venerdì 22 marzo 2019

Rapporti tra dominanti e dominati, e rapporti tra pari

Devo dirvi la verità: non sono molto interessato al destino dei dominati, salvo quando lottano per non esserlo più. Vi dirò di più: chi non si rassegna mai al fatto di essere dominato è sempre, anche quando è sconfitto e in catene, o davanti a un plotone d'esecuzione, alla pari con i vincitori del momento. Questo è vero soprattutto, e forse esclusivamente, nei rapporti fra gruppi comunque organizzati, siano essi nazioni, regni, gruppi industriali, associazioni di categoria o altro, perché in questo genere di relazioni viene a mancare l'elemento umano che invece caratterizza l'interazione tra singoli individui, a maggior ragione se integrati all'interno di un gruppo. Penso, in definitiva, che tutte le relazioni tra gruppi comunque organizzati siano, oltre che conflittuali, permeate dalla violenza, e che esse possano risolversi in due soli modi: o il rapporto diventa quello tra dominanti e dominati, oppure è un rapporto fra pari.

Il fatto che tra due gruppi esista un rapporto tra pari non implica necessariamente che essi siano di pari forza, perché ogni conflitto ha un costo che deve essere confrontato con i benefici derivanti dalla possibilità di ottenere l'asservimento, nonché coi rischi possibili. La Storia ci insegna che i rapporti alla pari, tra Stati pure di forza diseguale, non sono un'eccezione. Anzi, essi sono la normalità.

L'asservimento è possibile, e relativamente facile da ottenere, quando vi è una grande sproporzione di forze. Quando invece esiste un equilibrio di forze allora gli esiti possibili, al netto della vittoria di una delle parti, sono sostanzialmente due: o si assiste a una lunga frizione, alternata da periodi più pacifici, che durano fino a quando il continuo mutare delle cose del mondo cambia totalmente lo scenario (è il caso del confronto tra l'impero romano e i parti) oppure la parte vittoriosa si spinge fino ad annichilire totalmente quella sconfitta, facendola scomparire dalla Storia (Roma e Cartagine).

In ogni caso quello che dovrebbe essere chiaro, e purtroppo non lo è, è che lo stato di guerra è la condizione naturale dei rapporti tra gruppi organizzati, in particolare tra nazioni. Quando la guerra giunge al suo epilogo definitivo, quando cioè una delle due nazioni risulta totalmente sconfitta, essa scompare dalla Storia diventando una colonia della nazione vincitrice. Quando, invece, l'esito del conflitto non è definitivo, il che accade nella maggioranza dei casi, la nazione vincitrice guadagna una quota di egemonia a scapito dell'altra, ma il rapporto tra di esse rimane tra pari, sia pure con un parziale aggiustamento dei rapporti di forza.

I grandi imperi si costruiscono distruggendo le nazioni sconfitte; talvolta riducendole a colonie che, successivamente, diventeranno province dell'impero.

Se guardiamo alla Storia europea degli ultimi mille anni, salta subito agli occhi un fatto di grande importanza. Nella maggioranza dei casi non si assiste all'occupazione permanente della o delle nazioni sconfitte, al massimo alla cessione di territori di confine o di pezzi dell'impero coloniale. Oppure, in epoche meno recenti, alla rinuncia di una casa regnante alle pretese di successione su una qualche corona.

Con due eccezioni: l'Italia e la Germania. Entrambe queste nazioni, che in passato erano pur state il centro di due grandi imperi, quello romano e il sacro romano impero, sono state sbriciolate nel confronto con e tra le grandi potenze europee, Spagna, Francia, Inghilterra, e i loro territori sono stati frammentati politicamente quando non occupati militarmente. Se esse non sono diventate province di un impero è solo perché il confronto tra le potenze dominanti europee non è mai giunto al suo epilogo definitivo, per cui i loro rapporti reciproci, anche all'esito di conflitti in cui emergeva un vincitore, sono sempre rimasti rapporti tra pari, la qual cosa non ha consentito la nascita di un impero.

Eppure oggi la Germania, a dispetto di due clamorose sconfitte militari dopo l'ultima delle quali è stata occupata militarmente e divisa, è la potenza dominante in Europa, mentre l'Italia sembra sul punto di scomparire come nazione. Sappiamo come ciò sia avvenuto, attraverso quali avvenimenti storici, ma dobbiamo ancora chiederci perché. Questa è una domanda alla quale è stata data, sicuramente a livello di cultura di massa in Italia, una risposta che mi appare ampiamente insufficiente, e che suona pressappoco così: l'Italia è una nazione povera, priva di materie prime che deve importare, e questo ha fatto sì che essa fosse strutturalmente debole; al contrario la Germania, ricca di materie prime in particolare il carbone, su questa base si è rapidamente risollevata giungendo a imporre di nuovo la sua forza in Europa.

