e sempre più come valore nominale e formalisticamente sottoposto a riti svuotati di sostanza  (ne sono una dimostrazione lampante le leggi elettorali sempre più improntate al criterio di governabilità, e quindi infarcite di ostacoli di ogni sorta concepiti per sterilizzare la partecipazione dal basso) non è più garanzia di partecipazione vera di interessi concreti diversi e tuttavia cointeressati alla ricerca di una sintesi. Questo modello di democrazia, ormai degenerato a competizione solo demagogica ma privo di contenuti ideologici, i quali sono necessariamente di classe, si è trasformato in una dittatura delle opinioni manipolate. Oltre al danno c'è la beffa, per cui ogni opinione dissenziente viene bollata dagli altoparlanti più potenti (cit.) come fake-news. Il punto essenziale da capire, sintomo eclatante della morte della democrazia, è l'abbandono del dialogo razionale, sostituito in pieno dalla demagogia basata sulla sapiente manipolazione delle emozioni, oltre che dei fatti.

La rivolta contro questo inaccettabile stato delle cose, incompatibile con la lunga tradizione culturale della grande civiltà greco-romana, e anzi suo cancro divorante, non potrà consistere solo nel tentativo di far leva su una "sollevazione" degli interessi economici dei gruppi sociali perdenti ed esclusi, ma dovrà avere un carattere più profondo. Essa dovrà costituirsi prima di tutto come pretesa, senza la minima ipotesi di cedimento o compromesso, di riconquistare lo spazio del logos, cioè la preminenza della verità logica e dei fatti sulla propaganda sofistica della cricca liberale. Questa riconquista è la precondizione essenziale affinché la storia della civiltà possa continuare ad evolversi lungo il sentiero della democrazia, volgendo le spalle all'orizzonte distopico verso il quale stiamo correndo a precipizio. Per questa ragione chiunque volga le spalle a questo compito, per miserrimi interessi personali o per auto assolutoria interpretazione delle contingenze, deve oggi essere condannato all'ostracismo. Anche le guerre di civiltà esigono la loro razione di vittime, più o meno colpevoli.

1 commento:

  1. Quelli che fatico a collocare, se esistessero, sono i liberali democratici, quindi popolari e sovranisti nazionali; nemici ma alleati contingenti.

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