Non so voi, ma a me questa spiegazione suonava falsa già dai tempi delle elementari. E quando dico falsa, intendo dire alla Fantozzi:



Vi offro allora la mia spiegazione. Ci sono stati due uomini, Camillo Benso di Cavour e Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen, due grandi statisti, ai quali l'Italia e la Germania devono molto, ma che furono trattati in modo completamente diverso dalle rispettive classi dirigenti. Il primo morì in età relativamente giovane e al culmine del successo della sua politica, quasi certamente avvelenato, il secondo conservò il potere fino al 1890, certamente contrastato politicamente dagli Hohenzollern e dal parlamento, ma non fatto fuori. Non è una differenza da poco. Il filmato embedded inizia al minuto 28'56'', quando si comincia a parlare di Cavour, ma merita di essere visto dall'inizio.



Dunque la morte di Cavour, meglio il suo assassinio, sembra emergere come risultante di interessi della grande finanza inglese dominata dalla famiglia Rothchild e il tradimento di forze interne alla corte piemontese. Il tradimento, una costante della nostra storia nazionale fin dall'unità. Ma Cavour è solo l'inizio, perché è tutta la nostra storia nazionale ad essere intrisa del veleno del tradimento, perpetrato da una parte delle classi dirigenti in intesa con potentati finanziari internazionali.

Ma se è così, allora tutta la travagliata storia della nazione italiana dall'unità ad oggi può avere spiegazioni diverse che non la debolezza strutturale del paese a causa della mancanza di materie prime! Tanto è vero che quando, per una quasi miracolosa combinazione di eventi, abbiamo avuto una classe dirigente degna di questo nome, mi riferisco al trentennio tra la fine dell'ultima guerra e il colpo di stato di tangentopoli, questa nostra italietta si era ben risollevata, arrivando ad essere la quinta economia del mondo, come pure a svolgere un ruolo politico da media potenza regionale che giunse fino al punto di sfidare gli Stati Uniti in occasione della vicenda dell'Achille Lauro.

Ben diversa la storia della Germania, ben altro lo spirito nazionale di questo paese, ovvero la sostanziale compattezza della sua classe dirigente, addirittura eccessiva fino a livelli patologici essendosi spinta fino al punto di intraprendere un confronto con la potenza angloamericana chiaramente superiore. Un azzardo folle e dagli esiti criminali che però non deve nascondere un dato essenziale: non sono le materie prime e le condizioni geografiche, o almeno non solo esse, a decidere del destino di una collettività nazionale, ma soprattutto la qualità, la determinazione, unitamente all'equilibrio e al senso del limite delle sue classi dirigenti. La fragilità dell'Italia come nazione deriva soprattutto da ciò: non abbiamo più una classe dirigente degna di questo nome perché quella che abbiamo avuto per quasi tutta la nostra storia, ad eccezione di quella della prima repubblica sostenuta dalla partecipazione al potere del popolo organizzato nei grandi partiti di massa, dal colpo di stato di tangentopoli è tornata a trarre origine dagli ambienti della borghesia finanziaria, e da ciò che resta delle classi nobiliari che per secoli hanno dominato la penisola piegandosi agli eserciti stranieri. Questa classe dirigente ha occupato lo Stato dall'unità d'Italia, era stata messa ai margini nella prima repubblica, ed è tornata ad occuparlo dopo tangentopoli.

Questa classe dirigente, compradora e cosmopolita quanto intimamente servile, possiede tuttavia un'abilità diabolica nel dissimularsi, e riesce a conciliare con raffinata abilità l'equilibrio tra i suoi interessi di classe e la necessità di piegarsi alla forza dello straniero scaricando il costo di questo compromesso sull'intera nazione. Le sue armi sono, da sempre, il tradimento, l'uso dei servizi segreti deviati, il terrorismo, gli accordi con la malavita, la capacità di infiltrarsi nei movimenti popolari con la corruzione e la minaccia, quando è necessario con l'assassinio, deviandoli per porli al suo servizio.

Questa classe dirigente, in conclusione, ha ampiamente dimostrato di non essere degna di guidare la nazione, e deve essere messa da parte. Non è un compito facile perché, al fine di consolidare la sua presa sulla nazione, questa spregevole classe dirigente compradora e cosmopolita non si è fatta scrupolo di minare alle sue basi financo la struttura morale e mentale del popolo italiano, attraverso una costante e pervasiva azione mediatico-culturale che ha sovvertito, nel breve volgere di tre decenni, il senso comune, i valori e la percezione di sé stessi degli italiani. Per far ciò ha infiltrato, e corrotto, i partiti della prima repubblica, come fa ancora oggi con la complicità di stati esteri i quali, sebbene non siano certo guidati da forze popolari, tuttavia sono dominanti, mentre l'Italia è ridotta al rango di espressione geografica.

Vi sottopongo una delle tante pistole fumanti che solo chi è definitivamente accecato può non comprendere al volo. E' uno stralcio di un'intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer. Correva l'anno 1979.

 

Serve aggiungere altro? E adesso andate a guardarvi carta bianca, la trasmissione della figlia...

6 commenti:

  1. Caro prof., la seguo da anni. Mi ha insegnato tantissimo. Nella mia vita ho avuto solo 2 maestri: Paolo Barnard e Lei, voi due non vi siete venduti, entrambi acutissimi, coraggiosi e dalla immensa statura morale. Gli altri si sono rivelati opportunisti e traditori (Barnard lo aveva predetto, aveva ragione.....), e anche Lei ha fatto capire cosa pensa .... (lo penso anch'io). Mi sarebbe piaciuto averla come insegnante a scuola, peccato, se potessi nascere ancora.... sceglierei di essere suo allievo. Anch'io sono uno di quelli che va a fondo nelle cose, che non si ferma in superficie. Questo post mi ha fatto piangere, sia per la perfetta descrizione della triste realtà sia perchè i BUONI come noi PERDERANNO SEMPRE. Depongo una lacrima al suo cospetto.
    Un grazie sincero. Non la dimenticherò mai.

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  2. Ciao Fiorenzo ti faccio i miei più vivi complimenti per questo tuo illuminante articolo, purtroppo la storia di questo nostro Paese è intessuta di tradimenti da parte della nostra classe dirigente, sempre prona agli interessi stranieri. Quando parlo di classe dirigente, intendo le forze politiche, le forze economiche/finanziarie, le forze intellettuali, l'accademia, l'alta burocrazia civile e militare, le forze sindacali. Penso, che mai come in questo momento, la quasi totalità della classe dirigente, non solo sia asservita a interessi di centrali estere in cambio di privilegi da estendere ai propri discendenti, esternalizzando i costi verso i dominati, ma sia tesa alla totale liquidazione del nostro Paese come Stato sovrano per favorire il nazionalismo di paesi denominati "amici". Gli avvenimenti di questi ultimi giorni, dalle bandiere europee esposte dai sindacati e dal pd, al giustificazionismo per una tentata strage di 51 bambini da parte di un senegalese con cittadinanza Italiana, stiano diventando qualcosa di più di un indizio. Secondo la mia modesta opinione, di uomo della strada, di quelli così di passaggio che neppure li vedi, mentre quelli che restano si distinguono per i loro tradimenti, è diventata palese questa nuova stagione, quella che definirei la strategia del Caos totale, intenta a togliere qualsiasi riferimento culturale e sociale, dove non sai più distinguere l'amico dal nemico. Temo che ci troviamo nel punto più basso dal secondo dopoguerra, da questa situazione può uscire di tutto.
    Concludo questo mio intervento invitando i cosiddetti sovranisti o che si definiscono tali a fare i conti con la nostra vera Storia, senza nessuna precomprensione, senza nessun pregiudizio, senza nessuna posizione da tenere e da difendere, altrimenti se continuiamo a raccontarci bugie non costruiremmo nulla. L'art 1 della nostra Costituzione recita "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione."
    Nel 1976, siamo ancora all'interno dei gloriosi 30, al vertice di Portorico un funzionario inglese tale Hibbert, presente al vertice, così commentò a riguardo del nostro Paese al Foreign Office:"Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato». Il funzionario proseguiva sottolineando le preminenti ragioni di politica interna che per Washington, Parigi e Bonn motivavano tale durezza. L’accordo tra i quattro paesi, che doveva rimanere segreto, prevedeva che la concessione di aiuti economici all’Italia sarebbe stata vincolata alla condizione che i comunisti non entrassero al governo, che Roma approntasse efficaci misure di risanamento economico e che fosse garantito un radicale ricambio della leadership democristiana." Dal quotidiano occidentale del 23/03/2019.
    Anche con la Costituzione più bella del mondo siamo sempre stati un Paese a fortissima sovranità limitata e vorrei ricordare alle anime belle del sovranismo che il Parlamento che l' approvò è lo stesso Parlamento che ratificò il diktat di Parigi ( 10 febbraio 1947) con annesso art 16.

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    1. «La firma di Enrico De Nicola

      De Nicola, che non condivideva il testo del trattato, rifiutava di apporvi la sua firma con la giustificazione che, come dichiarato dal rappresentante italiano Soragna, l'efficacia dell'adesione dell'Italia era subordinata alla ratifica dell'Assemblea Costituente e non del Capo dello Stato. Invano si faceva presente che i "quattro grandi" non avrebbero accettato nulla di meno della firma del Capo dello Stato per la ratifica dell'accordo: in un accesso d'ira, De Nicola, rosso in faccia, buttò all'aria tutti i documenti dalla sua scrivania.

      Finalmente, il consulente storico del Ministero degli Esteri, Mario Toscano, riuscì a convincere il giurista napoletano che la sua firma non avrebbe avuto il valore giuridico della "ratifica" bensì quello di mera "trasmissione" della stessa. Il Capo dello Stato comunque, essendo superstizioso, volle far trascorrere almeno la giornata di venerdì, prima di firmare.»

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  3. Mi chiedo dopo quante generazioni un popolo di dominati, dimenticate le umiliazioni e le tragedie, si potrà identificare con la cultura dei dominanti, come un leone che nato in cattività provi affetto per il custode che l'accudisce dalla nascità.

    Se il padre di B. Obama fosse stato un patriota Keniota e avesse cresciuto il figlio con lo spirito sovranista forse il figlio avrebbe percepito il proprio paese natale (Usa) come una gabbia dei dominanti; mentre, se a differenza del padre, si sentisse per ragioni ideali più vicino allo spirito della Costituzione americana allora egli sarebbe al contempo un patriota e un traditore, un dominato e un dominante.

    Secondo me non tutti possono "facilmente" identificarsi con una Costituzione, un territorio, un popolo, uno spirito dominante o sottomesso.

    Infatti non credo che a Nizza sopravviva uno spirito risorgimentale garibaldino, come forse oggi lì non esisterebbe nemmeno un sovranismo francese se Cavour avesse ceduto a Garibaldi.

    Ma se per assurdo qualcuno da quelle parti rivendicasse lo spirito nazionale del Regno d'Italia i sovranisti italiani paradossalmente dovrebbero stare idealmente con i "dominanti" francesi, come loro fedeli al metodo Democratico e Costituzionale.

    Tutto questo per dire che rispetto ai valori fondamentali e universali, preesistenti a ogni questione politica, la rivendicazione della sovranità può essere un mezzo, e non un fine, utile alla creazione di rapporti di forza tra pari solo se in presenza di una Costituzione garante di tali rapporti; se un cittadino ateo del califfato dell'Isis si rifiutasse di arruolarsi per respingere l'avanzata dei curdi lo capirei.

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    1. "Tutto questo per dire che rispetto ai valori fondamentali e universali, preesistenti a ogni questione politica, la rivendicazione della sovranità può essere un mezzo, e non un fine, utile alla creazione di rapporti di forza tra pari solo se in presenza di una Costituzione garante di tali rapporti;"

      Non esistono "valori fondamentali e universali, preesistenti a ogni questione politica", esistono solo la forza, e l'intelligenza di capire come e quando mediare. Se i macachi, per un miracoloso evento, fossero dall'oggi al domani in grado di difendersi dagli umani, allora si dovrebbero aprire ambasciate del regno dei macachi in ogni capitale. Ma fino a quando ciò non avverrà, i macachi continueranno ad essere usati come cavie.

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  4. Riflettevo su ipotesi estreme, usando circostanze storiche o verosimili quali esiti di una sconfitta sovranista, su tutti i fronti della sua rivendicazione, dal furto terminologico all'eclissamento del Principio di sussidarietà degli stati nazionali, immaginando il trionfo del globalismo e del pensiero unico.
    In un tale scenario, dove va di moda prenderlo in culo, fare lo schiavo o fare da cavia l'unico spazio di lotta è quello della difesa della propria umanità, nella coscienza dei valori che si vogliono continuare a mettere alla base ontologica della propria esistenza.
    Mediare implica distinguere tra dominanti e dominati, o individuare i propri pari, ma se tra 200 anni la raffinatezza dispotica del mercato globale ha sradicato ogni possibilità di identificazione del genere umano diversa da quella di assuefatti consumatori allora i temi sovranisti sarebbero mezzi poco efficaci, di sicuro molto meno efficaci di oggi.

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